martedì 19 dicembre 2017

Perché la ricerca nel campo dell’arte contemporanea è importante per l’antropologia?

Perché la ricerca nel campo dell’arte contemporanea è importante per l’antropologia? È questa la domanda sulla quale Thomas Fillitz, antropologo dell’Università di Vienna, ci ha invitato a riflettere nel corso del suo seminario tenutosi presso il dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale il 30 novembre.

Thomas Fillitz si occupa da qualche anno dello studio dell’arte contemporanea in Africa occidentale, in particolare a Dakar.
Fillitz cerca di riportare l’attenzione su un campo di ricerca che è stato oggetto di critica, in quanto si accusa l’antropologia dell’arte di non aver contribuito alle grandi teorie della storia dell’antropologia. Tuttavia, oggi gli studi sull’arte non costituiscono più un area marginale all’interno del sapere antropologico.

A partire dagli anni Novanta si sono affermate diverse teorie riguardanti il rapporto tra antropologia e arte.

Coote e Shelton in "Anthropology, Art and Aesthetics" (1992), affermano che con l’analisi di oggetti appartenenti alla cultura materiale si possono comprendere valori sociali che è difficile acquisire in altri modi.

L’arte non è solo da guardare, anche se quando noi guardiamo stiamo già facendo qualcosa. Art is about doing. Questo è il pensiero esposto da Gell in "Art and Agency" (1998). Egli si concentra sull’importanza dell’arte nel kula studiato da Malinowski, in particolare sulle decorazioni che adornano le canoe. Il lavoro dell’artista è accompagnato da un rituale, acquistando così un potere magico. Secondo i due autori, il lavoro dell’artista è di estrema importanza nel momento in cui la canoa, avvicinandosi alla costa, si mostra in tutto il suo splendore permettendo al proprietario di ricevere i migliori pezzi del kula. I lavori di grande qualità mostrano tutto il loro potere magico e di riflesso mostrano il potere del padrone della canoa, il quale eclissa l’artista. Tuttavia, quest’ultimo ha il merito di avere creato un oggetto materiale che diventa un mediatore nella relazione sociale.

Decorazione della prua di una canoa utilizzata durante il kula
Ci sono artisti come Lothar Baumgarten che hanno fatto esperienze antropologiche. Alcuni artisti hanno smesso di creare oggetti d’arte e la loro opera consiste nel collaborare con le popolazioni locali intessendo delle relazioni sociali. Queste esperienze fanno riflettere sulle potenzialità che il mezzo artistico potrebbe avere per noi antropologi.

L’antropologia dell’arte, secondo Fillitz, non solo ci permette di creare uno spazio di riflessione con artisti e curatori per poter gettare uno sguardo oltre, ma ci aiuta a domandarci: che cosa possiamo imparare noi antropologi dal lavoro degli artisti? Oltre all’etnografia, esistono altre possibilità per comunicare ciò che l’antropologo raccoglie durante il suo lavoro?

Oltre a questo, vi è la possibilità, secondo Fillitz, di trovare una connessione tra il mondo dell’arte e alcune teorie antropologiche. È il caso dell’aspirazione, come capacità culturale, descritta da Appadurai; in quanto, nell’arte si trova una visione del futuro e spesso alcune opere d’arte sono sintomo di cambiamento sociale. Anche il concetto di imminenza utilizzato da Canclini può essere associato all’arte, poiché questa esprime qualcosa che potrebbe succedere, oppure può proporre visioni di un altro mondo.

Proprio queste idee stanno alla base delle opere dell’artista ivoriana Mathilde Moro, incontrata da Thomas Fillitz durante il lavoro sul campo. La questione principale sollevata dai suoi quadri è quella sul futuro. Quale vita è possibile oltre a quella che viviamo? Inoltre, Mathilde Moro cerca di trasmettere l’indifferenza della società. È interessata alle emozioni che le persone provano quando perdono tutto e cerca di riportare queste sensazioni nei suoi quadri.

Un quadro di Mathilde Moro
Fillitz ha concluso il seminario affermando l’importanza dello studio delle dinamiche che coinvolgono gli artisti e le loro opere, soprattutto in una visione locale, soffermandosi sui problemi più sentiti dagli artisti appartenenti a piccole comunità.

lunedì 18 dicembre 2017

Umorismo e religione: il lato ironico della trascendenza

Il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa" ha ospitato, giovedì 23 novembre 2017, la prima Lectio Magistralis in memoria del Professor Ugo Fabietti, tristemente scomparso lo scorso maggio. Ad inaugurare questa modalità di incontro - che proseguirà con cadenza annuale - è stato invitato il Prof. Francesco Remotti, antropologo africanista di formazione filosofica, figura di riferimento nella vita accademica e personale del Prof. Fabietti.

Ad una sala gremita di studenti, dottorandi e docenti, il Prof. Remotti ha offerto un’appassionante riflessione sull’umorismo nelle religioni dal titolo “L’umorismo teologico: un contributo all’etno-teologia”: un esempio paradigmatico di quel modus operandi caro alla disciplina e in particolare al Prof. Fabietti che esortava ad una costante articolazione tra etnografia ed elaborazione teorica.

La lezione prende avvio con un rimando al volume «Luoghi e corpi» (1993) che Remotti recupera al fine di elaborare una prima importante tripartizione dell’esperienza religiosa: sacralizzazione o autonomia del sacro; desacralizzazione radicale; desacralizzazione morbida.
L’umorismo teologico viene presentato a partire da alcuni esempi di “desacralizzazione morbida”, una terza via attraverso la quale culture e società hanno cercato di destreggiarsi tra i due poli antitetici della sacralizzazione e della desacralizzazione: una forma alternativa di desacralizzazione - incompleta - che, pur ammettendo l’artificiosità e la finzione dei culti, riconosce alle credenze un livello di autonomia tale da influenzare l’esistenza umana, senza tuttavia condizionarla in termini assoluti.
La riflessione di Remotti si innesta ed insiste sulla necessità, espressa da Fabietti nel volume «Materia sacra» (2014), di ripensare la dimensione religiosa da un punto di vista materiale: il pensiero trascendente - alla base di ogni culto - si rivela infatti concepibile solo in riferimento alla materialità, la quale «“concretizza” l’esperienza della trascendenza» e mette in evidenza il «lato dinamico» della religione. La materia/oggetto rende così “pensabile” ciò che - per sua propria natura - tende a sfuggire alla presa della ragione.

La desacralizzazione morbida, secondo Remotti, può subire una serie di declinazioni: il ridere degli dei; la divinità che ride degli uomini; il ridere con gli dei.
Il rituale Chihamba - uno dei più importanti riti di afflizione della società Ndembu - offre un esempio di “desacralizzazione morbida” che consente ai partecipanti di giungere ad un’inedita consapevolezza teologica proprio attraverso il contatto con la materialità degli oggetti e l’acquisizione di un particolare senso dell’umorismo nei confronti del sacro.  
Nell’analisi proposta da Victor Turner - Chihamba the white spirit: a ritual drama of the Ndembu (1962) - il rituale ndembu assume le sembianze di un enigma irresolubile; sarà Mary Douglas a suggerire a Turner una chiave di lettura che lo aiuterà ad uscire dall’impasse epistemologico in cui era caduto: per comprendere a fondo il Chihamba è necessario seguire la via dello “scherzo”.
In effetti, il Chihamba - letteralmente “spirito bianco” - rappresenta qualcosa in più di un rituale; esso costituisce per Turner un “meta-rituale” che racchiude al suo interno un elemento ulteriore, costitutivo, capace di “aprire una breccia attraverso modelli consuetudinari” (Turner, 1962): l’umorismo.
Al centro del rituale si trova Kavula - l’ambiguo semi-dio portatore di benessere e di tormenti - che trova una peculiare rappresentazione in un cumulo di oggetti della quotidianità, posti all’interno di un piccolo recinto, accatastati e ricoperti da un telo bianco che ne cela il contenuto. Il rito ha inizio nel momento in cui i responsabili del culto invitano un certo numero di candidati a colpire sulla “testa” Kavula - intendendo per “testa” il mortaio posto in cima alla catasta - e a compiere tale azione ridendo gioiosamente. Interrogati sulla presunta morte di Kavula, i candidati replicano con una risata spiegando come sotto al telo non ci fosse, in realtà, Kavula ma solo una zappa, un mortaio, ecc. Tale risposta sancisce la riuscita del rito: i partecipanti passano così ad assumere il ruolo di candidati di responsabili del culto.
Durante il rituale i partecipanti assimilano ed istituzionalizzano un certo senso comico, non a caso il rito si conclude ammettendo il carattere scherzoso della performance: in realtà si è trattato di uno scherzo, “uno scherzo di Chihamba”.
Il riso apre così un varco che permette di accostarsi alla divinità in maniera inedita, o meglio incongruente, in quanto evita che una data situazione coincida in termini razionali: «Ai candidati si è fatto vedere che l’effige di Kavula è letteralmente una costruzione sociale, un artefatto culturale» (Turner 1962).
In questa prospettiva il riso viene presentato come un elemento culturale “buono da pensare”, non solo in quanto riflesso comune all’umanità, ma quale potere destabilizzante capace di generare nuovi livelli di comprensione. Il riso - nei casi riportati - emerge da situazioni di incongruenza che consentono il “saltar fuori” dall’ordinario predisponendo alla riflessività.

Il moltiplicarsi degli esempi etnografici tratti dalle mitologie africane Ndembu, Fon, Peul, Giziga confermano quanto le pratiche rituali in queste comunità giochino costantemente sul tema dell’ironia, e soprattutto sul “farsi beffe” della divinità. Al contrario dei tre grandi monoteismi che - dice Remotti - sembrano aver relegato il riso ai margini dell’esperienza religiosa.
Il ridere della divinità e il tragico della vita si intrecciano e accomunano tutti i racconti presentati: in particolare è la figura del trickster - letteralmente colui che fa gli scherzi, il burlone - a permeare tali narrazioni. Il trickster mette in ridicolo tutti, anche la divinità, ed è una figura centrale nelle mitologie degli Indiani del Nord America ma non solo.
Spesso sono le donne, con le loro azioni buffe e maliziose, a combinare degli scherzi scatenando la collera divina ed il suo ritirarsi nell’alto dei cieli, lasciando gli uomini in balia del caos e dei loro inediti drammi. Il ritirarsi della divinità - unitamente al tema dello “scherzo” - rappresentano dei topoi centrali in numerose narrazioni mitologiche di cui ci informa l’etnografia africanista.

Anche le religioni abramitiche trovano un loro posto nella riflessione: è curioso notare come il riso, proibito nella relazione con il divino, è presente nella narrazione biblica fin dal principio - addirittura nel libro della Genesi - ed in particolar modo nella vicenda di Abramo e Sara.
Il patto siglato tra Dio e Abramo e suggellato dall’imperativo della circoncisione per tutti i nuovi nati, regala ai due anziani coniugi la gioia della genitorialità, fino a quel momento negata a causa della sterilità di Sara. Informati dell’arrivo di un figlio, Sara e Abramo reagiscono ridendo, un riso che non sfugge alla divinità e che costerà ai due protagonisti un duro rimprovero. Il lieve sarcasmo appare così una reazione propriamente umana, che sembra non essere compresa e comunque non tollerata da Dio, che scorge in quelle risate un evidente scetticismo e quindi una grave mancanza di fede.
Tuttavia, in altri due salmi sarà proprio Dio a ridere degli uomini, facendosi beffe di loro.
Per punire l’irriverenza di Abramo e Sara, Dio impone loro - sarcasticamente - il nome del nascituro: Isacco, ovvero “ha riso”!
Ma, se l’umorismo rappresenta un riflesso impertinente secondo la fede monoteistica, come spiegare tanta insistenza sulla questione del riso da parte dei redattori della Genesi, si chiede a più riprese Remotti? Forse per dimostrare agli uomini che Dio “può” far ridere - perché pone l’uomo di fronte a situazioni dall’incongruenza spiazzante (in questo caso due neo-genitori quasi centenari) - tuttavia non è permesso ridere di lui e tantomeno del suo potere sconfinato.
Il tema del riso torna ancora una volta nell’episodio biblico - quasi a sfidare nuovamente la pazienza divina -  quando Sara, alla nascita di Isacco, esclama: «Dio mi ha dato di che ridere!» …

In tutti i casi riportati, l’umorismo deriva dall’incongruenza generata dall’opportunità di rendere “possibile l’impossibile”: picchiare Kaluva sulla testa; diventare genitori a quasi cent’anni; gettare una secchiata di acqua sporca in faccia a Mawu-Lisa, la divinità androgina dei Fon del Dahomey; comportarsi in maniera oscena come i buffoni sacri tra gli Indiani del Nord America; o ancora, praticare l’ascesi al punto di ridere con la divinità, secondo l’esempio del misticismo sufi e dell’ascetismo di matrice bizantina dei “folli di Dio”.
Questi casi etnografici mostrano come l’umorismo costituisca un elemento chiave nella comprensione della dimensione rituale di molte società: attraverso di esso, diverse culture hanno dimostrato come sia possibile “desacralizzare ridendo un po’”, riflettendo sulle proprie credenze - relativizzandole - ma senza smantellarle. Questa terza via evita in sostanza il rischio di cadere negli eccessi della sacralizzazione spinta o della desacralizzazione radicale, inclini a pericolose derive, intolleranze e vuoti culturali.

San Antonio de cabeza, figura venerata nell'America centro-meridionale.
Il santo è posizionato a testa in giù dalle donne in cerca di marito fino al compimento della grazia.