lunedì 11 novembre 2019

La meditazione Vipassana come tradizione discorsiva

Lo studio di comunità e società identificate tramite la loro aderenza al Buddhismo – o quantomeno a pratiche genealogicamente legate ad esso – pur emerso relativamente in ritardo come ramo a sé stante rispetto a lavori comparabili nell'antropologia delle religioni, non è tuttavia materia completamente nuova in Antropologia. Lavori seminali come quelli di Tambiah (1976) e Obeyesekere (1970) figurerebbero con ogni probabilità ancora oggi in cima ad ogni reading list che si rispetti di corsi sul Buddhismo, antropologici o meno. En passant, un illustre colosso della disciplina come Levi-Strauss (1961), in un avvincente scambio di opinioni con Derrida sul potenziale marxista della compagine etica degli scrittu buddhologici, aveva pure espresso interesse nello studio del Buddhismo, pur senza mai effettivamente erigerlo ad oggetto di ricerca etnografica.
Con l'importante eccezione del lavoro di LeVine e David Gellner (2005) sulla diffusione del Theravadismo tra i Buddhisti Nepalesi nella seconda meta' del Novecento, le sorti del Buddhismo in antropologia sono rimaste ferme grosso modo ai volumi di Tambiah, Gombrich ed Obeyesekere. Contributi che, in ogni caso, non sono entrati nell'ingranaggio di referenze e dibattiti intra-disciplinari nella stessa misura invece con cui è accaduto ai ben più influenti lavori sull'Islam (Asad 1986, 1993; Mahmood 2005; Keane 2008) o sul Cristianesimo (Robbins 2004; Orsi 2005; Cannell 2006), per rimanere nel circolo delle “world religions”, emerse nel frattempo come filoni autonomi all'interno della discipina (Masuzawa 2005).

Non sorprende, forse, che il Buddhismo sia ri-emerso con più convinzione nei corridoi antropologici solo nel corso del recente brainstorming che ha attraversato l'antropologia sul tema dell'etica e del morale, in un certo modo ricollegandosi alla convinzione, un po' da luogo comune un po' da speculazione socio-politica come quella del Levi-Strauss, che il Buddhismo abbia a che fare con l'etica in maniera ancora piu' fondante e pervasiva di qualunque altro sistema di pratiche e credenze ammassate nei rispettivi cassetti delle “world religions”.
Lo studio di Joanna Cook (2010) sulla pratica meditativa delle mae chee (monache buddhiste thailandesi ai margini dell'istituzionale) ha proiettato il Buddhismo, in particolare la pratica della meditazione Vipassana, dritto al centro del dibattito sul sé e sulla formazione etica come sua pratica di modellamento, evidentemente nell'orientamento inizializzato da Michel Foucault.
La meditazione Vipassana è una tecnica (o tecnologia, ancora nel vocabolario foucauldiano) popolarizzata verso la meta' del Novecento nei circoli Theravada birmani e basati su specifiche interpretazioni testuali dei sutra Satipatthana attribuiti a Buddha Sakyamuni in persona, e che costituiscono alcune delle fondamenta dottrinali della scuola Theravada, in opposizione ad altri corpus testuali reveriti ossequiamente da altre scuole e che gli organi istituzionali Theravada diminuiscono, nel migliore dei casi, come apocrifi. Essenzialmente, la Vipassana insegnata in questo orientamento consiste in sedute di variabile durata in cui il praticante cerca di portare l'intera sua attenzione sul respiro al fine di attenere uno stato di concentrazione assoluta (samadhi) che consente di accedere all'esperienze in maniera non-mediata da giudizi e categorie. Attraverso l'attento vaglio di ogni sensazione corporea e mentale che dovesse emergere durante la seduta, il praticante, idealmente, dovrebbe fare esperienza diretta del principio buddhista di vacuità e interdipendenza dei fenomeni.
Sala di meditazione a Batu, Indonesia (foto dell'autore)
Il vero exploit della Vipassana si è avuto con il proselitismo di S.N. Goenka, inserito e migrato in un tessuto di organizzazioni, fondazioni e centri di studio ormai di portata globale, da Bangkok a Sydney fino a Firenze. Goenka, venuto alla ribalta in un periodo di grande interesse e supporto – anche finanziario – sul Buddhismo nel contesto Euro-Americano, semplificò al tempo stesso la pratica al fine di renderla accettabile ad un pubblico colto, razionale e agnostico come doveva essere presumibilmente quello "occidentale". I riferimenti al Buddhismo in sé sono ridotti al minimo, la scientificità della tecnica viene ribadita con impressionante frequenza e in molti dei centri in cui viene insegnata i simboli religiosi sono scarsi quando non del tutto assenti, in Europa come nel Sudest asiatico. Nel corso dei decenni in cui la Vipassana si è estesa nei contesti più disparati, non ultimo il mondo aziendale-corporativo1, la tecnica è diventata quasi sinonimo di meditazione buddhista, quantomeno nel canone Theravada.
Altri autori, come Chladek (2018) e, ancora più di recente, lo studio sull'iniziazione monastica a Fo Guang Shan portato avanti da Mair e Laidlaw (2019) – quest'ultimo per altro uno dei primi ad invitare il presente dibatto sull'etica nella disciplina (Laidlaw 2002) – hanno proseguito su questa linea favorendo ritiri formali e contesti monastici, anche quando il focus d'analisi non era strettamente la Vipassana. L'attenzione si è rivolta qui alla pratica meditativa e ai processi tramite i quali si inserisce nel flusso esperienziale in cui l'etico viene incontrato, sia nella sua concezione “ordinaria” (Das 2015, Lambek 2010) che nella sua espressione auto-riflessiva nella forma di “valori” (Robbins 2012).

Nonostante ciò, tuttavia, anche la letteratura antropologica più recente inerente al Buddhismo, sospinta una volta un più nel 2017 dall'articolo di Sihlé e Ladwig, “Per un'antropologia del Buddhismo”(“Towards a Comparative Anthropology of Buddhism”, 2017), manca di un dibattito e di un inquadramento teorico preciso sulla Vipassana o su altre tecniche meditative di comparabile influenza o che figurino similmente come termini “diasporici” nella condizione polverizzata della modernita' (Appadurai 1996).
Un ulteriore limite dell'osservazione antropologica sulla Vipassana e altri movimenti meditativi di massa, in qualche modo ancora legato alla loro diasporicità significativa, è la scarsa attenzione prestata alla pratica in contesti non-monastici o informali. Un limite non da poco, considerato che uno degli apporti più innovativi del movimento Vipassana e della riconfigurazione Theravadica in generale è proprio la divulgazione popolare di tecniche e discipline in precedenza esoteriche o comunque relegate al contesto ascetico e monastico che demarcava in maniera più netta il rinunciatario dal volgo.
La riflessione sulla diasporicità della meditazione di matrice Theravada è emersa in primo luogo dalla mia esperienza di campo nelle comunità Buddhiste in Java, Indonesia. Osservando la crescente prevalenza della tecnica Vipassana in contesti socio-economici molto differenti – dal ceto medio benestante e cosmopolita di città come Surabaya agli sparuti e inaccessibili templi di campagna nelle regioni montuose di Java centrale – e, successivamente, anche le profonda diversità di vedute e approcci alla tecnica anche all'interno di questa semplificata divisione tra “urbano” e “rurale”, mi è parso in maniera sempre più lampante come la tecnica meditativa necessitasse un'attenzione analitica ben più profonda. Scrivendo della pratica Vipassana in Birmania dalla prospettiva monastica, Jordt (2006) suggerì di considerare la tecnica meditativa come costituente di comunità incentrate e circoscritte da una peculiare modalità di conoscenza (communities of knowledge). Alla luce dell'irriducibile varietà di comprensioni della tecnica, tuttavia, nonché al tempo stesso tenendo in mente la scala globale della sua diffusione, sarebbe più utile, probabilmente, recuperare in proposito il concetto di “tradizione discorsiva”. Coniato in principio da Talal Asad (1993) in riferimento all'Islam ed in coda ad un'acuta critica alla celebre definizione geertziana di religione come “sistema di simboli” (Geertz 1973: 90) la nozione sposa magistralmente un'accezione larga ma specifica di “tradizione” (nel senso di “conversazione” di MacIntyre 1984) con un'attenzione alle dinamiche del potere e del modo in cui la conoscenza viene prodotta entro i suoi scopi e circostanze storiche (il concetto inoltre è stato riportato in auge di recente da Michael Lambek 2015, che ne ha allargato il senso oltre quello strettamente religioso). 

Guardando alla Vipassana attraverso il tornasole del concetto di tradizione discorsiva ci permette di essere inclusivi di ogni sua espressione e di ogni ricorso al suo vocabolario da parte dei soggetti e gruppi più disparati, mentre al tempo stesso non detta giudizio sulla sua attuazione, nella pratica, nello svolgersi esistenziale in cui ne vengono rievocati simboli e idioma. Uno svolgersi in cui inevitabilmente limiti, conflitti, contraddizioni, non-esclusività e varietà di interpretazioni sono all'ordine del giorno. Limiti di pratica che, lungi dall'essere meramente “errori”, come ribadito da Laidlaw (2019) sono parte integrante stessa delle logiche con cui ogni sistema religioso referisce a se stesso prima e dopo l'incrocio tra azione e tradizione. Ai piedi dell'Appennino come nelle piantagioni di Java.
1 http://www.executive.dhamma.org/

 
Bibliografia:

Appadurai, A. (1996) Modernity At Large. Cultural Dimensions of Globalization. Minneapolis: University of Minnesota Press.
Asad, T. (1986) The Idea of an Anthropology of Islam. Washington: Georgetown University Press;
Asad, T. (1993) Genealogies of Religion. Baltimora: John Hopkins University Press;
Cannell, F. (ed.) (2006) The Anthropology of Christianity. Durham-London: Duke University Press;
Chladek, M. (2018) Constructing "The Middle". The Socialization of Monastic Youth in Buddhist Northern Thailand, in Ethos 46 (2): 180-205;
Cook, J. (2010) Meditation in Modern Buddhism: Renunciation and Change in Thai Monastic Life. Cambridge: Cambridge University Press;
Das, V. (2015) What Does Ordinary Ethics Look Like, in Four Lectures on Ethics. HAU Books;
Geertz, C. (1973) The Interpretation of Cultures. Basic Books Inc.;
Keane, W. (2008) The Evidence of The Senses and the Materiality of Religion, in The Journal of the Royal Anthropological Institute (14): 110-127;
Laidlaw, J. (2002) For An Anthropology of Ethics and Freedom, in The Journal of The Royal Anthropological Institute 8 (2): 311-332;
Lambek, M. (2010) Ordinary Ethics. Anthropology, Language and Action. Fordham University Press;
Levi-Strauss, C. (1961) Tristes Tropiques. New York: Criterion Books;
Lambek, M. (2015) The Hermeneutics of Ethical Encounters, in HAU: Journal of Ethnographic Theory 5 (2): 227-250;
LeVine, S. & Gellner, D. (2005) Rebuilding Buddhism: The Theravada Movement in Twentieth Century Nepal. Harvard University Press;
MacIntyre, A. (1984) After Virtue. ND, Indiana: University of Notre Dame Pess;
Mahmood, S. (2005) The Politics of Piety. Princeton: Princeton University Press;
Mair, J & Laidlaw, J. (2019) Imperfect Accomplishments: The Fo Guang Shan Short-term Monastic Retreat and Ethical Pedagogy in Humanistic Buddhism, in Cultural Anthropology 34 (3): 328-358;
Masuzawa, T. (2005) The Invention of World Religions. Chicago: University of Chicago Press;
Obeyesekere, G. (1970) Religious Symbolism and Political Change in Ceylon, in Modern Ceylon Studies 1 (1): 43-63;
Orsi, R.A. (2005) Between Heaven and Earth. Princeton: Princeton University Press;
Robbins, J. (2004) Becoming Sinners. Berkeley: University of California Press;
Robbins, J. (2012) Cultural Values, in A Companion to Moral Anthropology (eds. Fassin, D.). John Wiley & Sons;
Sihlé, P. & Ladwig, N. (2017) Towards a Comparative Anthropology of Buddhism, in Religion and Society 8: 109-128;
Tambiah, S. (1976) World Conqueror and World Renouncer. New York: Cambridge University Press;