mercoledì 12 dicembre 2018

Chinese Ethnology. The Contributions of the past and the prospects of the future. Incontro con il Professor Yang Shengmin


Lunedì 10 dicembre l’Università degli studi di Milano-Bicocca ha ospitato il seminario del Professor Yang Shengmin della Minzu University of China dal titolo “Chinese ethnology. The contributions of the past and the prospects of the future”.
Il Professor Yang Shengmin ha illustrato brevemente lo sviluppo della disciplina antropologica in Cina soffermandosi in particolar modo sulle continue disgregazioni e successive riaggregazioni dei dipartimenti di studi sociali e antropologici. Il popolo cinese e di conseguenza anche i suoi intellettuali vissero un lungo periodo di isolamento dagli anni 20 del Novecento. Durante il periodo comunista, indicativamente dal 1966 fino alla morte del leader Mao Tse-Tung nel 1976 vennero coniati nuovi codici di condotta e divennero vitali nuovi concetti chiave, come “nazione”, “società” ed “etnia”. In questo periodo storico gli insegnamenti antropologici ed etnologici vennero aboliti in quanto pregni di valori borghesi e quindi lontani dall’idea di utilità che ha guidato il comunismo cinese anche successivamente alla morte di Mao.

Eppure negli anni precedenti l’ascesa del potere di partito diversi erano stati i contatti fra antropologi cinesi e stranieri, soprattutto occidentali e russi, che resero possibile la traduzione di testi fondanti della disciplina anche per il pubblico cinese. Negli anni 20 del Novecento la disciplina visse un periodo di splendore, sebbene permeato da un alone di isolamento politico ed economico, che portò alla nascita di diverse istituzioni fondamentali per l’avanzamento scientifico come ad esempio la Chinese Society of Ethnology fondata nel 1928 a Nanchino. Diversi antropologi insegnarono in questi istituti e dipartimenti universitari come ad esempio Fei Xiaotong o Wu Wenzao: questi ed altri studiosi si erano formati nel continuo confronto con le scuole di pensiero occidentale e cercarono sempre di rimanere in contatto con la comunità accademica estera.
Sebbene questi studiosi avessero studiato la disciplina antropologica attraverso le teorie scientifiche occidentali, ciò non impedì loro di proporre propri framework teorici e applicarli soprattutto all’interno degli ethnic studies. Dal 1937 al 1949 gli antropologi cinesi vissero un periodo di fioritura teorica e vi fu l’ampliamento dei campi di applicazione del sapere: la guerra fra Cina e Giappone per il territorio della Manciuria e della Mongolia rese necessario uno studio approfondito dei gruppi etnici presenti nelle zone di confine. La Cina iniziò dunque ad attrarre anche studiosi stranieri interessati alle dinamiche interetniche e di potere all’interno della società cinese; si assistette ad una progressiva occidentalizzazione (sempre all’interno dell’area cinese) del focus antropologico.

Il Professor Yang Shengmin, interrogato sulle caratteristiche dell’antropologia cinese, ha indicato quali siano i pilastri fondamentali della disciplina: l’applicabilità (la visione cioè dell’antropologia come uno strumento, concetto sul quale si è più volte ritornati), l’interdisciplinarità, l’analisi contestuale storica, il focus sui communities studies ed infine il ruolo del marxismo. Dal 1949 al 1964 l’antropologia cinese ha attraversato due fasi probatorie importanti; in primo luogo si è assistito alla progressiva trasformazione del National Identification Survey che permetteva di raccogliere e catalogare una grande quantità di dati a proposito delle minoranze presenti sul territorio cinese. L’influenza dell’etnologia sovietica fu fondamentale per questa fase di sviluppo della disciplina, che diveniva dunque asservita alla costruzione nazionale sotto l’influsso della volontà del partito. L’identificazione etnica di tutte le minoranze presenti sul territorio divenne la base sulla quale costruire l’unità dello stato nazione e si continuarono a finanziare progetti di ricerca inerenti queste tematiche per 14 anni. Eppure negli anni 60 si assistette ad un progressivo allontanamento della Cina dall’Urss e di conseguenza terminarono diversi progetti di ricerca e cooperazione. Si entrò quindi nella seconda fase probatoria che affrontarono gli antropologi cinesi che si videro fortemente contestati in quanto “elementi di destra” e portatori di un’antropologia altamente borghese. In questo periodo l’etnologia di stampo sovietico venne fortemente criticata come revisionista e messa da parte per far spazio agli ethnic studies che dagli anni 60 in poi rimpiazzarono totalmente l’etnologia.
Se dal 1966 al 1976, sotto il regime di Mao Tse-Tung, l’antropologia cinese venne tacciata di essere una disciplina borghese e di conseguenza marginalizzata, nel 1978 con Deng Xiaoping la disciplina visse una nuova era. Nei trent’anni successivi si assistette a grandi cambiamenti: la disciplina tornò ad essere insegnata nelle università, si concluse il periodo isolazionista e si ebbe il superamento della divisione delle varie scuole teoriche. Negli anni 90 la Cina dovette affrontare grandi problemi a partire da un aumento sproporzionato della popolazione rispetto alle risorse disponibili, la tensione crescente fra città e campagna, la globalizzazione, lo sviluppo economico, i nuovi impianti industriali ed i problemi ambientali. Queste problematiche, dovute anche alla rapida e prepotente entrata della Cina sul mercato internazionale, ha acceso focolari etnici e lotte di classe che parevano sopite, riaccendendo di conseguenza anche l’interesse di diversi antropologi per la Cina e la sua immensa ricchezza.
Fra gli interventi dei partecipanti due argomenti hanno colpito la mia attenzione. Mi riferisco in particolar modo alla questione della colonizzazione interna e del ruolo fra antropologi cinesi e campo di ricerca africano. Il fantasma del colonialismo si è manifestato anche in questo seminario ma non è stato possibile decostruire parte della risposta che il Professor Yang Shengmin ci ha fornito. La prima domanda riguardava la questione della han-izzazione del territorio cinese e se questa presenza maggioritaria dell’etnia Han non corrisponda ad una qualche forma di colonizzazione delle altre 55 etnie cinesi e se non vi sia uno sbilanciamento di potere e rappresentazione etnica. Mentre la seconda domanda riguardava il ruolo dell’antropologia cinese contemporanea rivolta ad altri paesi, in particolare al contesto africano. La nostra disciplina si porta tuttora con sé lo spettro del giustificazionismo del periodo coloniale e appare dunque importante pensare criticamente al ruolo che gli antropologi giocano sul campo nell’attualità. L’Africa è un continente nel quale gli interessi sono sempre più manifesti soprattutto per quanto concerne lo sfruttamento delle risorse naturali e quindi sarebbe interessante analizzare i ruoli politici, economici e sociali giocati (anche) dagli antropologi impegnati nello studio delle società africane.
A conclusione del suo intervento, il Professor Yang Shengmin ha voluto sottolineare nuovamente l’importanza della disciplina antropologica per la sua rilevanza sociale e per l’allenamento del pensiero critico, invitando i partecipanti a focalizzare l’attenzione e l’analisi antropologica sulle potenzialità applicativa della ricerca.

mercoledì 5 dicembre 2018

Festeggiamo la Giornata Mondiale dell'Antropologia 2019!


Il Corso di Laurea Magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche e il Dottorato in Antropologia Culturale e Sociale (DACS) hanno aderito al World Anthropology Day che verrà celebrato il 21 febbraio 2019! 


Si tratta di un'iniziativa lanciata alcuni anni orsono dall'American Anthropological Association, "a day for anthropologists to celebrate our discipline while sharing it with the world around us".
L’attività è volta all'intensificazione dei rapporti con le parti sociali e il mondo del lavoro. Obiettivo è mostrare il ruolo pubblico dell’antropologia e le sue applicazioni concrete, presentando esempi virtuosi di attività svolte sul territorio e fornendo nel contempo l’occasione per generarne di nuove. Per questo desideriamo essere il più inclusivi possibili.

Per facilitare la partecipazione delle persone e portare l’antropologia nei luoghi del lavoro, la maggior parte delle attività non si terrà in Bicocca, ma sarà disseminata in vari punti della città di Milano.

La giornata proporrà:

1) Esperienze di collaborazione fra antropologi, società civile e mondo del lavoro, presentate possibilmente nei luoghi in cui si sono svolte, coinvolgendo le diverse figure che vi hanno partecipato  e la cittadinanza;
2) Workshop, laboratori ed esperienze guidate, anche itineranti, nei diversi quartieri della città (sono previsti "tour antropologici“ per Milano negli ambiti dell'arte, cultura, musei; ambiente; servizi sociosanitari; turismo; migrazioni).

Oltre alle attività promosse e gestite direttamente da Bicocca, offriamo la possibilità a tutti gli antropologi di proporre iniziative, da gestire in autonomia o con la nostra collaborazione, da inserire nel calendario dell’evento (previa approvazione del comitato organizzatore).

La giornata si aprirà con una tavola rotonda sul ruolo pubblico e la funzione sociale dell’antropologia (con specifico riferimento all’area milanese, la “città metropolitana”) e si chiuderà la sera con un evento conviviale e uno spettacolo teatrale.
Nella mattinata è prevista attività di informazione nelle scuole milanesi.

Le proposte vanno inviate a anthroday2019@gmail.com  entro il 30 dicembre 2018 indicando:

- CHI la realizza (individuo o gruppo, solo o in collaborazione)
- DI COSA tratta (descrizione sintetica e dettagliata dei contenuti della proposta)
- DOVE si svolge l'iniziativa
- QUANDO si svolge (orario)

Vi ringraziamo per l’attenzione e contiamo sulla vostra diffusione!


sabato 1 dicembre 2018

La rivincita della ʻcarneʼ

Il workshop “Politiche del corpo e governance della riproduzione: ʻcarneʼ, tecnologie e saperi”,  tenuto il 29/11 e 30/11 presso il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione dell’Università Milano-Bicocca e organizzato da Claudia Mattalucci (Università Milano-Bicocca), è stato dedicato al tema delle materialità corporee della riproduzione. 
La prima giornata ha coinvolto sei studiose che hanno esplorato pratiche culturali, dispositivi sociali e politiche istituzionali attraverso cui oggi si pensa e modella la ʻcarneʼ nella nascita, la filiazione e la genitorialità. Come ha notato Mattalucci, Il corpo e la riproduzione sono tematiche al centro di un grande interesse scientifico, politico e mediatico, rinnovato dalle recenti innovazioni tecnologiche nel campo della procreazione. Negli ultimi anni si è assistito alla nascita di movimenti che rivendicano nuovi diritti contrastanti sulla responsabilità riproduttiva, alimentando dibattiti etici e morali su vita, morte, parentela, natura e modernità. 

Rossana Di Silvio (Università Milano-Bicocca) ha riflettuto sull’essere genitori oggi di un figlio difettuale, presentando un lavoro etnografico sulle strategie adottive nel territorio milanese e gallurese. Nel tentativo di conciliare i Critical Kinship studies con i Disability Studies, Di Silvio si è interrogata su come le famiglie riconfigurino i progetti e le aspettative di genitorialità in presenza dell’arrivo di un bambino difettuale. Di Silvio ha notato come l’intenzionalità e la scelta di diventare genitori si sia trasformata grazie all’utilizzo di pratiche mediche – come i test di screening – che consentono di ridurre e controbilanciare il grado di incertezza e casualità del futuro. Riproducendo il mito del bambino ideale privo di difetti, tali tecnologie veicolano la promessa di una salute per tutti coloro che ne hanno accesso e fungono da motivo di rassicurazione per molte famiglie.                                                                                          
Quali debbano o non debbano essere le modalità di intervento mediche sul corpo e sulla vita sono domande al centro di riflessioni, contestazioni e negoziazioni politiche e morali negli spazi e luoghi della biomedicina. Il parto diventa oggetto di critiche a partire dagli anni’80, quando il movimento femminista della differenza ha cominciato ad associare le tecniche mediche che vi intervengono ad una svalutazione delle capacità  riproduttive del corpo femminile. Focalizzando l’attenzione sulle pratiche concrete che configurano il parto naturale nella sicurezza di un reparto ospedaliero di Poggibonsi – la ricostruzione di un ambiente “domestico”, le diverse posizioni adottate dalla partoriente, l’utilizzo dell’anestesia epidurale, il taglio del cordone ombelicale, ecc., - Chiara Quagliariello (EHESS, Paris) ha sostenuto che diverse ambiguità e contraddizioni entrano in gioco nel processo di definizione di cosa sia il “naturale” e quali siano i ruoli i ruoli femminili e maschili nel parto. Mettendo in luce anche la presenza di un discorso razzializzante degli operatori sanitari del reparto, che associava alle pazienti senegalesi una maggiore capacità riproduttiva ed un più alto grado di sopportazione del dolore rispetto alle donne bianche. 



Mattalucci ha presentato una serie di ricerche sulla sepoltura dei resti dell’interruzione volontaria di gravidanza e delle perdite perinatali, condotte attraverso l’analisi delle rappresentazioni mediatiche, politiche istituzionali e l’osservazione di un gruppo di auto-mutuo aiuto per il lutto perinatale a Milano.  Che cosa rappresentano queste materialità corporee per gli attori sociali? Quali sono gli effetti dell’attribuzione di un nome a questi resti sul vissuto di donne e coppie in situazioni di differente fertilità? Mattalucci ha proposto la categoria di ʻcarneʼ come significato fluttuante che si specifica nel tempo e nelle relazioni e che si contrappone all’attribuzione di un ontologia uniforme. L’adozione della categoria di ʻcarneʼ permette secondo la ricercatrice di oltrepassare una strumentalizzazione pubblica ed istituzionale del rapporto problematico fra lutto perinatale ed interruzione volontaria di gravidanza, poiché consente di far emerge alcune intersezioni fra posizioni ed esperienze a prima vista inconciliabili.               
                                                     
Corinna Guerzoni (Western Fertility Institute, Los Angeles) ha aperto la sessione pomeridiana di interventi discutendo le forme di biasimo e condanna morale a cui è soggetta la maternità surrogata. Leggendo la maternità surrogata come un processo organico inserito in un percorso relazionale fra surrogates e famiglie di intenzione, Guerzoni ha posto l’accento sulla parola “restituzione” usata dalle surrogates per descrivere il proprio compito nella clinica americana dove ha condotto e conduce le sue ricerche. Formule come ʻdare viaʼ e ʻrestituireʼ sottolineano l’appartenenza alle famiglie di intenzione del corpo portato in grembo dalle surrogates. La maternità surrogata si configura dunque a tutti gli effetti come una pratica che costruisce una visione altra rispetto a categorie socialmente dominanti di maternità e genitorialità.

I legami di filiazione attraversano un momento turbolento in Italia, che vede una frattura e una grande frammentazione regionale e comunale sul piano del riconoscimento legale di diritti al genitore “biologico” e al genitore “sociale”. Cosa resta della natura della parentela una volta tagliate alcune caratteristiche come il riconoscimento legale e l’unità di residenza? Muovendo da questa domanda provocatoria e critica verso la nozione euroamericana di parentela, Alice Sophie Sarcinelli (Université de Liège-Università di Milano-Bicocca) ha presentato le strategie di riconoscimento e visibilità del ruolo di co-parent (genitore di intenzione) nella vita famigliare di alcune coppie omogenitoriali italiane.     
                                                                                                                        
Léa Linconstant (Université de Aix Marseille) ha esaminato la costruzione del ruolo di paziente nella procreazione medicalmente assistita (P.M.A.) in un Centro Pubblico in Italia. Leggendo questo processo di identificazione come un lavoro di costruzione sul corpo in cui è centrale la temporalità, Lincostant si è dedicata a ricostruirne le diverse fasi. In un primo momento, nelle consultazioni iniziali fra personale medico e famiglie l’intervento medico è percepito come un’intrusione nella vita di coppia. I ginecologici sono impegnati in un processo di trasformazione dell’infertilità da dramma esistenziale a forma patologica trattabile, che Lincostant ha definito ʻdesingolarizzazioneʼ. Dalla prima fase si passa a quelle successive in cui si intensifica progressivamente l’intervento medico fino al momento finale di identificazione del ruolo di paziente in un modo coerente e funzionale con il processo di P.M.A. 
                                                                                                                                   
Lucia Gentile (Università di Milano-Bicocca – INALCO, Paris) ha concluso la giornata con un’etnografia dettagliata sull’isterectomia. Muovendosi sia all’interno che fuori da contesti ospedalieri, Gentile ha presentato le diverse costruzioni della categoria di ʻuteroʼ fra credenze locali e saperi medico-scientifici nella regione del Punjab, India. Nel tentativo di spiegare il massiccio ricorso in India all’isterectonomia in presenza del rifiuto di altre forme di contraccezione, Gentile ha sostenuto che tale ricorso non sia maturato da un’ignoranza della biomedicina ma piuttosto vada considerato rispetto ad un sapere locale che deriva dal vissuto e dall’esperienza. I medici disconoscono questa forma di sapere incorporato, costituito da tecniche di controllo della fertilità così come sono interpretate dalle donne del luogo.



La seconda giornata è stata interamente dedicata alla conferenza tenuta da Dominque Memmi “La rivincita della carne: Nuove forme e supporti dell’identità”. Memmi è direttrice di ricerca in Scienze Sociali presso il Centro Nazionale della Ricerca Scientifica di Parigi (CNRS),  e autrice di diversi articoli e monografie sul tema dell’inizio e del fine vita che propone di pensare insieme, fra cui Faire vivre et laisser mourir (La Découverte, 2003) e Le gouvernement des corps (Fassin, Memmi, Èditions de l’EHESS, 2004). La sociologa francese ha presentato le riflessioni iscritte nella sua opera La Revanche de la chair: Essais sur le nouveaux supports de l’identité (Editions du Seuil, 2014), in cui si è dedicata a ricostruire le fasi della nascita di un nuovo dispositivo ideologico che definisce ʻbio-psicologismoʼ.                                                                                                                                            
Per Memmi, a partire dagli anni 90’ questo dispositivo comincia a iscriversi definitivamente nelle pratiche di alcuni ceti sociali nell’area euroamericana: i professionisti della vita, della salute fisica e mentale e i professionisti della morte. Cruciale nella sua genealogia è il processo di accentramento sul corpo che inizia a partire dagli anni 70’, quando il corpo si pone al centro di un nuovo processo di ripensamento ridiventando appannaggio e responsabilità dell’individuo al di là delle prescrizioni e proibizioni delle autorità religiosa cattoliche. Da questa fase si è passati al contesto contemporaneo in cui la psiché assume un ruolo centrale nella spiegazione dei processi corporei, ed in cui l’ossessione del benessere psicologico e “l’obbligo di proporre” si iscrivono nelle pratiche dei professionisti impegnati in questioni che hanno a che fare con vita e morte. Pratiche attraverso cui si reinventano legami e identità filiali che sono autonomi, liberi ma allo stesso tempo fluttuanti e fragili. Il rifiuto della cremazione poiché impossibilitata a favorire l’elaborazione della perdita è un esempio di questa ossessione intorno alla psiché, e della diffusione di una nuova teoria del ʻlutto impossibileʼ in assenza di corpo. Teoria che si impone all’attenzione dei professionisti di vita e morte posti di fronte all’insorgere di nuove difficoltà e domande, fra cui cosa fare dei resti carnali degli aborti ma anche come agire con coloro che chiedono il trattamento di fine vita.
                                                                                              
Adottando lo strumento della grande comparazione sociologica di contesti differenti nell’area euroamericana – condotta soprattutto attraverso una disamina dei principali testi psicoanalitici sull’argomento – Memmi ha offerto un’importante chiave analitica per indagare le inquietudini e le turbolenze che sorgono attorno a vita e morte nel presente. Lungi dal voler proporre un unilineare e universale processo evolutivo del pensiero sul corpo, la sociologa ha suggerito di guardare alle compresenze ed intersezioni fra passato e presente ma anche alle differenze contestuali. La ʻcarneʼ, il controllo ʻbio-psicologicoʼ, e le sue diverse fasi storiche si pongono dunque come un forte dispositivo teorico per tutti gli antropologi e sociologici interessati al lutto e alla nascita, e contemporaneamente come un importane spunto di riflessione per chiunque, dentro e fuori le discipline sociali, si interessi al corpo e ai suoi meccanismi di costruzione. L’intervento di Memmi ha riassunto in sé molti degli spunti, delle tematiche e delle proposte teoriche presentate nella giornata precedente, alimentando in modo proficuo un ulteriore momento di riflessione che ha chiuso la sessione di studi sulle materialità riproduttive.