Lo studio di comunità
e società identificate tramite la loro
aderenza al Buddhismo – o quantomeno a pratiche genealogicamente
legate ad esso – pur emerso relativamente in ritardo come ramo a sé stante rispetto a
lavori comparabili nell'antropologia delle religioni, non è
tuttavia materia completamente nuova in Antropologia. Lavori seminali come
quelli di Tambiah (1976) e Obeyesekere
(1970) figurerebbero con ogni probabilità
ancora oggi in cima ad ogni reading list che si rispetti di
corsi sul Buddhismo, antropologici o meno. En passant, un
illustre colosso
della disciplina come Levi-Strauss (1961),
in un avvincente scambio di opinioni con
Derrida sul potenziale marxista della
compagine etica degli scrittu buddhologici, aveva pure
espresso interesse nello studio del Buddhismo, pur senza mai
effettivamente erigerlo ad oggetto di ricerca etnografica.
Con l'importante
eccezione del lavoro di LeVine e David Gellner (2005)
sulla diffusione del Theravadismo tra i Buddhisti Nepalesi nella
seconda meta' del Novecento, le sorti del Buddhismo in antropologia
sono rimaste ferme grosso modo ai volumi di Tambiah, Gombrich ed
Obeyesekere. Contributi che, in ogni caso, non sono entrati
nell'ingranaggio di referenze e dibattiti intra-disciplinari nella
stessa misura invece con cui è accaduto ai
ben più influenti lavori sull'Islam (Asad
1986, 1993; Mahmood 2005;
Keane 2008) o sul Cristianesimo
(Robbins 2004; Orsi 2005;
Cannell 2006), per rimanere nel circolo delle “world
religions”, emerse nel frattempo come filoni autonomi all'interno
della discipina (Masuzawa 2005).
Non sorprende, forse,
che il Buddhismo sia ri-emerso con più
convinzione nei corridoi antropologici solo
nel corso del recente brainstorming che ha attraversato
l'antropologia sul tema dell'etica e del morale, in un certo modo
ricollegandosi alla convinzione, un po' da luogo comune un po' da
speculazione socio-politica come quella del Levi-Strauss, che il
Buddhismo abbia a che fare con l'etica in maniera ancora piu'
fondante e pervasiva di qualunque altro sistema di pratiche e
credenze ammassate nei rispettivi cassetti delle “world religions”.
Lo studio di Joanna
Cook (2010) sulla pratica meditativa delle
mae chee (monache buddhiste thailandesi ai margini
dell'istituzionale) ha proiettato il Buddhismo, in particolare la
pratica della meditazione Vipassana, dritto al centro del dibattito
sul sé e sulla formazione etica come sua
pratica di modellamento, evidentemente nell'orientamento
inizializzato da Michel Foucault.
La meditazione
Vipassana è una tecnica (o tecnologia,
ancora nel vocabolario foucauldiano) popolarizzata verso la meta' del
Novecento nei circoli Theravada birmani e basati su specifiche
interpretazioni testuali dei sutra Satipatthana
attribuiti a Buddha Sakyamuni in persona, e che costituiscono alcune
delle fondamenta dottrinali della scuola Theravada, in opposizione ad
altri corpus testuali reveriti ossequiamente da altre scuole e che
gli organi istituzionali Theravada diminuiscono, nel migliore dei
casi, come apocrifi. Essenzialmente, la Vipassana insegnata in questo orientamento consiste in sedute di variabile durata in cui il praticante cerca di portare l'intera sua attenzione sul respiro al fine di attenere uno stato di concentrazione assoluta (samadhi) che consente di accedere all'esperienze in maniera non-mediata da giudizi e categorie. Attraverso l'attento vaglio di ogni sensazione corporea e mentale che dovesse emergere durante la seduta, il praticante, idealmente, dovrebbe fare esperienza diretta del principio buddhista di vacuità e interdipendenza dei fenomeni.
Sala di meditazione a Batu, Indonesia (foto dell'autore) |
Il vero exploit della Vipassana si è
avuto con il proselitismo di S.N.
Goenka, inserito e migrato in un tessuto di organizzazioni,
fondazioni e centri di studio ormai di portata globale, da Bangkok a
Sydney fino a Firenze. Goenka, venuto alla ribalta in un periodo di
grande interesse e supporto – anche finanziario – sul Buddhismo
nel contesto Euro-Americano, semplificò al
tempo stesso la pratica al fine di renderla accettabile ad un
pubblico colto, razionale e agnostico come doveva essere presumibilmente quello "occidentale". I riferimenti
al Buddhismo in sé sono ridotti al minimo,
la scientificità della tecnica viene
ribadita con impressionante frequenza e in molti dei centri in cui
viene insegnata i simboli religiosi sono scarsi quando non del tutto
assenti, in Europa come nel Sudest asiatico. Nel corso dei decenni in
cui la Vipassana si è estesa nei contesti
più disparati, non ultimo il mondo
aziendale-corporativo1,
la tecnica è diventata quasi sinonimo di
meditazione buddhista, quantomeno nel canone Theravada.
Altri autori, come
Chladek (2018) e,
ancora più di recente, lo studio
sull'iniziazione monastica a Fo Guang Shan portato avanti da Mair e
Laidlaw (2019) – quest'ultimo per altro
uno dei primi ad invitare il presente dibatto sull'etica nella
disciplina (Laidlaw 2002) – hanno
proseguito su questa linea favorendo ritiri
formali e contesti monastici, anche quando il focus d'analisi
non era strettamente la Vipassana. L'attenzione si è
rivolta qui alla pratica meditativa e ai processi tramite i quali si
inserisce nel flusso esperienziale in cui l'etico viene incontrato,
sia nella sua concezione “ordinaria” (Das 2015,
Lambek 2010) che nella sua espressione
auto-riflessiva nella forma di “valori” (Robbins 2012).
Nonostante ciò,
tuttavia, anche la letteratura antropologica più
recente inerente al Buddhismo, sospinta una volta un più
nel 2017 dall'articolo di Sihlé e Ladwig,
“Per un'antropologia del Buddhismo”(“Towards
a Comparative Anthropology of Buddhism”, 2017), manca di un
dibattito e di un inquadramento teorico preciso sulla Vipassana o su
altre tecniche meditative di comparabile
influenza o che figurino similmente come termini “diasporici”
nella condizione polverizzata della modernita' (Appadurai 1996).
Un ulteriore limite
dell'osservazione antropologica sulla Vipassana e altri movimenti
meditativi di massa, in qualche modo ancora legato alla loro
diasporicità significativa, è
la scarsa attenzione prestata alla pratica in contesti non-monastici
o informali. Un limite non da poco, considerato che uno degli apporti
più innovativi del movimento Vipassana e
della riconfigurazione Theravadica in generale è
proprio la divulgazione popolare di tecniche e discipline in
precedenza esoteriche o comunque relegate al contesto ascetico e
monastico che demarcava in maniera più
netta il rinunciatario dal volgo.
La riflessione sulla
diasporicità della meditazione di matrice
Theravada è emersa in primo luogo dalla
mia esperienza di campo nelle comunità
Buddhiste in Java, Indonesia. Osservando la crescente prevalenza
della tecnica Vipassana in contesti socio-economici molto differenti
– dal ceto medio benestante e cosmopolita di città
come Surabaya agli sparuti e inaccessibili templi di campagna nelle
regioni montuose di Java centrale – e, successivamente, anche le
profonda diversità di vedute e approcci
alla tecnica anche all'interno di questa semplificata divisione tra
“urbano” e “rurale”, mi è parso in
maniera sempre più lampante come la
tecnica meditativa necessitasse un'attenzione analitica ben più
profonda. Scrivendo della pratica Vipassana in Birmania dalla
prospettiva monastica, Jordt (2006) suggerì
di considerare la tecnica meditativa come costituente di comunità
incentrate e circoscritte da una peculiare modalità
di conoscenza (communities of knowledge). Alla luce
dell'irriducibile varietà di comprensioni
della tecnica, tuttavia, nonché al tempo
stesso tenendo in mente la scala globale della sua diffusione,
sarebbe più utile, probabilmente,
recuperare in proposito il concetto di
“tradizione discorsiva”.
Coniato in principio da Talal Asad (1993)
in riferimento all'Islam ed in coda ad un'acuta critica alla celebre
definizione geertziana di religione come “sistema di simboli”
(Geertz 1973: 90) la nozione sposa
magistralmente un'accezione larga ma specifica di “tradizione”
(nel senso di “conversazione” di
MacIntyre 1984) con un'attenzione alle dinamiche del potere e del
modo in cui la conoscenza viene prodotta entro i suoi scopi e
circostanze storiche (il concetto inoltre è
stato riportato in auge di recente da Michael Lambek 2015,
che ne ha allargato il senso oltre quello strettamente religioso).
Guardando alla
Vipassana attraverso il tornasole del concetto di tradizione
discorsiva ci permette di essere inclusivi di ogni sua espressione e
di ogni ricorso al suo vocabolario da parte dei soggetti e gruppi più
disparati, mentre al tempo stesso non detta giudizio sulla sua
attuazione, nella pratica, nello svolgersi esistenziale in cui ne vengono
rievocati simboli e idioma. Uno svolgersi in cui inevitabilmente limiti, conflitti,
contraddizioni, non-esclusività e varietà
di interpretazioni sono all'ordine del giorno. Limiti
di pratica che, lungi dall'essere meramente “errori”, come
ribadito da Laidlaw (2019) sono parte integrante stessa delle logiche
con cui ogni sistema religioso referisce a se stesso prima e dopo
l'incrocio tra azione e tradizione. Ai piedi dell'Appennino
come nelle piantagioni di Java.
1 http://www.executive.dhamma.org/
Bibliografia:
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