Seminario tenuto da Cristiana Giordano.
Cristiana Giordano è un “associate
professor” in antropologia all’University of California Davis negli Stati
Uniti. I suoi campi d’interesse sono l’immigrazione e la salute mentale delle
persone migranti in Europa attraverso il punto di vista dell’etnopsichiatria.
Inoltre insieme a Greg Pierrotti (artista co-fondatore del Tectonic Theatre), cerca
possibili punti d’incontro tra la pratica etnografica e le arti performative (soprattutto
quella del teatro).
Nella prima parte dell’intervento
è stato abbordato il tema di come un sistema di cura-custodia (in ambito psichiatrico)
nei confronti della figura del migrante, possa più o meno dar ascolto alla
persona non solo attraverso la categoria della malattia mentale e come tali categorizzazioni
inibiscono, congelano e cancellano la totalità dell’essere umano.
Tra il 2002 e il 2004 Cristiana
ha svolto ricerca all’interno del centro Frantz Fanon di Torino, un centro
dedicato esclusivamente al supporto psico-sociale degli stranieri migranti . La
clinica è un servizio alternativo alla rete di salute mentale aperto nella metà
degli anni 90 che ha raccolto l’eredità “basagliana”
di critica alla psichiatria convenzionale, proponendo una metodologia basata
sull’intervento territoriale e sull’etnopsichiatria.
Cristiana, nella sua ricerca
etnografica ha voluto mostrare come l’etnopsichiatria sia una pratica di
ascolto clinico non in asse con gli strumenti politici e clinici, che
attraverso la categorizzazione (migrante, vittima, rifugiato) vogliono
nascondere la persona in oggetto; viene in mente una frase di Dario Ianes
quando parla della “disabilità”: “lo sguardo va troppo spesso alla carrozzina,
al deficit e lo totalizza; copre tutta la persona che diventa così disabile” (Ianes
2003). Nel nostro caso diventa rifugiato o semplicemente immigrato.
L’etnopsichiatria attraverso le
sue tecniche, oltre a mettere in
discussione categorie biomediche, sospende questa categorizzazione assicurando
uno spazio di ascolto unico in cui si
mette in relazione stretta il benessere o il malessere psicologico con le altre dimensioni della vita che la
persona migrante porta con se.
La seconda parte dell’intervento
ha riguardato una pratica teatrale come processo di ricerca, e quindi il
connubio e o intersezione tra la costruzione di un “pezzo” teatrale e un certo
tipo di ricerca etnografica.
Cristiana, da alcuni anni sta
lavorando insieme all’attore-scrittore Greg Pierotti a un progetto di ricerca
teatrale il Tectonic Theatre, una compagnia che è dedicata allo sviluppo di
lavori, che da un lato effettuino una ricerca di tipo artistico, quindi sulle
forme di fare teatro, e dall’altro propongano un costante dialogo
socio-politico. La compagnia nata nel 1991, propone sia spettacoli che percorsi
formativi, ed ha come posizionamento metodologico l’interesse a come le cose
vengono costruite più che al prodotto in se, privilegiando nella creazione, la
produzione non testuale alla classica drammaturgia.
La pratica proposta, che Greg e
Cristiana hanno chiamato “affective devising” è una forma di drammaturgia che
attraverso la conoscenza, prima di tutto
sensoriale a dell’ambiente cui fa seguito un’indagine “affettiva”, permette di
creare una performance teatrale.
Per comprendere una pratica
“sperimentale” e soprattutto per comprenderne il nesso con la ricerca etnografica
bisogna prima di tutto capire la grande differenza con la drammaturgia classica
che è text oriented il che significa che è la produzione testuale che guida la
costruzione del prodotto teatrale; in questo caso l’indagine
sensoriale-affettiva vengono prima, e producono dopo una qualsiasi produzione
testuale
Cristiana ha proposto in questo
senso 3 tipi di esercizi.
Il primo esercizio è stato un
esercizio individuale sulla conoscenza percettiva-sensoriale del luogo in cui
ci trovavamo. A turno i componenti del gruppo si sono alzati e hanno pronunciato
la parola “inizio”; da quel momento hanno sperimentato un solo approccio
sensoriale alla conoscenza del luogo, terminato il quale hanno pronunciato la
parola “finisco” terminando l’esplorazione. “Inizio-finisco” ha rappresentato
il momento della ricerca delimitandola precisamente nel tempo, ed è stata usata
in tutti gli esercizi.
Il secondo esercizio ha
riguardato l’utilizzo di oggetti personali da parte di altri. Una sciarpa,
un’agenda, il bicchiere di plastica del caffè, oggetti personali che sono
diventati patrimonio performativo del gruppo. A turno ognuno utilizzava
l’oggetto non suo per fare un’azione. La sciarpa diventava così una benda e il
bicchiere uno strumento a percussione.
Il terzo esercizio proposto ha
riguardato l’utilizzo degli stessi oggetti da parte di una coppia di
attori-ricercatori. In questo caso la coppia sceglieva l’oggetto e con lo
stesso costruiva un’azione; la bottiglietta di plastica diventava così un
oggetto di lancio e la sciarpa un turbante. La sciarpa che per me serve da accessorio di protezione del collo dal freddo, per un altro elemento del gruppo serve da benda.L'oggetto è lo stesso ma il punto di vista su di esso cambia.
Il testo e la narrativa sia
verbale che fisica esistono ma sono legati saldamente agli elementi del “palco”
nel momento in cui il “setting” scompare, scompare anche il
percorso-ricerca-performance.
Questo “engagement” con il
materiale empirico rende questa metodologia di costruzione di una performance
centrata soprattutto sulla relazione artista-ricercatore-setting più che sulla relazione artista se stesso e
poi ambiente; Per dare un esempio in ambito teatrale, sia le azioni corporee di Grotowski che il lavoro dell’attore (su se
stesso e sul personaggio) partono dall’individuo che mette in scena e non come
nella proposta della Giordano dalla relazione individuo-mondo per poi rendere
la scena.
L’asse di connessione con la
ricerca antropologica non è certamente (almeno completamente) ne quello
proposto da V. Turner il quale metteva in scena i dati raccolti nella ricerca
etnografica, ne quello proposto da Ervin Goffman in cui con la performance
teatrale si cercava di capire la realtà, ne forse la proposta di A. Boal e di tutto il movimento del teatro
dell’oppresso che attraverso il
coinvolgimento dello spettatore-popolo si cercavasno soluzioni alla relatà
messa in scena fine politico. Nell’ “affective devising” si pensa attraverso la
realtà, quindi quello che la realtà produce su di noi come singoli o come
gruppo. Cambiano gli attori e cambia il “setting”, allora cambia la performance
e l’etnografia.
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