giovedì 8 febbraio 2018

NEW ROOTS: Migrantour intercultural walks building bridges for newcomers' active participation



Migrantour è un progetto co-finanziato dall’Unione Europea che mette in relazione turismo, migrazioni e città. Le città coinvolte in questo progetto sono moltissime: Milano, Roma, Torino, Firenze, Genova, Napoli, Bologna, Parigi, Lisbona, Marsiglia...

Il perno a cui gira intorno Migrantour sono le passeggiate interculturali, ovvero dei percorsi che vanno alla scoperta dei luoghi multiculturali all’interno delle città. Le guide, provenienti da diverse parti del mondo, si propongono di accompagnare le persone a visitare alcune zone della città in cui le diverse culture si incontrano, raccontando le loro esperienze e i loro ricordi (per comprendere meglio consiglio la visione del video "Migrantour: il mondo in città").

Ogni città, partendo da questa esperienza, ha poi sviluppato una serie di iniziative come manifestazioni culturali, workshop e laboratori, che hanno aggiunto stimoli interessanti a questo progetto multiculturale.

A presentare il progetto è Francesco Vietti, il quale spiega come lo spazio urbano si ritrovi ad essere negoziato all’interno di diverse forme di mobilità, come il turismo e le migrazioni, trovando un punto di incontro nel concetto di patrimonio culturale. Si delinea così la questione principale: “Il patrimonio culturale migrante può essere oggetto di un’esperienza turistica?”. Per le associazioni e i partner del progetto Migrantour la risposta è affermativa.

Secondo l’associazione Renovar a Mouraria (Portogallo), Migrantour è anche uno strumento per lo sviluppo locale. Nel 2012 Mouraria è stata protagonista di un rinnovamento urbano, che ha portato però ad una eccessiva speculazione e gentrificazione. Collaborando con il progetto Migrantour, Renovar a Mouraria vuole promuovere l’arte e la cultura di questa città con eventi musicali e gastronomici, ma anche migliorare i servizi per la comunità e l’integrazione sociale attraverso corsi di lingua e un giornale locale.

Il progetto Migrantour è sostenuto anche da agenzie di turismo responsabile come Bastina Voyages (Francia) e Viaggi Solidali (Torino). Spesso i turisti sentono il desiderio di immergersi nella cultura di altri paesi, ma non pensano a come la propria città possa nascondere tesori provenienti da paesi lontani. Enrico Marletto, responsabile di Viaggi Solidali, spiega quali sono i risvolti commerciali di questo progetto. I principali destinatari sono le scuole, tuttavia si sta cercando di comprendere quali possano essere ulteriori utenti.

L’associazione Alter Brussels, con l’intervento di Fatima, pone l'attenzione sul diverso ruolo dei migranti e sulla loro cittandinanza attiva. Quello che viene raccontato all’interno delle passeggiate, è infatti frutto del punto di vista dei migranti stessi.
Il progetto presenta anche un profondo legame con l’antropologia, come spiega Jana di Terravera (Lubjana). Jana ha fondato un’associazione di antropologhe che si occupa di far incontrare migranti e artisti per incrementare la condivisione di competenze, la trasmissione di conoscenze e valorizzare i talenti.

Tutte queste testimonianze, raccolgono le esperienze peculiari di alcuni partner del progetto Migrantour evidenziando come ognuno di loro abbia contribuito a renderlo un progetto multiforme e in continua evoluzione.

Come afferma Sara Marazzini di FondazioneACRA-CCS, nei prossimi due anni a partire dal neonato progetto New Roots, si cercherà di coinvolgere in modo attivo nel Migrantour anche coloro che sono appena arrivati in Italia e i richiedenti asilo. In questo modo, si vuole aiutare queste persone ad accrescere il loro senso di appartenenza e a prendere confidenza con lo spazio urbano ancora sconosciuto. Gli obiettivi futuri saranno quelli di capire come questo progetto potrà essere organizzato nel modo migliore.

lunedì 5 febbraio 2018

Esperimenti di ricerca e scrittura: Tra il teatro e l'antropologia


Seminario tenuto da Cristiana Giordano.

Cristiana Giordano è un “associate professor” in antropologia all’University of California Davis negli Stati Uniti. I suoi campi d’interesse sono l’immigrazione e la salute mentale delle persone migranti in Europa attraverso il punto di vista dell’etnopsichiatria. Inoltre insieme a Greg Pierrotti (artista co-fondatore del Tectonic Theatre), cerca possibili punti d’incontro tra la pratica etnografica e le arti performative (soprattutto quella del teatro). 

Nella prima parte dell’intervento è stato abbordato il tema di come un sistema di cura-custodia (in ambito psichiatrico) nei confronti della figura del migrante, possa più o meno dar ascolto alla persona non solo attraverso la categoria della malattia mentale e come tali categorizzazioni inibiscono, congelano e cancellano la totalità dell’essere umano.
Tra il 2002 e il 2004 Cristiana ha svolto ricerca all’interno del centro Frantz Fanon di Torino, un centro dedicato esclusivamente al supporto psico-sociale degli stranieri migranti . La clinica è un servizio alternativo alla rete di salute mentale aperto nella metà degli anni 90 che  ha raccolto l’eredità “basagliana” di critica alla psichiatria convenzionale, proponendo una metodologia basata sull’intervento territoriale e  sull’etnopsichiatria.
Cristiana, nella sua ricerca etnografica ha voluto mostrare come l’etnopsichiatria sia una pratica di ascolto clinico non in asse con gli strumenti politici e clinici, che attraverso la categorizzazione (migrante, vittima, rifugiato) vogliono nascondere la persona in oggetto; viene in mente una frase di Dario Ianes quando parla della “disabilità”: “lo sguardo va troppo spesso alla carrozzina, al deficit e lo totalizza; copre tutta la persona che diventa così disabile” (Ianes 2003). Nel nostro caso diventa rifugiato o semplicemente immigrato.
L’etnopsichiatria attraverso le sue tecniche, oltre  a mettere in discussione categorie biomediche, sospende questa categorizzazione assicurando uno spazio di ascolto unico in cui  si mette in relazione stretta il benessere o il malessere psicologico  con le altre dimensioni della vita che la persona migrante porta con se.

La seconda parte dell’intervento ha riguardato una pratica teatrale come processo di ricerca, e quindi il connubio e o intersezione tra la costruzione di un “pezzo” teatrale e un certo tipo di ricerca etnografica.
Cristiana, da alcuni anni sta lavorando insieme all’attore-scrittore Greg Pierotti a un progetto di ricerca teatrale il Tectonic Theatre, una compagnia che è dedicata allo sviluppo di lavori, che da un lato effettuino una ricerca di tipo artistico, quindi sulle forme di fare teatro, e dall’altro propongano un costante dialogo socio-politico. La compagnia nata nel 1991, propone sia spettacoli che percorsi formativi, ed ha come posizionamento metodologico l’interesse a come le cose vengono costruite più che al prodotto in se, privilegiando nella creazione, la produzione non testuale alla classica drammaturgia.
La pratica proposta, che Greg e Cristiana hanno chiamato “affective devising” è una forma di drammaturgia che attraverso la conoscenza,  prima di tutto sensoriale a dell’ambiente cui fa seguito un’indagine “affettiva”, permette di creare una performance teatrale.
Per comprendere una pratica “sperimentale” e soprattutto per comprenderne il nesso con la ricerca etnografica bisogna prima di tutto capire la grande differenza con la drammaturgia classica che è text oriented il che significa che è la produzione testuale che guida la costruzione del prodotto teatrale; in questo caso l’indagine sensoriale-affettiva vengono prima, e producono dopo una qualsiasi produzione testuale
Cristiana ha proposto in questo senso 3 tipi di esercizi.
Il primo esercizio è stato un esercizio individuale sulla conoscenza percettiva-sensoriale del luogo in cui ci trovavamo. A turno i componenti del gruppo si sono alzati e hanno pronunciato la parola “inizio”; da quel momento hanno sperimentato un solo approccio sensoriale alla conoscenza del luogo, terminato il quale hanno pronunciato la parola “finisco” terminando l’esplorazione. “Inizio-finisco” ha rappresentato il momento della ricerca delimitandola precisamente nel tempo, ed è stata usata in tutti gli esercizi.
Il secondo esercizio ha riguardato l’utilizzo di oggetti personali da parte di altri. Una sciarpa, un’agenda, il bicchiere di plastica del caffè, oggetti personali che sono diventati patrimonio performativo del gruppo. A turno ognuno utilizzava l’oggetto non suo per fare un’azione. La sciarpa diventava così una benda e il bicchiere uno strumento a percussione.
Il terzo esercizio proposto ha riguardato l’utilizzo degli stessi oggetti da parte di una coppia di attori-ricercatori. In questo caso la coppia sceglieva l’oggetto e con lo stesso costruiva un’azione; la bottiglietta di plastica diventava così un oggetto di lancio e la sciarpa un turbante. La  sciarpa che per me serve da accessorio di protezione del collo dal freddo,  per un altro elemento del gruppo serve da benda.L'oggetto è lo stesso ma il punto di vista su di esso cambia.

Il testo e la narrativa sia verbale che fisica esistono ma sono legati saldamente agli elementi del “palco” nel momento in cui il “setting” scompare, scompare anche il percorso-ricerca-performance.
Questo “engagement” con il materiale empirico rende questa metodologia di costruzione di una performance centrata soprattutto sulla relazione artista-ricercatore-setting  più che sulla relazione artista se stesso e poi ambiente; Per dare un esempio in ambito teatrale, sia le azioni corporee  di Grotowski che il lavoro dell’attore (su se stesso e sul personaggio) partono dall’individuo che mette in scena e non come nella proposta della Giordano dalla relazione individuo-mondo per poi rendere la scena.

L’asse di connessione con la ricerca antropologica non è certamente (almeno completamente) ne quello proposto da V. Turner il quale metteva in scena i dati raccolti nella ricerca etnografica, ne quello proposto da Ervin Goffman in cui con la performance teatrale si cercava di capire la realtà, ne forse la proposta di  A. Boal  e di tutto il movimento del teatro dell’oppresso  che attraverso il coinvolgimento dello spettatore-popolo si cercavasno soluzioni alla relatà messa in scena fine politico. Nell’ “affective devising” si pensa attraverso la realtà, quindi quello che la realtà produce su di noi come singoli o come gruppo. Cambiano gli attori e cambia il “setting”, allora cambia la performance e l’etnografia.