lunedì 27 febbraio 2017

Un logo per il DACS

Nel processo di sviluppo delle modalità e strategie di comunicazione del Dottorato, sia all'interno dell'Università che fuori, è giunto il momento di dotare il DACS di un suo logo. La necessità nasce in primis dall'apertura della nuova pagina Facebook del Dottorato, ma l'occasione ci permetterà di avere d'ora in avanti un simbolo che renda riconoscibili le nostre iniziative.
La proposta grafica che ci viene sottoposta per iniziativa di Giacomo, dottorando DACS, è la seguente:



Siete tutti caldamente invitati a prendere parte al sondaggio lanciato su questo blog (date un'occhiata al fondo della pagina) per approvare o meno la proposta di logo. Chi lo desidera, entro 15 giorni da oggi (quindi entro lunedì 13 marzo) potrà postare ulteriori proposte da sottoporre a sondaggio!

lunedì 20 febbraio 2017

I seminari del DACS: "Antropologia nell'Antropocene: idee di umano, culture e crisi nella relazionalità ambientale"

 
I cambiamenti climatici sono sempre esistiti - ci dice Mauro Van Aken durante il seminario DACS del 15 febbraio - ma quello che sta accadendo adesso è un'accelerazione nuova, da cambiamento epocale, un'intensificazione in tempi brevissimi, che amplifica drammaticamente le dinamiche di crisi ambientale, rendendole qualcosa di spaventoso e angosciante, e accentuando forme di marginalità e conflitto sociale. In un'epoca di sconvolgimenti climatici senza precedenti, l'uomo si riscopre potenza naturale e riscopre il proprio ruolo attivo nel cambiamento dei sistemi ambientali, in quanto produttore della maggior parte dei gas serra che inquinano l'atmosfera e causano il surriscaldamento globale, ma allo stesso tempo riscopre di non essere padrone della natura, che gli riesplode attorno con tutta la sua energia.
 
Dichiarando finita l'Olocene, l'era geologica iniziata alla fine dell'ultima glaciazione, 11.500 anni fa, e ufficialmente ancora in corso, nel 2000 il premio Nobel per la chimica Paul Jozef Crutzen afferma che siamo entrati in una nuova epoca geologica, che propone di chiamare Antropocene, "in cui gli esseri umani agiscono tutto ad un tratto come forza nel determinare il clima dell'intero pianeta". Si tratta di una definizione geologica, non ancora autorizzata, ma basata su una serie di tracce empiriche, considerazioni stratigrafiche, riscontri geofisici.
L'Antropocene rappresenta una vera faglia epocale, una faglia geologica e culturale, caratterizzata dal massiccio impatto delle attività sociali ed economiche umane sul pianeta, in cui il ruolo dell'uomo come forza geologica ne fa il principale autore delle trasformazioni ambientali e climatiche. Si tratta di trasformazioni che sfuggono al controllo dell'uomo e causano angoscia, di cambiamenti dalle conseguenze drammatiche, soprattutto per quelle popolazioni già particolarmente vulnerabili e marginalizzate dai processi di globalizzazione capitalistica, che vivono in aree ad alto rischio e le cui economie dipendono da risorse estremamente sensibili al clima, come scrive Susan Crate, raccontando dei Sakha della Siberia nord-orientale.
"The very idea of the Anthropocene places the 'human agency' smack in the center of attention", dice Bruno Latour. Ma soprattutto, continua il sociologo, "to claim that human agency has become the main geological force shaping the face of the earth, is to immediately raise the question of 'responsability'". Infatti, riconoscere, anche se con molto ritardo, la natura antropica delle emissioni dei gas serra che hanno causato e stanno causando sempre più rapidi cambiamenti climatici, disastri ambientali e catastrofi naturali pone l'uomo di fronte alle proprie responsabilità.
Ma di quale anthropos stiamo parlando? Quali idee di umano entrano in gioco? Da un lato, come già accennato, l'Antropocene ridefinisce il ruolo dell'umano, che si scopre potenza naturale, ma che allo stesso tempo si rende conto di non essere "padrone dell'ambiente". Dall'altro, come scrive Latour e come vedremo più avanti, "the 'anthropos' of the Anthropocene is not exactly any body, it is made of highly localised networks of some individual bodies whose responsability is staggering".
 
In quest'epoca di cambiamenti climatici sempre più veloci, che mettono in discussione l'antropocentrismo, con le sue idee di dominio, progresso e sviluppo, e che definiscono il futuro sempre più in termini di crisi e incertezze, emerge la necessità di un cambio di paradigma nel modo di pensare - o meglio di non pensare - la relazionalità ambientale, la necessità di rileggere la storia e l'attualità tirando fuori quello che è stato rimosso, ovvero le relazioni socio-naturali.
I cambiamenti climatici, come scrive Amitav Ghosh nel suo libro intitolato "The Great Derangement: Climate Change and the Unthinkable", sono qualcosa di impensabile. Richiamano idee di fine del mondo, di rischio, di emergenza, ci spaventano e ci privano delle nostre certezze, perché mettono in crisi quella visione della realtà basata sull'alterità natura/cultura, sulla distinzione tra saperi della natura e saperi dell'uomo, che è il fondamento del nostro "senso comune moderno", della nostra cosmologia. La dicotomia tra cultura e natura, prerequisito dell'ideologia del dominio sulla natura e quindi della modernità, intesa come liberazione dell'uomo dalla natura, nega il nostro coinvolgimento con il mondo e quel complesso sistema di interazioni con soggetti non-umani in cui siamo invischiati. Proprio questa dicotomia, ontologica ed epistemologica, che ha costruito la cultura come qualcosa di opposto alla natura, che ha reso passivo tutto ciò che compone la vita ambientale, che ha portato a un totale diniego della soggettività degli attori ambientali, ci impedisce oggi di leggere e comprendere quei cambiamenti ambientali così interrelati con il nostro "capitalismo del carbonio". Avendo ridotto al silenzio l'ambiente, avendo oggettivato la natura, mettendola a distanza dalla cultura e rendendola qualcosa di estraneo e distinto dall'uomo, anzi qualcosa a disposizione dell'uomo, che egli può controllare e sfruttare, non siamo in grado di leggere la relazionalità tra sistemi sociali ed ecologici, quindi la dimensione di interdipendenza, di responsabilità, di moralità.
Ecco quindi che i cambiamenti climatici emergono come qualcosa di sconvolgente, di inspiegabile, qualcosa che ci disturba emotivamente, che ci angoscia e spaventa, perché ci rendiamo conto tutto ad un tratto che l'ambiente è vivo, agisce e reagisce, che non è controllabile, manipolabile, domabile. Anzi, come scrive Michel Serres nel suo libro "Tempo di crisi", torna a farci paura, "perché diventato soggetto ci cade sulla testa".
 
 
Si tratta allora di andare al di là del "naturalismo" e di svelare quei processi di negazione, rimozione e diniego che sono forme di difesa sociale, di ricollocare la cultura nell'ambiente e di ripensare l'umano nella sua relazionalità ambientale. Del resto, come l'antropologia ha sempre mostrato e come fa notare Marshall Sahlins "il modo in cui l'Occidente moderno rappresenta la natura è la cosa meno condivisa al mondo. In molte regioni del pianeta, gli umani e i non umani non si sviluppano in modi incommensurabili secondo principi distinti".
Tutto questo, afferma lo storico Dipesh Chakrabarty, implica il riconoscimento del fatto che gli uomini sono ora parte della storia naturale del pianeta.
La questione climatica è una questione culturale, che ha a che fare con quegli immaginari che oggi sono molto "carbonici", ci dice Van Aken, ed è una questione altamente politicizzata, perché mette in crisi gli attuali modelli di consumo del capitalismo moderno. Rendersi conto del ruolo che l'uomo ha nei cambiamenti ambientali in corso è qualcosa di profondamente destabilizzante, ma allo stesso tempo può essere qualcosa di potenzialmente creativo, nel momento in cui ci spinge a mettere in discussione quel modello di "sviluppo e progresso" che genera continuamente desideri di consumo, che sono alla base dei modelli di sfruttamento e di produzione dell'economia del carbonio.

Ripartendo dalla relazionalità, dal proprio coinvolgimento in sistemi ambientali complessi, abbiamo l'opportunità di far riemergere ciò che rimane nascosto, in "un'organizzazione sociale del diniego", quindi di riconoscere le pratiche consumistiche innanzitutto come pratiche ecologiche (non ecologiste!), che hanno un impatto sull'ambiente e sull'atmosfera, e quindi ancora di pensare a possibili trasformazioni. Come scrive Crate, "the global climate change [...] is caused by the multiple drivers of Western consumer culture, it transforms symbolic and subsistence cultures, and it will only be forestalled via a cultural transformation from degenerative to regenerative consumer behavior. Accordingly, anthropologists are strategicall well-placed to interpret, facilitate, translate, communicate, advocate, and act both in the field and at home in response to the cultural implications to unprecedent climate change".
 
 

venerdì 10 febbraio 2017

Appunti da Parigi. Riflessioni per un'antropologia dell'inevitabile ospitalità

In questi giorni mi trovo a Parigi. Sto usufruendo di un programma europeo di mobilità internazionale che permette ai dottorandi europei di condurre un periodo del proprio percorso di ricerca all’estero. Mi trovo dunque ora all’Universitè de Paris 8, ospite del Département de Sociologie e d’Antropologie. Vivere a Parigi mi sta dando la possibilità di seguire diversi seminari organizzati non solo dalla mia Università ospitante, ma anche da altri istituti universitari locali. Il 31 Gennaio scorso ho partecipato ad un seminario organizzato dall’antropologo Michel Agier all’interno del suo corso dottorale Anthropologie de l’hospitalité, dedicato agli studenti frequentanti il dottorato in Anthropologie Sociale et ethnologie dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales. Il relatore convitato era Ferdinando Fava, antropologo e professore dell’Università degli Studi di Padova. 


Ho conosciuto il Professor Fava grazie alla lettura del suo denso e stimolante testo “Lo Zen di Palermo. Antropologia dell’Esclusione”, edito nel 2008 da FrancoAngeli. Il testo si basa su una approfondita analisi antropologica di un quartiere residenziale pubblico costruito nella periferia nord di Palermo a partire dalla fine degli anni sessanta del novecento dall’architetto Vittorio Gregotti. Lo stesso architetto che ha progettato e costruito gli edifici che oggi ospitano l’Università di Milano-Bicocca. Il caso di studio dello Zen è paradigmatico: da un lato perché rappresenta, nel senso comune, uno dei più vividi simboli del “degrado” delle periferie italiane; dall’altro lato, perché è l’esito di una concezione modernista della progettualità e della cosmologia urbanistico-architettonica nazionale. Ferdinando Fava, attraverso le narrazioni dei residenti, dei media e degli “esperti” che attraversano quello spazio sociale, invita il lettore a decostruire il dispositivo del confine e dell’esclusione e a decentrarsi rispetto alla visione egemonica che descrive questi spazi “da lontano”, attraverso categorie stigmatizzanti ed escludenti. 

Questa breve presentazione del testo, che certamente non restituisce la complessità e l’articolazione della monografia in questione, ci è utile per affrontare ora il tema centrale del seminario a cui ho partecipato. L’idea di base degli incontri proposti da Agier riguarda il concetto, le pratiche e l’ideologia dell’ospitalità. L’intenzione è dunque quella di immaginare una sorta di antropologia dell’ospitalità. L’intervento di Ferdinando Fava, dal titolo "De l’incontournable hospitalité: l’enquête de terrain en aires urbaines marginales", va dunque proprio in questa direzione, focalizzandosi però principalmente sulla costruzione epistemologica del sapere antropologico e sull'inevitabilità dell'ospitalità stessa. In questo senso la narrazione proposta è di carattere riflessivo e prende piede a partire da un “ritorno interpretativo” del relatore sul proprio lavoro di campo a Palermo. L’intento è quello di esplorare, a partire dalla propria esperienza di campo, la dimensione politica della pratica quotidiana dell’ospitalità come costitutiva nel dispositivo della ricerca di campo. 

Fava prende spunto da una considerazione del 1977 di JulianPitt-Rivers per stimolare la riflessione, ovvero che la legge d’ospitalità riguarda principalmente “the problem to deal with stranger”. Se così intesa, sostiene Fava, la questione dell’ospitalità si può affrontare secondo diverse prospettive: principalmente, a livello giuridico o a livello sociale. Trattandosi di un’analisi antropologica, che agisce anche in forma riflessiva sulle politiche della ricerca etnografica, la prospettiva adeguata risulta essere quella sociale. Come interpretare tuttavia l’antropologo che si approccia al campo? Seppur autorizzato dal proprio status accademico o professionale, l’etnografo quando giunge sul campo di ricerca, dovunque questo si situi, è uno straniero e, come straniero, porta in sé, simbolicamente, un pericolo, un disordine, un carattere impuro, come direbbe Mary Douglas. Questa percezione di estraneità, che spesso non si limita ad essere una percezione ma diventa un dispositivo di inclusione o esclusione nella vita degli attori sociali con cui facciamo ricerca, non è sicuramente nuova a tutti quegli antropologi e quelle antropologhe che hanno condotto ricerche etnografiche: qualsiasi sia il gruppo sociale di riferimento, questa relazione risulta essere strutturante nella costruzione del campo. 

In questo senso, l’antropologo diventa un “professional stranger”, secondo la definizione di Michael Agar (1996). L’antropologo non fa dunque parte del gruppo sociale con cui conduce ricerca e non gli è neanche propriamente estraneo, straniero: in qualche modo costruisce la sua estraneità professionale a partire dal suo posizionamento metodologico e epistemologico, ovvero situandosi sulla soglia, sul limite della produzione sociale dei mondi locali di riferimento. Non solo gioca il suo posizionamento su questa relazione ambigua, ma diventa egli stesso relazione. È proprio questo peculiare meccanismo che permette all’etnografo di decentrarsi e produrre una critica sociale che tenda alla decostruzione sul e del campo. Il relatore ha evidenziato tuttavia come questo rapporto sia fragile e di difficile costruzione: per questo spesso agli antropologi viene richiesto di passare molto tempo sul campo. L’instabilità relazionale che si produce e di cui è prodotto rende l’etnografo una figura mediatrice, un confine, una soglia tra mondi. Tra il mondo della straordinarietà, a cui appartiene in quanto straniero, e il mondo dell’ordine, a cui appartiene in quanto quotidiana e viva presenza sul campo. Fava evidenzia come la relazione tra straordinarietà e ordine non è tuttavia logica, ma si basa su una “differenziazione relazionale”. 

In questo modo si produce uno scarto che risulta tuttavia asimettrico e monodirezionale, perché nasce esattamente dal rapporto che gli attori sociali di un luogo costruiscono a partire dal proprio luogo di appartenenza. In questo senso, ogni straniero, in quanto attinente al mondo dello straordinario, è frutto dell’ordine che vige in un preciso luogo. Nel momento in cui lo straniero si presenta sulla soglia, allora nasce la costruzione dell’ospitalità. È lo straniero stesso che attiva questo dispositivo, esistente ma soggiacente, ponendosi sul limite. Nel nostro caso, l’antropologo non solo si pone sulla soglia, ma trasgredisce questa frontiera, situandosi contemporaneamente dentro e fuori dal campo. Facendosi dunque portatore della soglia stessa, diventando figura mediatrice e dialettica tra il dentro e il fuori. E in questo spazio mobile l’antropologo deve prendere coscientemente posizione, costituendosi come figura mediatrice non isomorfa all’ordine di riferimento, ma costruendo uno “spazio proprio”, secondo la definizione di Michel de Certeau. Per fare ciò Fava suggerisce che l’antropologia dovrebbe porsi principalmente come un sapere dell’ascolto più che della parola, una sapere del dire, più che del detto. E l’ascolto non si deve limitare alle parole, ma deve raffinarsi tanto da riuscire a comprendere le interazioni, le relazioni e  legami che ci circondano. 

lunedì 6 febbraio 2017

I seminari del DACS: “Campo: Foucault e Bourdieu”

Dopo lo scorso seminario dedicato al “campo della scrittura”, il 25 gennaio noi dottorandi del DACS abbiamo condotto una riflessione sulla nozione più generale di campo. Scopo della lezione, magistralmente tenuta dal Prof. Carmagnola, era infatti di delineare le caratteristiche del campo in quattro ambiti diversi: in antropologia, nel pensiero di Foucault, in quello di Bourdieu e infine nella sua dimensione estetica. La considerazione di domini diversi nei quali questo concetto s’inscrive e quindi la sua definizione plurale, ha permesso di approcciare l’immagine del campo nella sua complessità e diversità.

Nella prima parte del seminario il Prof. Carmagnola ha affrontato l’ambito antropologico, prendendo come riferimento il libro “Filosofia delle scienze umane” di Silvana Borutti. Seguendo una divisione tripartita, il concetto di campo è stato analizzato nel contesto di diversi modelli storici: positivista, costruzionista e testualista. Quest’ultimo, facente capo agli scritti di Clifford Geertz, è stato maggiormente approfondito, e ci ha permesso di proseguire il dibattito sulla relazione tra campo e scrittura, inducendo a una prima definizione di campo come “testo parlante”.

Nel pensiero di Foucault, il campo si caratterizza invece come un a priori storico, la cui critica deve avere carattere genealogico: a quali condizioni un enunciato appartiene al campo del vero? La nozione di campo viene quindi accostata a quella di archivio, confinante, diventando lo sfondo della coesistenza enunciativa. La sua funzione è quella di costruire dei territori che permettano ai singoli discorsi di entrare o non entrare, di essere accettati o rifiutati: si configura quindi come un dispositivo di controllo. Tutti gli enunciati che si trovano dentro il campo vengono così definiti come veri, al contrario di quelli esclusi, i quali, pur trovandosi all’esterno possono essere potenzialmente accettati in futuro, innovando e ridefinendo l’interno.

Questa definizione foucaultiana ci ha portato a riflettere sulla fragilità del campo e sulla mobilità dei suoi confini. Inoltre, mettendo in relazione questo termine con quello di “cultura” abbiamo potuto costatare la ricchezza che questa definizione può portare negli studi antropologici.

Il Prof. Carmagnola si è poi soffermato brevemente sulla specifica dimensione estetica del campo, inteso come “campo del sentire”. Come filosofo, una delle domande principali della sua ricerca è che cosa governi e renda legittima la presenza di manufatti, definibili anche come beni simbolici, nel campo dell’estetica.

Non avendo però molto tempo a disposizione, la riflessione si è spostata velocemente al pensiero di Bourdieu e alla sua contestazione dell’idea foucaultiana. La sua critica è fondamentalmente di tipo materialistico: Foucault è stato astratto, trattando l’episteme come se fosse indipendente. Con un ragionamento d’ispirazione marxista, Bourdieu propone invece l’ambito sociale come fondatore del discorso, spostandosi dal piano epistemico a quello sociale. Il campo è quindi definito come “una rete di relazioni oggettive tra posizioni” o anche come “un campo di forze che agiscono su tutti coloro che vi entrano in maniera differenziale a seconda della posizione che essi occupano”.

Il seminario si è concluso con delle riflessioni sulla relazione tra il campo e il soggetto nei due autori citati: essendo il soggetto influenzato dal campo, chi governa il campo? È interessante sottolineare che per Foucault il campo è acefalo, anonimo, quindi la domanda “chi governa il campo?” è impropria. Il pensiero di Bourdieu lascia invece più spazio alla soggettività: il campo viene infatti riprodotto e attualizzato dal soggetto.

L’incontro con il Prof. Carmagnola ci ha permesso non solo di approfondire una nozione centrale alle nostre ricerche, ma di riflettere sulla costruzione dei saperi, sui confini e sul concetto di vero, attraverso il confronto di due esempi autorevoli.