Le attività di
selezione, raccolta ed elaborazione dei dati rappresentano il fulcro della
ricerca etnografica. Reperire le informazioni significa attingere, a
seconda della domanda di ricerca, ad un vasto ed eterogeneo patrimonio di fonti
(scritte, orali, materiali, ecc.), tra queste spiccano le storie di vita
dalle quali viene generalmente estrapolata una mole
considerevole di elementi. Queste narrazioni risentono tuttavia di un processo
di “nebulizzazione” all'interno del testo, una dispersione che tende a
lasciare inesplorato un aspetto cruciale per la comprensione: la restituzione
della traiettoria esistenziale. In che modo è possibile restituire la
complessità di una storia orale? Siamo in grado di padroneggiare una scrittura
attenta alle forme della partecipazione e all’analisi dei dati e capace, allo
stesso tempo, di generare personaggi all’interno di una narrazione ricostruita?
È sulla base di queste riflessioni che, mercoledì 11 aprile 2018, la Prof.ssa Silvia Vignato ha introdotto il seminario dal titolo "Biografie e contesto: come lavorare sulle traiettorie esistenziali in etnografia", un approfondimento sul tema delle autonarrazioni volto a far emergere i limiti e le potenzialità di questo insostituibile e sfaccettato strumento di ricerca.
L’iperdiffusione e la pervasività delle storie di vita costituisce un fatto indiscutibile della società contemporanea che si alimenta senza sosta di “frammenti autobiografici” (Cuturi 2012). Una sovraesposizione mediatica delle soggettività che si accompagna da alcuni decenni a una proliferazione di “archivi della memoria” – quali la Banca della memoria del progetto Memoro, l’Archivio delle Memorie Migranti (AMM) e molti altri – in cui la valorizzazione del ricordo si stringe alla necessità di rendere il passato partecipe alla costruzione del presente. La moltiplicazione di questi sistemi di archiviazione suscita necessariamente una serie di domande in chi si occupa di percorsi esistenziali, ad esempio, chi consulta questi archivi? Che valore hanno? Chi incrocia le biografie con il dato contestuale? Emerge una codificazione di tipo ideologico della memoria depositata? Domande che permettono di comprendere come, estrapolate dallo schema di archiviazione, le storie orali possano trasformarsi in antropologia.
Le autonarrazioni costituiscono per l’antropologo una preziosa chiave d’accesso al terreno di indagine – aprendo un varco immediato nel vissuto interiorizzato dei propri interlocutori – nonostante ciò le storie di vita restano, paradossalmente, un genere poco considerato in antropologia. Questa reticenza nei confronti delle autonarrazioni è legata ad una serie di limiti teorici e pratici: se da un lato permane la tendenza a privilegiare l’attendibilità delle fonti scritte, dall’altro esistono una serie di variabili connesse ad esempio alla scelta degli interlocutori; alla loro disponibilità a confidarsi attraverso un racconto spontaneo (particolarmente difficile nei contesti permeati da illegalità e sfruttamento); al senso di intrusione e/o di vergogna nell’affidare la propria storia ad un estraneo; ai problemi etici rispetto ad alcuni temi ritenuti sensibili; ecc.
Privilegiando il concetto di traiettorie biografiche rispetto alle “storie di vita”, Silvia Vignato ha intenzionalmente posto l’accento sulla dimensione processuale dell’esistenza, nonché sulla pluralità delle sue interpretazioni: il racconto che un individuo produce rispetto al proprio passato tende non solo a variare a seconda del destinatario, ma continua a essere rielaborato e risignificato alla luce del presente, assumendo valenze diverse nel processo di restituzione.
La narrazione autobiografica, oltre a rappresentare un bacino formidabile di informazioni, consente al ricercatore di riorganizzare il sapere elaborato su un determinato campo – composto spesso da elementi eterogenei e slegati fra loro – innestandolo su di uno schema di vita che, oltre a dettare il tempo, scandisce eventi, relazioni, rappresentazioni e reinterpretazioni del sé.
«Stili narrativi differenti, se presenti, occultano anche fatti diversi» (Vignato): ogni soggetto ha una narrazione di sé che varia a seconda delle fasi della vita, della condizione socio-economica, degli interlocutori e/o del dispositivo a cui affida la propria memoria, ecc. Una variabilità che favorisce la continua rivalutazione del dato esistenziale.
Chi si racconta può dunque fare affidamento su una serie di schemi narrativi del sé capaci di far emergere o di celare particolari aspetti. Cogliere tali schemi costituisce evidentemente un’operazione complessa che richiede una particolare combinazione di sensibilità e strategia. In primo luogo, Vignato consiglia di lavorare sulla diacronia, ovvero su ciò che la gente dice sulla “storia dell’altro ieri”. È indispensabile scovare le cosiddette “zone d’ombra”, affinando la capacità di cogliere il non detto: una persona non è mai come appare, tuttavia la sua storia costituisce sempre un tracciato utile per incrociare e vagliare altri dati e quindi saggiare altri livelli di realtà.
Il pettegolezzo si conferma, come da tradizione, un ottimo metodo per ottenere una microrestituzione circa la validità dei dati raccolti (Gluckman 1983). Vignato suggerisce inoltre di “andare a caccia” di quelli che chiama gli operatori cognitivi, ovvero gli snodi vitali (eventi, traumi, scelte decisive, ecc.) che hanno sollecitato una metamorfosi esistenziale e la riformulazione de sé.
Scandire il racconto attraverso il filtro dei fattori determinanti è un’operazione decisiva del processo di narrazione a specchio, rappresentando un momento cardine per l’appropriazione cognitiva della propria esperienza di vita e, di conseguenza, per la reinterpretazione del sé.
Occorre al tempo stesso lavorare sulla percezione, imparando a cogliere il riverbero – o l’eco – che un microevento produce e che influenza non soltanto gli attori direttamente coinvolti ma si diffonde, in maniera concentrica, all’intero spazio sociale.
Il crescente interesse nei confronti dell’autonarrazione risulta storicamente connesso allo sviluppo dei Postcolonial Studies a partire dai quali, complice lo stile narrativo di stampo letterario, gli antropologi hanno cominciato a rispondere alla necessità degli interlocutori di “parlare di sé, per sé”: in tal senso, l’autobiografia viene intesa come una fonte preziosa capace di dar voce alla storia dei dominati, degli oppressi (Clemente 2010). L’antropologo è dunque un narratore (Geertz 1973; 1988) che costruisce un racconto sulla base delle traiettorie biografiche a cui ha accesso.
Ma chi lo autorizza a parlare per gli altri?
Il problema etico della costruzione del “racconto degli altri” rappresenta una questione a lungo dibattuta in antropologia che trova una parziale risoluzione, al di là del più noto sistema del consenso informato, attraverso l’attivismo, espresso da Vignato come “l’asservimento dell’antropologo alle storie degli altri”, che nobilita la sua ricerca e lo autorizza a scrivere per chi non ha possibilità di far sentire la propria voce e la propria sofferenza.
Riferimenti bibliografici:
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Clemente P. (2010), L’antropologo che intervista. Le storie della vita, in Pistacchi M. (a cura di) Vive voci. L’intervista come fonte di documentazione, Donzelli, Roma.
Clifford J., Marcus G.E. (1986), Writing Culture: The Poetics and Politics of Ethnography, University of California Press.
Crapanzano, V. (1980), Tuhami: Portrait of a Moroccan, University of Chicago Press.
Cuturi F. (2012), Storie di vita e soggettività sotto assedio, «Antropologia», No. 14, p. 29-70.
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