venerdì 30 dicembre 2016

Antropologia e fotografia

Per concludere in bellezza il 2016 vorrei segnalarvi uno spunto che ritengo interessante per questo periodo festivo (ovvero: se avete un giorno libero e volete fare una gita, ecco un'idea interessante).
Fino all'8 gennaio 2017, all'interno del Forte di Bard in Valle d'Aosta, è allestita la mostra fotografica World Press Photo 2016. Si tratta dell'esposizione delle immagini premiate quest'anno dal più importante concorso internazionale di fotogiornalismo. Circa 150 scatti che hanno l'ambizione di documentare ciò che di rilevante è avvenuto a livello mondiale nel corso dell'ultimo anno. Il premio è giunto alla sua 59esima edizione e nel corso del tempo ha contribuito a trasformare alcune fotografie in vere e proprie icone.

Visitando la mostra la scorsa settimana, e soffermandomi di fronte alla foto vincitrice di questa edizione del premio, uno scatto dedicato al viaggio dei migranti attraverso i Balcani, mi è tornato alla mente un passaggio di un importante articolo di Franco Remotti. Un intervento pubblicato nel 2012 sulla rivista "L'Uomo" con il titolo "Antropologia: un miraggio o un impegno?", in prossimità della conclusione del suo impegno accademico. Uno scritto molto bello e denso, in cui Remotti tra le altre cose scriveva: "Piccole esperienze, aneddoti, episodi: è sufficiente che siano fatte da coloro che si chiamano antropologi perché diventino esperienze antropologiche, e così la tendenza che ne emerge è quella di un’antropologia che io chiamo appunto aneddotica o episodica (contrapponendola a strutturale), un’antropologia che rasenta il giornalismo e che, a mio modo di vedere, rischia molto spesso di dimostrarsi assai meno interessante, valida ed efficace di una buona inchiesta giornalistica. Per esempio, se si tratta di esperienza vissuta, quale ricerca antropologica sui flussi migratori è in grado di competere con resoconti di giornalisti che hanno vissuto direttamente l’esperienza della traversata del Sahara? (Fabrizio Gatti, 'Bilal')".

Lo stralcio è parte di una serrata critica che Remotti rivolge alla disciplina, schiacciata a suo modo di vedere sulla dimensione del particolarismo etnografico e spesso incapace di sviluppare un discorso antropologico più ampio e "inattuale". Un dibattito che non intendo qui rievocare nella sua complessità, ma di cui vorrei recuperare un elemento se volete banale: che cosa differenzia appunto un'etnografia da un buon reportage giornalistico? Che cosa li distingue nel linguaggio? E tornando alla mostra fotografia: che cosa raccontano del mondo le immagini del World Press Photo di simile o diverso rispetto alle nostre ricerche? Molti dei temi, in fin dei conti, sono assai simili: chi visita la mostra al Forte di Bard trova scatti che descrivono il rapporto tra uomo e ambiente in Brasile, questioni di genere e di omogenitorialità nella società statunitense, i viaggi dei migranti nel Mediterraneo, rappresentazioni della nascita, della malattia e della morte in Europa, l'estetica della lotta tradizionale in Senegal, le condizioni del lavoro in Cina, gli spazi dell'abitare nelle periferie delle città in Italia. Antropologi e fotogiornalisti guardano attraverso l'obiettivo fotografico con gli stessi occhi? Oppure no?

Questioni ovviamente già ampiamente dibattute, e da lungo tempo, nell'ambito dell'antropologia visuale, ma che rimangono a mio avviso aperte e di grande attualità. Anche alla luce della considerazione, ad esempio, che alcuni dei fotogiornalisti premiati nel corso del tempo e quest'anno dal World Press Photo sono proprio antropologi, o hanno quanto meno avuto una formazione antropologica: nell'edizione del 2016 troviamo ad esempio Anuar Patjane Floriuk, "photographer and anthropologist", e Nancy Borowick, laureata in antropologia e premiata per un progetto fotografico sul tema della malattia terminale con un forte impianto antropologico. Nelle edizioni degli anni scorsi, particolarmente interessante a mio avviso il reportage sui giovani nomadi americani premiato nel 2010 e firmato da Kitra Cahana, canadese, antropologa visuale.

Come recepiamo noi antropologi questi lavori fotografici? E come li recepisce il pubblico dei giornali dove sono stati originariamente pubblicati? 
La riflessione su come il pubblico veda e interiorizzi questi scatti è un altro degli spunti di riflessione che mi sono stati suggeriti dalla visita della mostra. Che tipo di esperienza si vive infatti osservando queste immagini, decontestualizzate dalla loro dimensione informativa e di denuncia, e trasformate in opere d'autore, la cui fruizione comprende una forma di valutazione estetica e di estraniazione dalla realtà che pure rappresentano, come tipicamente avviene in musei e gallerie d'arte? 

Insomma, tutta una serie di quesiti e domande su cui sarà interessante confrontarsi nei prossimi mesi, magari non solo in chiave teorica, ma anche lanciando una sfida applicativa: perchè non pensare di realizzare nel 2017 una mostra fotografica con le fotografie scattate durante le ricerca sul campo dai dottorandi del DACS? Una mostra da esporre fuori e dentro l'Università, per presentare i nostri "lavoro in corso" ma anche per riflettere su come gli (aspiranti) antropologi utilizzano le immagini e la fotografia come strumento di ricerca, di documentazione e comunicazione. 

E con questo buon proposito per il 2017... buon anno a tutte/i!

mercoledì 21 dicembre 2016

Corpo a corpo in accademia

La settimana scorsa, il 13 e 14 dicembre, per la prima volta ho fatto parte del Comitato di Organizzazione di un convegno. Si trattava della tredicesima edizione delle Jorrescam, le JOurnées de Réflexions et de REcherche sur les Sports de Combat et les Arts Martiaux, organizzate quest'anno dai centri di ricerca L-Vis e LIBM dell'Université Claude Bernard Lyon 1 (programma qui).

L'aspetto più interessante dell'evento è stata la sua apertura verso l'interdisciplinarità. Le STAPS (Sciences et Techniques des Activités Physiques et Sportives), in Francia, non sono vittime del pregiudizio che in altre tradizioni scientifiche le relega a un ruolo di secondo piano nel dibattito accademico, e non sono neanche monopolio esclusivo delle discipline mediche, come accade in Italia. Di conseguenza, il dibattito attorno alle pratiche motorie è intenso e coinvolge non solo i contributi strettamente connessi con la performance sportiva o con la sanità (fisiologia, anatomia, scienze mediche e dell'alimentazione, ecc.), ma anche quelli legati al ruolo e all'influenza dello sport e dell'attività fisica nelle società e nelle culture (scienze umane e sociali).

Al convegno sono intervenuti fisiologi, psicologi, sociologi, educatori e antropologi, ma anche atleti, istruttori, preparatori atletici. Le testimonianze dei diretti interessati, vale a dire di chi lo sport lo fa - quelli che sono, per noi, gli "attori sociali" - sono andate al cuore del dibattito, e hanno permesso di ancorare l'aerostato della speculazione teorica al terreno solido delle arene di gioco. Myriam Chomaz, ex campionessa europea e mondiale di boxe, nella tavola rotonda dedicata alla "féminisation" delle discipline di combattimento, ha messo in luce per esempio quanto il mondo del pugilato, ancora oggi, subisca le dinamiche di quella "domination masculine" che ha contribuito a definirlo come un'espressione autentica delle qualità socialmente considerate "virili". L'atleta ha raccontato infatti di aver rischiato di perdere un incontro importante perché il medico, dopo un infortunio lieve all'arcata sopracciliare che non comportava rischi seri ma che sanguinava molto, stava per impedirle di proseguire il match (che poi ha vinto) perché in lei rivedeva sua moglie e sua figlia, e si sentiva in dovere di proteggerla, come lui stesso le ha rivelato poco dopo. O ancora, alcuni giovani atleti della Fédération Françase de Lutte, con il loro allenatore, sono intervenuti a raccontare il loro progetto di viaggio, volto a scoprire alcune delle pratiche di lotta esistenti nel mondo e a sensibilizzare l'opinione pubblica sulla centralità di queste discipline nelle rispettive culture, in seguito alla controversa decisione del CIO di escludere la lotta greco-romana e libera dalle Olimpiadi. Ne sono emerse esperienze significative di incontro (relazionale e culturale) attraverso lo scontro (sportivo), un tema molto interessante dal nostro punto di vista, di cui ho parlato anch'io nel mio saggio sulla lotta bretone. E' stato poi proiettato un estratto del documentario girato a partire da quella esperienza, che ha fornito a tutti riferimenti visivi circostanziati della descrizione della lotta senegalese che era stata fatta poco prima in una comunicazione plenaria dall'antropologa Dominique Chévé, che si è a lungo occupata della questione e ne ha scritto.

Da qui il primo, importante, spunto di riflessione: dovremmo cercare di coinvolgere di più, nei nostri dibattiti scientifici, quelli che il sociologo Jérôme Beauchez, in uno degli interventi più interessanti (e controversi) delle due giornate, ha proposto di definire "informati" anziché "informatori"? Li teniamo fuori perché pensiamo che il sapere antropologico possa prescindere da quel coinvolgimento esperienziale di cui parlava Marta nel suo intervento su questo blog, o temiamo piuttosto di scoprire che non si tratta soltanto di "macchine" ("da combattimento" nel caso specifico, come definisce Wacquant i pugili nel suo testo di riferimento) che ripetono un habitus culturalmente acquisito e quasi automaticamente applicato, ma di esseri cognitivi in grado di riflettere criticamente sul senso di quello che fanno, e dunque di rubarci il lavoro di "interpreti" della cultura?

Si tratta evidentemente di affermazioni provocatorie, ma sono utili per introdurre la seconda riflessione che mi porto dietro da questa esperienza. E' stato infatti lo stesso Beauchez a introdurre la questione, di cui parla anche nella sua importante etnografia di una palestra di boxe. Egli, infatti, ha criticato in maniera diretta l'impostazione bourdieuana di Wacquant, che ritiene eccessivamente meccanicista nell'interpretazione dell'habitus pugilistico come un complesso insieme di schemi di valutazione incorporati e poco criticamente adottati dai pugili del ghetto americano. In realtà, nella sua critica, che non posso ripercorrere qui nella sua interezza per ragioni di spazio, mi è sembrato che Beauchez abbia fatto leva soprattutto su alcuni di quegli aspetti che Wacquant, anche lui per ragioni di spazio o comunque per l'esigenza di circoscrivere la ricerca con cui tutti noi dobbiamo prima o poi fare i conti, trascura o non approfondisce in maniera adeguata. Per di più, la critica all'applicazione troppo rigida del paradigma bourdieuano in campo pugilistico lascia il tempo che trova: i pugili di Wacquant sanno bene cosa comporta l'habitus pugilistico che gli verrà trasmesso frequentando la palestra, conoscono cioè i valori della boxe e del gym che frequentano, ancor prima di dedicarsi "anima e corpo" alla disciplina; e dunque decidono (criticamente, con consapevolezza) di dedicarvisi. L'habitus pugilistico ci viene insomma trasmesso solo se lo vogliamo, la cultura pugilistica è una cultura di cui si può decidere di far parte. E infatti, nel libro di Wacquant, l'habitus che i pugili acquisiscono (e che lui stesso acquisisce) nel corso di una vita dedicata alla boxe interviene a sovvertire la gerarchia di valori che orienta la realtà sociale circostante, e si contrappone all'habitus del ghetto. Questa mi pare una critica alla deterministica interpretazione della teoria dell'habitus, piuttosto che una sua rigida applicazione: se un habitus si può adottare volontariamente, sapendo cosa esso comporta, e se un habitus socialmente acquisito (quello del quartiere) può essere messo in discussione o addirittura sovvertito da un habitus "sportivo" cui si aderisce in un secondo momento, dove sta la rigidità? Dove la presunta acriticità degli attori sociali?
La critica di Beauchez ha senso, e come ho detto non ho modo di riportarla qui in tutti i suoi aspetti. Ma il suo intervento mi ha dato lo spunto per riflettere su una tendenza più generale e ahimè piuttosto diffusa negli ambienti accademici: quella di decostruire le teorie di quelli che si sono ormai imposti come classici del settore disciplinare di cui si fa parte per costruire la nostra reputazione. Ancora, avanzo posizioni volutamente provocatorie: dove ci porta questo atteggiamento? Che utilità ha nella costruzione del sapere scientifico?

Il terzo e ultimo spunto nasce infine dall'approccio interdisciplinare allo studio delle pratiche di combattimento che il convegno ha cercato di promuovere e che ho cercato a mia volta di stimolare nel mio intervento. A partire dalla mia esperienza etnografica, infatti, ho parlato di come le pratiche di lotta corpo a corpo contribuiscano a riorganizzare quella che possiamo definire la "gerarchia cognitiva" del lottatore. La prossimità dei corpi in lotta, infatti, impedisce al lottatore di fare troppo affidamento sulla vista per leggere, interpretare e anticipare i movimenti dell'avversario (come invece accade negli sport da combattimento a distanza, per esempio la boxe), e allora il senso più stimolato diventa il tatto. Con la pratica, il tatto assume un ruolo primario per informare il lottatore su quello che sta succedendo mentre lotta, e la vista, che è il senso dominante nella vita quotidiana (almeno nella società occidentale), passa in secondo piano. Un argomento del genere non può essere affrontato solo con gli strumenti dell'antropologia, e avrebbe bisogno dell'apporto di altre discipline, come la psicologia cognitiva, ad esempio, e probabilmente la neurologia e anche la sociologia. Da qui l'ultima domanda: a che punto siamo con l'apertura delle frontiere tra discipline nell'accademia? L'antropologia è davvero aperta al dialogo o stenta ancora a uscire dalle sue stanze?

martedì 20 dicembre 2016

Segnalazione Call for cases: Il divario culturale delle aree rurali fragili

Il 17-18 marzo 2017 si terrà a Rovigo il convegno "Alfabetizzazione, apprendimento, arte. Il divario culturale delle aree rurali fragili", organizzato dal Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell'Università di Trieste. Si segnala qui di seguito l'apertura della "chiamata per casi emblematici": 




Il termine divario o gap è provocatorio; la cultura non si misura su una scala; però le gerarchie del sapere esistono e pesano nelle relazioni fra persone e fra territori. Si capisce che dobbiamo rifuggire gli estremi opposti dell'arretratezza culturale e del compiacimento folkloristico, ma non si può prescindere da graduatorie del sapere convenzionale che si esprimono nell’istruzione, nella formazione permanente e nel trasferimento tecnologico. Sono tutte attività ordinabili in scale di valutazione. Si salva l’arte, che più difficilmente viene catturata dall’industria culturale o dalle istituzioni educative. Anche l’immenso patrimonio della conoscenza tacita elude le gerarchie del prestigio culturale, ma la sua esistenza è continuamente minacciata di estinzione o da fraintendimenti.

Se esista o meno un divario delle aree rurali fragili in termini di istruzione, formazione permanente e manifestazioni artistiche è tutto da dimostrare. I segnali negativi (peggiori prestazioni nei test, fuga dei cervelli, digital divide, mancanza di centri di ricerca…) sembrano prevalere su quelli positivi che pure esistono: ri-organizzazione della scuola primaria e sperimentazione di nuove pratiche educative, buone capacità comunicative, straordinaria vitalità di fiere, festival, sagre, musei diffusi, residenze artistiche … tutte esperienze che mirano alla valorizzazione della diversità ecologica e culturale.
La cultura, oltre che una forma del sapere, è un insieme di pratiche meritorie. Queste hanno una genesi, uno sviluppo ed effetti sulla comunità locale.

I casi di studio dovrebbero mettere in luce: a) le caratteristiche originali e evolutive di pratiche meritorie in aree fragili; b) gli effetti in cinque ambiti: economico (posti di lavoro, distribuzione ricchezza, investimenti…), ambientale (se e come contribuiscono a tutelare gli ecosistemi), sociale (coesione, pace, accoglienza), organizzativo (persone, modalità di gestione, risorse) e esistenziale (senso, felicità, orgoglio, piacere..). Sono benvenute sia ricerche di esperti, sia auto-analisi dei protagonisti di esperienze culturali, incluse - dopo l’ultima vicenda del terremoto - le culture dell’abitare e del costruire.

Si tratta dunque di un convegno che pare rispecchiare il nostro ragionamento sull'avvicinamento tra mondo accademico e pratiche applicative/sperimentali: uno degli aspetti rilevanti a proposito del nostro futuro di dottorandi in antropologia nel mondo del lavoro.

domenica 18 dicembre 2016

I seminari del DACS: dibattito con Roberto Malighetti e Angela Molinari

Mercoledì 14 dicembre si è svolto il secondo incontro previsto dal seminario DACS. Questa volta i protagonisti attivi siamo stati noi dottorandi che, insieme ad alcuni docenti presenti, abbiamo dialogato con Roberto Malighetti e Angela Molinari sul loro ultimo libro “Il metodo e l’antropologia. Il contributo di una scienza inquieta” pubblicato recentemente con Raffaello Cortina Editore. 



I due autori sono accomunati da un percorso formativo filosofico per loro particolarmente determinante. Questo testo è infatti l’esito di un lungo cammino intellettuale che nasce dal bisogno di riportare alla luce quelle problematiche - che cos’è una scienza, che cos’è una teoria, che cos’è il pensiero - troppo a lungo soffocate dall’antropologia stessa. Attraverso un approccio storiografico si ripercorrono i padri fondatori della disciplina in un climax ascendente di presa di consapevolezza del ruolo e della figura dell’antropologo. 
Il libro è rivolto principalmente a studenti ma anche ad antropologi affermati con l’augurio di riflettere sulle questioni epistemologiche del metodo antropologico. 

Noi dottorandi, dal nostro canto, abbiamo provato ad instaurare un vivace dibattito che si è rivelato una preziosa occasione per riflettere sulla nostra professione. Innanzitutto ci siamo chiesti perché l’antropologia viene definita nel testo come una scienza inquieta, riprendendo Foucault. A volte l’interrogarsi sui limiti della ratio occidentale può farci sentire inappagati e frustrati dall’impossibilità di arrivare al vero, ma secondo Malighetti non potrebbe essere altrimenti: l’antropologia è una scienza inquieta perché realista. Essa è in continua ridefinizione e ciò deriva dal fatto che da sempre si è dovuta confrontare con la condizione de-strutturante di un mondo opaco e impenetrabile nella sua essenza. 
L’inquietudine epistemologica non deve spaventarci perché è proprio quel quid che ci spinge a ricercare e a de-costruire l’egemonia del pensiero unico. 

E’ a Clifford Geertz che dobbiamo il merito di aver costretto gli antropologi a ripensare profondamente il metodo etnografico e la relazione soggettività-oggettività, e ciò proprio in un momento di passaggio dalla colonizzazione alla decolonizzazione. 
Questa nuova ondata di riflessività che pervade l’antropologia a partire dagli anni ’70 nasce dall’etnografia stessa. E’ infatti nel campo che gli antropologi sperimentano i limiti della scienza positivista e cominciano a considerare l’altro non più come un oggetto inerme ma come soggettività storica. 

Cosa succede quando la mia soggettività incontra un’altra soggettività? L’altro è come me? E solo se è come me posso conoscerlo? Siamo sicuri che il coinvolgimento diretto del ricercatore nell’azione rituale sia strumento indispensabile per la comprensione (experiential approach)? Abbiamo discusso di empatia, distinguendo tra una etica ed una epistemologica. Se la prima è infatti necessaria all’incontro, la seconda, secondo la professoressa Molinari, è poco produttiva perché il diventare come l’altro non mi mette nella condizione di percepire l’alterità e di analizzarla. Del resto, ci poniamo domande quando incontriamo la differenza e non la somiglianza. Gli autori sottolineano con forza come l’antropologia debba fare i conti con un metodo che parte dalla soggettività, dal posizionamento del ricercatore e dalla sua storicità. Non esiste un modello di ricerca standard o principi applicati universalmente perché è proprio l’empiricità a plasmare di volta in volta i modelli epistemologici. 

Rispetto all’importanza del linguaggio, Malighetti e Molinari sono in disaccordo con coloro che muovono la critica di logocentrismo all’antropologia interpretativa: anche l’utilizzo di strumenti tecnologici come la fotografia, il filmato, ad un certo punto avranno bisogno della parola, altrimenti non potremmo confrontarci con una comunità scientifica fondata sulla testualità. Il campo stesso è saturo di documenti (la letteratura scientifica, i documenti degli interlocutori, lettere da e per il campo, i racconti individuali) e non esiste indipendentemente dalle pratiche di scrittura e di lettura. 

Ma fino a che punto possiamo negoziare questo metodo che si fonda sulla soggettività, senza perderne il valore, quando applichiamo l'antropologia ad un contesto interdisciplinare? Malighetti ci riformula provocatoriamente la domanda: qual è la nostra competenza in un contesto che troppo spesso non ci ascolta? Negoziamo per convincere, per semplificare, o invece per farci capire senza però snaturare la nostra professione che si basa proprio sulla complessità? 
L'antropologia è una disciplina che ha tanto da dire alle altre scienze, perché in virtù del coinvolgimento esistenziale dell'osservatore non può prescindere dal problematizzare ciò che altri metodi nascondono o danno per scontato. 

Così come nell'intento degli autori non si dà conclusione nel libro, in modo simile il seminario si chiude lasciando delle questioni in sospeso invitando a continuare a riflettere e a complessivizzare. 

venerdì 16 dicembre 2016

Proiezione del film "Wallah - Je te jure"

Martedì 13 dicembre, durante il Corso di Antropologia dei Processi Migratori tenuto dalla prof.ssa Barbara Pinelli, è stato proiettato il film-documentario “Wallah - Je te jure”, realizzato da Marcello Merletto e prodotto dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM). 

L’occasione è stata particolarmente feconda e ha stimolato il folto pubblico presente, costituito da studenti del Corso e dottorandi, ma anche da numerosi esterni, specialmente operatori di cooperative sociali impegnate nel settore dell’accoglienza ai richiedenti asilo. 
Il documentario, come ha avuto modo di spiegare l’autore, è un “racconto corale”, narrazione collettiva dell’esperienza migratoria così come vissuta dai diretti protagonisti e dai loro familiari. Attraverso testimonianze genuine raccolte nei luoghi di partenza, di transito e di approdo dei migranti, questo lavoro tecnicamente impeccabile restituisce una visione trasversale di un fenomeno che sempre più frequentemente è soggetto a strumentalizzazioni di varia natura. 
Per coloro che vivono e agiscono nel mondo della ricerca antropologica, la visione del film è stata inoltre un’ottima opportunità per riflettere non solo sulle tematiche dei processi migratori, ma anche sulle loro rappresentazioni, e per ragionare sugli stimoli e il contributo che uno strumento come il documentario può fornire all’antropologia visuale e più in generale alla disciplina tutta.

Di grande interesse, infine, l’intervento del prof. Guido Veronese, docente e psicoterapeuta, che a conclusione della proiezione ha offerto ulteriori stimoli di riflessione grazie ad alcune profonde considerazioni circa la condizione di sofferenza psichica che molto spesso interessa il soggetto migrante e che, di conseguenza, interroga saperi e pratiche di chiunque si relazioni ad essi.

L’invito, per coloro che non avessero potuto partecipare all’incontro, è di approfittare dei prossimi appuntamenti previsti in tutta Italia per la proiezione del documentario.

Nel frattempo qui di seguito è possibile visionarne il trailer.


martedì 13 dicembre 2016

I seminari del DACS: incontro con Joel Quirk

Martedì 22 novembre ha preso avvio il nuovo ciclo di didattica del dottorato che accompagnerà i dottorandi per tutto l'anno accademico. 

Il primo incontro ci ha offerto l'occasione di ascoltare l'importante intervento di Joel Quirk, Professore Associato e Direttore del Dipartimento di Studi Politici all'University of the Witwatersrand di Johannesburg, in Sud Africa. Il seminario, dal titolo "The Politics and History of Slavery: Competing Visions of Rescue and Repair" ci ha guidato
attraverso il ricco repertorio di ricerche e riflessioni che Joel Quirk ha sviluppato sulla schiavitù e sulle diverse forme di asservimento, nonchè sul "progetto antischiavista", il discorso sviluppato nel corso del tempo da coloro che si sono opposti, o che si sono voluti rappresentare come oppositori, dello schiavismo nelle sue diverse declinazioni. La relazione si è concentrata in particolar modo su quest'ultimo aspetto, proponendo un'analisi critica delle retoriche storiche e contemporanee inerenti il tema del salvataggio e del riscatto dalla schiavitù, un approccio di estremo interesse per tutti coloro i quali si occupano oggi delle politiche dell'umanitario.

Joel Quirk è stato invitato a tenere la sua lezione per i dottorandi DACS nell'ambito del progetto SWAB, "Shadows of Slavery in West Africa and Beyond. A Historical Anthropology", programma di ricerca quinquiennale che vede coinvolti diversi docenti del Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione "R.Massa" e una dottoranda DACS (se ancora non conoscete nel dettaglio il progetto SWAB è ora di visitare il sito web linkato qui sopra!).

Il seminario è stato molto ricco e per chi volesse approfondire la conoscenza dei temi trattati in aula sono disponibili online alcuni articoli di Joel Quirk:
Quest'ultimo contributo si collega all'attività che Quirk svolge come membro del Comitato Scientifico Internazionale dell'UNESCO "Slave Route Project".

L'incontro si è concluso con un riferimento da parte del relatore a un'attività che per tutti i dottorandi e per questo blog dev'essere di grande stimolo: Joel Quirk interviene infatti con assiduità su opernDemocracy, un'arena globale di discussione su questioni centrali per quanto riguarda i diritti umani, la libertà, la giustizia e la democrazia.


venerdì 9 dicembre 2016

Antropologi al lavoro...

"I haven't strength of mind not to need a career", Ruth Benedict used to say, with a rueful smile, during her first years in anthropology.

No, questo post non è una recensione del volume curato nel 1959 da Margaret Mead... ma le parole di Ruth Benedict che aprono il primo capitolo del volume possono ben fungere da epigrafe per l'incontro che la scorsa settimana i dottorandi del DACS hanno dedicato a discutere di un tema a tutti noi assai caro: il rapporto tra la nostra disciplina, il dottorato di ricerca e il mondo del lavoro.

Lo spunto per introdurre la riflessione ci è stato fornito da due recenti iniziative organizzate alla Bicocca: la Milano Anthropology Week, promossa dal Corso di Laurea Magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche (per chi se la fosse persa... ne trovate notizia sul sito del Dipartimento, ma se seguite il link qui sopra la vedrete raccontata sul blog "il lavoro culturale", creato dai nostri colleghi dell'Università di Siena... così nel frattempo gli date un'occhiata!) con l'obiettivo di stimolare l'incontro, confronto e scambio tra studenti, laureati in antropologia e “parti sociali”, ovvero imprese, aziende, cooperative, enti e istituzioni che, consapevolmente o meno, sono in cerca delle competenze e conoscenze degli antropologi per i loro progetti e attività.

Il secondo evento che ha mosso la nostra discussione è stato il Career Day dell'Università, tenutosi il 23-24 novembre e promosso dall'Ufficio Job Placement dell'Ateneo. Alla giornata, che prevedeva uno specifico spazio per gli studenti del dottorato, hanno preso parte alcuni dottorandi del DACS. Giacomo, Giuseppe e Raul hanno così avuto modo di condividere la propria esperienza con tutti noi, soffermandosi anche sulla partecipazione ai colloqui di lavoro sostenuti. Insieme alla professoressa Alice Bellagamba, presente all'incontro, ci siamo dunque chiesti in che modo nel corso di questo anno di DACS possa essere rafforzata l'attitudine dei dottorandi nello sviluppare capacità e competenze specifiche e trasversali che possano aiutarli a incontrare il mondo del lavoro anche fuori dall'università. Mentre il percorso professionale e umano legato alla ricerca richiede una sempre maggiore specializzazione, dedizione e qualità nel raggiungere standard sempre più alti e restrittivi a livello internazionale, è possibile anche guardare ad un altro genere di percorso, che radichi il ricercatore al territorio, che punti all'allargamento delle reti e delle conoscenze di base. Una scelta non secondaria nè di ripiego, giacchè è proprio tramite l'inserimento degli antropologi nei più diversi settori professionali e nei più vari territori che l'antropologia può aumentare il suo impatto sociale, la sua capacità trasformativa nei confronti della società.

Oltre a interrogarci, come siamo soliti fare, sulla nostra identità disciplinare e lamentarci forse troppo spesso di non essere riconosciuti come antropologi in quanto tali nel mondo del lavoro, occorre dunque chiederci in modo molto franco cosa sappiamo fare, cosa conosciamo, che contributo possiamo dare nel contesto dove vorremmo lavorare, quali competenze possiamo spendere in un curriculum o in un colloquio. Nel corso dell'incontro sono state avanzate diverse proposte, alcune delle quali riguardano anche il possibile utilizzo del blog DACSdiaries come strumento di comunicazione.

- Si è proposto di lavorare su competenze trasversali quali il trattamento e l'archiviazione dei dati sensibili, saperi tecnici legati alla questione della valutazione etica della ricerca;

- di invitare alcuni dottori di ricerca che hanno svolto il dottorato in antropologia alla Bicocca affinché ci vengano presentati i loro percorsi professionali e le loro modalità di accesso al mondo del lavoro;

- di valorizzare le reti e i contatti che gli attuali dottorandi hanno e che hanno sviluppato ancor prima di entrare nel DACS. In questo modo potranno essere coinvolti come relatori di incontri da realizzarsi nel 2017 esponenti delle parti sociali di ambiti professionali di interesse dei dottorandi stessi;

- di coltivare la collaborazione con ANPIA, l'Associazione Nazionale Professionale Italiana di Antropologia, costituitasi a inizio 2016 con l'obiettivo di riconoscere, valorizzare, tutelare e comunicare le professioni antropologiche nella società.

Il dottorato sta rapidamente cambiando, così come ciò che ci si aspetta dagli (aspiranti) antropologi in questo periodo cruciale della propria formazione e della propria vita. Se certamente il dottorato continua a essere per tutti noi una sorta di "rito di passaggio" è pur vero che dobbiamo porci anche obiettivi pratici e solo in apparenza "minimi": ad esempio che il curriculum di un dottore di ricerca sia più ricco e vario di quello che aveva quando è entrato come dottorando al primo anno; che il suo bagaglio di conoscenze, legami ed esperienze si sia ampliato, e non impoverito; che dopo aver assorbito con intraprendenza il mondo nella propria antropologia, sia pronto a restituire col medesimo entusiasmo la propria antropologia al mondo.

Non si tratta che dell'inizio di una riflessione che porteremo avanti per tutto l'anno... quindi chi non era presente all'incontro non si senta escluso... anzi intervenga per portare le proprie idee e proposte! In fondo,parafrasando Ruth Benedict, nessuno di noi ha tanta forza d'animo da non chiedersi fin d'ora che lavoro farà il giorno dopo aver conseguito l'ambito titolo di Dottore di ricerca in antropologia!