sabato 28 aprile 2018

Traiettorie e snodi esistenziali. L’espressione del vissuto quale chiave di comprensione antropologica

Le attività di selezione, raccolta ed elaborazione dei dati rappresentano il fulcro della ricerca etnografica. Reperire le informazioni significa attingere, a seconda della domanda di ricerca, ad un vasto ed eterogeneo patrimonio di fonti (scritte, orali, materiali, ecc.), tra queste spiccano le storie di vita dalle quali viene generalmente estrapolata una mole considerevole di elementi. Queste narrazioni risentono tuttavia di un processo di “nebulizzazione” all'interno del testo, una dispersione che tende a lasciare inesplorato un aspetto cruciale per la comprensione: la restituzione della traiettoria esistenziale. In che modo è possibile restituire la complessità di una storia orale? Siamo in grado di padroneggiare una scrittura attenta alle forme della partecipazione e all’analisi dei dati e capace, allo stesso tempo, di generare personaggi all’interno di una narrazione ricostruita?

È sulla base di queste riflessioni che, mercoledì 11 aprile 2018, la Prof.ssa Silvia Vignato ha introdotto il seminario dal titolo "Biografie e contesto: come lavorare sulle traiettorie esistenziali in etnografia", un approfondimento sul tema delle autonarrazioni volto a far emergere i limiti e le potenzialità di questo insostituibile e sfaccettato strumento di ricerca.

L’iperdiffusione e la pervasività delle storie di vita costituisce un fatto indiscutibile della società contemporanea che si alimenta senza sosta di “frammenti autobiografici” (Cuturi 2012). Una sovraesposizione mediatica delle soggettività che si accompagna da alcuni decenni a una proliferazione di “archivi della memoria” – quali la Banca della memoria del progetto Memoro, l’Archivio delle Memorie Migranti (AMM) e molti altri – in cui la valorizzazione del ricordo si stringe alla necessità di rendere il passato partecipe alla costruzione del presente. La moltiplicazione di questi sistemi di archiviazione suscita necessariamente una serie di domande in chi si occupa di percorsi esistenziali, ad esempio, chi consulta questi archivi? Che valore hanno? Chi incrocia le biografie con il dato contestuale? Emerge una codificazione di tipo ideologico della memoria depositata? Domande che permettono di comprendere come, estrapolate dallo schema di archiviazione, le storie orali possano trasformarsi in antropologia.

Le autonarrazioni costituiscono per l’antropologo una preziosa chiave d’accesso al terreno di indagine – aprendo un varco immediato nel vissuto interiorizzato dei propri interlocutori – nonostante ciò le storie di vita restano, paradossalmente, un genere poco considerato in antropologia. Questa reticenza nei confronti delle autonarrazioni è legata ad una serie di limiti teorici e pratici: se da un lato permane la tendenza a privilegiare l’attendibilità delle fonti scritte, dall’altro esistono una serie di variabili connesse ad esempio alla scelta degli interlocutori; alla loro disponibilità a confidarsi attraverso un racconto spontaneo (particolarmente difficile nei contesti permeati da illegalità e sfruttamento); al senso di intrusione e/o di vergogna nell’affidare la propria storia ad un estraneo; ai problemi etici rispetto ad alcuni temi ritenuti sensibili; ecc.

Privilegiando il concetto di traiettorie biografiche rispetto alle “storie di vita”, Silvia Vignato ha intenzionalmente posto l’accento sulla dimensione processuale dell’esistenza, nonché sulla pluralità delle sue interpretazioni: il racconto che un individuo produce rispetto al proprio passato tende non solo a variare a seconda del destinatario, ma continua a essere rielaborato e risignificato alla luce del presente, assumendo valenze diverse nel processo di restituzione.

La narrazione autobiografica, oltre a rappresentare un bacino formidabile di informazioni, consente al ricercatore di riorganizzare il sapere elaborato su un determinato campo – composto spesso da elementi eterogenei e slegati fra loro – innestandolo su di uno schema di vita che, oltre a dettare il tempo, scandisce eventi, relazioni, rappresentazioni e reinterpretazioni del sé.
«Stili narrativi differenti, se presenti, occultano anche fatti diversi» (Vignato): ogni soggetto ha una narrazione di sé che varia a seconda delle fasi della vita, della condizione socio-economica, degli interlocutori e/o del dispositivo a cui affida la propria memoria, ecc. Una variabilità che favorisce la continua rivalutazione del dato esistenziale.

Chi si racconta può dunque fare affidamento su una serie di schemi narrativi del sé capaci di far emergere o di celare particolari aspetti. Cogliere tali schemi costituisce evidentemente un’operazione complessa che richiede una particolare combinazione di sensibilità e strategia. In primo luogo, Vignato consiglia di lavorare sulla diacronia, ovvero su ciò che la gente dice sulla “storia dell’altro ieri”. È indispensabile scovare le cosiddette “zone d’ombra”, affinando la capacità di cogliere il non detto: una persona non è mai come appare, tuttavia la sua storia costituisce sempre un tracciato utile per incrociare e vagliare altri dati e quindi saggiare altri livelli di realtà.

Il pettegolezzo si conferma, come da tradizione, un ottimo metodo per ottenere una microrestituzione circa la validità dei dati raccolti  (Gluckman 1983). Vignato suggerisce inoltre di “andare a caccia” di quelli che chiama gli operatori cognitivi, ovvero gli snodi vitali (eventi, traumi, scelte decisive, ecc.) che hanno sollecitato una metamorfosi esistenziale e la riformulazione de sé.
Scandire il racconto attraverso il filtro dei fattori determinanti è un’operazione decisiva del processo di narrazione a specchio, rappresentando un momento cardine per l’appropriazione cognitiva della propria esperienza di vita e, di conseguenza, per la reinterpretazione del sé.
Occorre al tempo stesso lavorare sulla percezione, imparando a cogliere il riverbero – o l’eco – che un microevento produce e che influenza non soltanto gli attori direttamente coinvolti ma si diffonde, in maniera concentrica, all’intero spazio sociale.

Il crescente interesse nei confronti dell’autonarrazione risulta storicamente connesso allo sviluppo dei Postcolonial Studies a partire dai quali, complice lo stile narrativo di stampo letterario, gli antropologi hanno cominciato a rispondere alla necessità degli interlocutori di “parlare di sé, per sé”: in tal senso, l’autobiografia viene intesa come una fonte preziosa capace di dar voce alla storia dei dominati, degli oppressi (Clemente 2010). L’antropologo è dunque un narratore (Geertz 1973; 1988) che costruisce un racconto sulla base delle traiettorie biografiche a cui ha accesso. 
Ma chi lo autorizza a parlare per gli altri?
Il problema etico della costruzione del “racconto degli altri” rappresenta una questione a lungo dibattuta in antropologia che trova una parziale risoluzione, al di là del più noto sistema del consenso informato, attraverso l’attivismo, espresso da Vignato come “l’asservimento dell’antropologo alle storie degli altri”, che nobilita la sua ricerca e lo autorizza a scrivere per chi non ha possibilità di far sentire la propria voce e la propria sofferenza.

Riferimenti bibliografici:

Caughey J. (1982), The Ethnography of Everyday Life: Theories and Methods for American Culture Studies, «American Quarterly», Vol. 34, No. 3, The Johns Hopkins University Press, p. 222-243.
Clemente P. (2010), L’antropologo che intervista. Le storie della vita, in Pistacchi M. (a cura di) Vive voci. L’intervista come fonte di documentazione, Donzelli, Roma. 
Clifford J., Marcus G.E. (1986), Writing Culture: The Poetics and Politics of Ethnography, University of California Press.
Crapanzano, V. (1980), Tuhami: Portrait of a Moroccan, University of Chicago Press.
Cuturi F. (2012), Storie di vita e soggettività sotto assedio, «Antropologia», No. 14, p. 29-70. 
Das V. (2015), Affiction. Health, Disease, Poverty, Fordham University Press, New York.
Geertz C. (1973), Interpretation of cultures, Basic Book.
Geertz C. (1988), Works and lives: the Anthropologist as Author, Polity Press.
Gluckman M. (1963), Gossip and Scandal, Papers in Honor of Melville J. Herskovits, «Current Anthropology», Vol 4, No. 3, p. 307-316.
Jackson M. (2002), The Politics of Storytelling: Violence, Transgression, and Intersubjectivity, Museum Tusculanum Press.
Robbins J. (2013), Beyond the suffering subject: toward an anthropology of the good, «Journal of the Royal Anthropological Institute», Vol. 19, No. 3, p. 447-462.
Rosaldo R. (1980), Doing oral history, «Social Analysis: The International Journal of Social and Cultural Practice», No. 4, Berghahn Books, p. 89-99.
Rosaldo, R. (2004), Prefazione, in Montezemolo F., La mia storia non la tua. La costruzione dell’identità chicana tra etero e auto rappresentazioni, Milano, Guerini Studio, p. 7-25.
Vansina J. (1985), Oral tradition as History, University of Wisconsin Press.

martedì 3 aprile 2018

Fischia il Vento

Seminario DACS a cura di Enrico Squarcina e Mauro Van Aken.

“Il Vento è invisibile… ciò lo pone immediatamente in una categoria di cui fanno parte Amore, Odio, Politica che troviamo difficili da spiegare e difficili da ignorare" (Frazer, James, Il Ramo d’Oro, 1890).

Dal punto di vista atmosferico il vento si crea in virtù di uno spostamento di una massa d’aria da zone d'alta pressione a zone di bassa pressione. Il motore di tutto quanto è il sole, cioè il riscaldamento della terra che crea una serie di cellule convettive (più o meno costanti): nella fascia equatoriale assistiamo ad un innalzamento di aria riscaldata che crea un vuoto capace di attirare aria fredda proveniente da altre zone terrestri. A livello dell’Equatore, nella sua fase ascendente l’aria calda subisce un processo di raffreddamento che, nella sua fase discendente va creando i venti Alisei.

A livello dei tropici, questo sistema di cellule convettive forma i cosiddetti venti Occidentali. La discesa dei venti non segue una traiettoria perfetta in virtù dell’effetto Coriolis, per il quale, in virtù della rotazione terrestre, assistiamo ad una deviazione di questi verso destra. All’interno di questo ampio sistema sono presenti sistemi ventosi locali che vanno a modificare la situazione di ogni località: durante il giorno assistiamo ad un moto convettivo delle masse d’aria calda dalla terra (maggiormente riscaldata dal sole) al mare, creando un vuoto che viene riempito da aria fresca proveniente dalle masse d’acqua formando le cosiddette brezze.
I sistemi ventosi macro e i sistemi locali agiscono in combinata, creando particolari zone d’azione.

Vi starete chiedendo: e quindi? Siamo ad un corso dell’Aeronautica? Niente affatto, nei seminari DACS il filo conduttore è l’interdisciplinarietà e per questo motivo un cappello introduttivo risulta necessario al lettore per cercare di inquadrare il fenomeno vento a partire dalla sua formazione geofisica, per poi scandagliarne le molteplici declinazioni che questo assume sul versante umano e socio-culturale.

Per chi vive a contatto con ambienti poco antropizzati, la presenza del vento assume caratteristiche importanti nella conduzione delle attività quotidiane: può facilitarne lo sviluppo, può ostacolarne lo svolgimento, arrivando in alcuni casi ad annullare le concettuali costruzioni di tempo e spazio cui siamo soliti pensare. Ciò lo possiamo notare durante le mareggiate o le burrasche, dove i naviganti del XXI secolo si trovano ad affrontare le medesime condizioni che Magellano affrontò cinquecento anni orsono.

Uscita metro Bonola, Milano. Artista: Ivan Tresoldi
I venti inoltre subiscono un processo di antropizzazione e appropriazione simbolica, delimitando degli spazi, costruendo regioni che, pur basandosi su elementi fisici, divengono regioni culturali: una delle più famose e conosciute, soprattutto da chi va per mare, è la regione degli Alisei, una regione dominata da un particolare regime di venti che richiama ad una serie di attenzioni, precauzioni e prescrizioni per coloro che l’attraversano. Secondo Angelo Turco, geografo politico e studioso dell’epistemologie post-kuhniane (Presidente della Fondazione Università IULM n.d.a.), i processi di appropriazione di uno spazio da parte di una (o più) comunità umane avviene attraverso tre processi: la denominazione, la reificazione (trasformando lo spazio a seconda delle nostre esigenze) e la delimitazione. Iniziare quindi col denominare uno spazio, diviene il primo passo per un’appropriazione simbolica (e non) di una regione “naturale” caratterizzata come nel caso in questione dalla presenza di correnti ventose. Nella storia della navigazione a vela, alcune tipologie di venti hanno subito un processo di appropriazione simbolica davvero esemplare. È il caso dei Quaranta Ruggenti e dei Cinquanta Ululanti che spirano rispettivamente tra i 40° e i 50° e tra i 50° e i 60° di latitudine sud: dal XVIII secolo iniziò a diffondersi la consuetudine tra i marinai, di portare un orecchino - sulla destra o sulla sinistra a seconda della traiettoria seguita - come segno distintivo per aver affrontato questi temibili venti polari ed aver portato a termine la navigazione dall’Europa all’Australia (o viceversa).

Un altro esempio di regione culturale plasmata dal vento è la regione monsonica, dove l’arrivo del vento Monsone (dall’arabo Mawsim che significa stagione; nei contesti aridi indica l’arrivo della stagione delle piogge) coincide con il repentino cambio di stagione e di conseguenza con un deciso cambio di rotta per quanto riguarda lo svolgimento di tutte le attività antropiche.
La Bora, caratterizzazione della zona settentrionale dell’Adriatico, il Lavagnino della costa ligure così come il Maestrale, vento che spira nella regione occidentale del Mediterraneo sono correnti ventose che temprano, forgiano e contribuiscono a modificare le conoscenze delle regioni antropomorfiche a noi assai famigliari. Importante per la caratterizzazione di una regione è anche l’assenza di vento: la zona di convergenza intertropicale (ZCIT) chiamata Pot-Au-Noir è infatti uno spazio in cui i flussi degli Alisei creano una totale assenza di correnti che portano alla formazione di temporali molto violenti e alla presenza di temperature in generale decisamente elevate per tutto l’arco della giornata.

Dal punto di vista antropologico Van Aken mette in luce come le culture costruiscono forme di simbolizzazione e di ambientamento producendo saperi sull’atmosfera, flussi venti e su tutto ciò ad esso connesso come piogge, aridità, ritmi agricoli, commerciali, riti e religioni (l’immaterialità dell’aria infatti è stata spesso legata alla sfera del trascendente). Saperi agricoli, cosmologia e teologia sono state e sono legate a predizioni degli agenti atmosferici, dove le culture hanno connesso, facendo proprie, caratteristiche terrestri con conoscenze “aeree”, la cui peculiarità è la mutevolezza continua e costante.

Seguendo il filone di studi che vede come capofila Tim Ingold, è importante sottolineare come il Vento ha avuto nella storia delle società, un’importanza fondativa nel sistema dei Miti; vento che proviene dall’alto, incontrollabile, soffio di vita o di rapitore di anime (dal greco ànemos, vento).

In termini culturali siamo avvolti, avviluppati in “mondi atmosferici” a tal punto che da sempre le società cercano di rendere familiare le forme atmosferiche che perturbano il proprio quotidiano, attraverso linguaggi e forme di simbolizzazione strettamente locali.Le culture sono quindi “temprate” dall’essere nel tempo, sono “acclimatate” ma possono per questo anche disimparare a stare nel tempo, perdendo la connessione e la consapevolezza di essere in parte modificate da esso. Un esempio di questa disconnessione lo troviamo nella vita urbana, dove l’artificialità, la costruzione di climi indoor, spesso manifesta una rottura con la percezione del tempo atmosferico in cui nonostante tutto siamo immersi. Ripensare la classica dicotomia natura-cultura, vedendo l’uomo non solo come forgiatore di un ambiente culturale ma importante fattore di mutamento del contesto naturale che abita, diventa cruciale per approcciarsi in maniera critica e non mistificante al concetto di antropocene. Riportando la propria esperienza etnografica tra i rifugiati palestinesi in Cisgiordania, Van Aken pone in primo piano le pratiche ed i saperi “trapiantati” dai rifugiati nei territori d’accoglienza. Nella nuova situazione geografica, con caratteristiche decisamente differenti da quella che hanno lasciato, imbricati in un nuovo modello di agro-business in cui sono inseriti, essi ripropongono le stesse costruzioni culturali con cui il tempo atmosferico veniva “gestito” nei territori ora colonizzati, attraverso un calendario meteorologico tramandato di generazione in generazione che orienta in maniera precisa e puntuale le pratiche agricole in ambiente caratterizzato da forte scarsità d’acqua.

Vengono quindi messe in campo delle tecniche, basate sulla conoscenza della “propria aria” che i rifugiati hanno portato con sé dopo la migrazione forzata del ’48, mirate ad organizzare il lavoro (e quindi l’approvvigionamento di cibo) in relazione a meccanismi atmosferici che hanno profondi livelli di incertezza. Un sapere atmosferico che ricopre un ruolo cruciale nella società in quanto regolatore oltre che del tempo (cronologico), diventa strumento di misura dei rapporti politici ed economici interni alla stessa. Vento e animali “sentinella” sono i protagonisti del calendario* che organizza la stagione piovosa dopo i lunghi mesi di aridità, per questo motivo ha un’importante valenza per la collettività in quanto strumento per l’ottimizzazione della predisposizione delle sementi e dei tempi di raccolta.

La caratteristica più rilevante che occorre qui ribadire è la capacità delle culture di orientarsi alla mutevolezza, non tanto cercando di dare previsioni ma, in relazione all’imponderabilità del vento, mettere in campo pratiche che devono essere flessibili alla mutevolezza dei processi atmosferici in cui sono avviluppate, con l’obbiettivo di potersi sostenere e quindi mantenere.

In conclusione merita un approfondimento il rapporto, sottolineato da Squarcina tra politica, arte della guerra e correnti, con l’accento su quelle che sono state le narrazioni che sono seguite a fatti che hanno come protagonista immanente il vento. Alcuni esempi di queste grandi narrazioni si ritrovano nella Battaglia di Salamina (480 a.C.), dove i greci comprendono l’importanza dello spazio e del tempo come strategia da “sfruttare” in guerra, durante l’invasione mongola del Giappone ad opera di Kublai Khan (1281 d.C.), respinta ed annientata per via di un “vento divino” sulle coste giapponesi e ancora nel caso del tentativo di invadere l’Inghilterra da parte dell’invincibile Armata di Filippo II, rovinosamente dissoltasi per via di terribili tempeste nello Stretto della Manica e a nord delle coste scozzesi. Anche in questo caso la causa delle sconfitte sono attribuite non ai nemici, ma legate direttamente alla potenza divina che in un caso “affonda” le ammiraglie spagnole cattoliche, così come è in virtù della superiorità della religione anglicana che l’Inghilterra esce vincitrice da questo scontro.

Conclude Squarcina riportando l’enfasi del discorso sulla simbolizzazione che molte società fanno del vento, ponendo in risalto come spesso questo venga associato all’idea di riproduzione e di fertilità e, soprattutto per quanto riguarda il regno vegetale, il vento sia a tutti gli effetti uno dei principali motori dell’azione riproduttiva (insieme agli insetti) delle specie attraverso la diffusione del polline e la distribuzione dei semi, ribadendo ancora una volta la potenza e l’energia di un fenomeno tanto sfuggente quanto penetrante nelle  nostra quotidianità, al punto di plasmarne silenziosamente i ritmi, i linguaggi, i cibi e le tradizioni.

* Calendario di 90 giorni, suddiviso in 12 giorni e mezzo a partire dall’inizio della stagione piovosa.