Il 30 maggio i docenti e
i dottorandi del DACS hanno avuto la possibilità di incontrare lo
scrittore e antropologo Amitav
Gosh
prima della conferenza The Great Uprooting: Migration and
Movement in the Age of Climate Change tenutasi nel pomeriggio, per un seminario
a partire dal suo ultimo saggio The Great
Derengement tradotto in italiano come La
grade cecità Il cambiamento climatico e l’impensabile, edito da Neri Pozza.
Nel testo l’autore
indaga il cambiamento climatico a partire dalla sua assenza nella narrativa
contemporanea, tranne rare eccezioni, sintomo probabilmente legato a una crisi
della cultura che Gosh pertanto identifica come «fallimento dell’immaginazione»
(op.cit p.16). Questa non sarebbe in grado di relazionarsi con il cambiamento climatico
visto come una “unseen force” così come con molti altri esempi di presenze non
umane.
A partire da La Grande Cecità, spaziando nel vissuto e nelle opere precedenti
dell’autore e della tradizione antropologica alla quale appartiene, letterati e
antropologi hanno interrogato il testo con l’ausilio dell’autore stesso.
Nel rapporto tra lo stile di scrittura e
la tipologia testuale non c’è costrizione per Gosh: “non decido che genere sto facendo […] Non
vengono fuori da diverse parti della mia testa”. La sua motivazione piuttosto che all’attivismo è legata ad una volontà di introspezione,
spiega l’autore, al desiderio di esaminare la sua prospettiva come scrittore e
come pratica resistente rispetto al cambiamento climatico.
La prima parte del testo infatti, che
titola Storie nella versione italiana,
racchiude la problematica
di una relazione con l’ambiente presente,
ma inespressa dal contesto culturale occidentale.
La riflessione durante il workshop si
apre dunque a partire dalle suggestioni del libro rispetto ai limiti umani e al
divino come agente con l’esempio, tra gli altri, della comunità egiziana del
villaggio dell'Alto Delta, poi descritto ne Lo
Schiavo del manoscritto, in cui Gosh ha fatto ricerca per la sua
tesi di dottorato. L’intero
operato della comunità, spiega Gosh, ruota attorno all’invidia,
l’occhio del diavolo, che può investire chi possiede al di là dei limiti del
merito e dove il senso della misura, dell’abbastanza per non attirarla, sono
valori condivisi socialmente. Noi invece di consapevolezza dei limiti non ne abbiamo
più.
Da questo approccio con la presenza non
umana, protagonista in ogni libro di Gosh e ne La grande cecità, con il racconto in prima persona di quando da
ragazzo durante un tornado guardò negli occhi la tigre: l’inspiegabile (op.cit.p37),
scaturisce la difficoltà dello scrittore di trovare un linguaggio in cui
rendere queste esperienze e l’interesse per presenze, esseri, agenti non umani.
Nella terza e ultima parte del testo, Politica nella traduzione italiana, Gosh
analizza due esempi di narrazione che si cimentano con il cambiamento climatico
cercando di riassumerne le forze ingovernabili che lo animano. Egli si
concentra sulla retorica di Laudato si’
– l’enciclica di papa Bergoglio incentrata sul rispetto dell’ambiente, con il
suo linguaggio di apertura e interazione con la povertà attraverso la valorizzazione
delle esperienze degli umili, in contrasto con l’accordo di Parigi, in seguito
alla conferenza sul clima del dicembre 2015, che cerca di incasellare la
tematica in un mondo di expertise
nonostante le rivolte “against exspertise all over the world”. Gosh afferma
infatti nel testo che il cambiamento climatico «ha rovesciato l’ordine
temporale della modernità (op.cit.p:72) mettendo in crisi il più importante
concetto politico dell’era moderna, l’idea di libertà [ …] caratterizzata dal
distacco della natura (ivi:149)».
Rispetto alle motivazioni sulla scelta
di questi due testi, Gosh risponde che, pur non scrivendo né da religioso né da
laico e pur scegliendo uno stile saggistico completamento diverso da quello
contenuto nell’enciclica, sente le tematiche in essa contenute (il mistero
dell’universo, la necessità di condivisione dei beni che la natura mette a
disposizione) più definitive rispetto alle rilevazioni scientifiche di cui
l’accordo di Parigi si arma scegliendo uno stile aulico e una chiusura verso il
lettore non specializzato.
Nel corso della mattinata Gosh spiegherà
come sia necessario riappropriarsi invece di questo spazio di interlocuzione con
altri tipi di presenze e come la religione sia l’unica risorsa in grado di
promuovere l’apertura di questo spazio e di muovere le masse rispetto alla
sensibilizzazione sul cambiamento climatico.
Alla domanda sul perché elevi la
religione come l’unica speranza per un’assunzione di responsabilità rispetto al
cambiamento climatico, Gosh risponde “we don’t have time, we need to be
practical, we need the most influence movement”. Dunque è la religione
cattolica nella carismatica e impegnata figura di papa Francesco, il quale può
raggiungere milioni di persone e sembra ampiamente recettivo verso le
problematiche ambientali, a soppiantare l’impegno dei movimenti ambientalisti
che sembrano invece aver fallito nel corso del tempo. Nonostante sia anch’egli
un sostenitore dei grassroots movements,
Gosh è sicuro che non salveranno il mondo avvertendo un’urgenza che a volte lo
fa sentire come “Savoranola mentre inveisce contro il mondo, senza che nessuno
gli creda”.
Innumerevoli altri aspetti del testo emergono
dalla discussione e dalle domande, per esempio rispetto alle forme assunte dal
potere concentrato attorno a chi controlla le fonti energetiche sia quelle
legate ai combustibili fossili che quelle alternative rinnovabili. La storicità
di queste scelte energetiche per il pianeta è trattata nella seconda parte nel
testo presentato: Storie.
Per le fonti energetiche rinnovabili,
diversamente che per carbone e petrolio, non conosciamo gli esiti della
rivoluzione energetica che recano in seno, conosciamo invece l’impatto dei
disastri ambientali sull’ordine sociale e su questo da antropologi possiamo
concentrarci.
Altre suggestioni riguardano la
responsabilità del modo di produzione capitalista nell’era dell’antropocene,
che invece Gosh attribuisce maggiormente all’industrializzazione in sé dunque
non solo nei paesi neoliberisti, ma anche – citando la Cina - nei paesi guidati
da un assetto socialista o comunista che ruotano intorno a una produzione
intensiva industriale.
E ancora intorno al rapporto tra
letteratura e natura, macro categoria all’interno della quale Gosh prova a leggere
il cambiamento climatico, le indicazioni di interpretazione che la discussione
porta sono molteplici: lo sciamanesimo che caratterizzava il “nuovo mondo”
senza letteratura ad esempio ci riporta alla convinzione che l’atto di leggere
possa in qualche modo dispensare dal vedere le presenze intorno a noi. Inoltre gli
studi dell’antropologo Rasmussen sull’intersoggettività
“between man and the glacial” tra gli Inuit, che conoscono qualcosa in più
rispetto all’ambiente in cui vivono, che conoscono il ghiaccio e possono fare
predizioni accurate su esso, ci legano agli studi antropologici precedenti
sulla natura e le modalità con cui l’uomo si è relazionato con essa e con le sue
forze nel tempo e in differenti aree e culture. Da qui riflessioni sul rituale “non come controllo ma per attivare” questa relazione con la natura e un’ invettiva contro la retorica della “ricerca
di soluzioni” perché chi ha le risposte le userà contro le persone comuni, ci fanno concludere che non ci sono verità universali nemmeno
per la scienza stessa, lì dove la letteratura sembra aver esaurito gli
espedienti per raccontare la realtà naturale che ci circonda.
Concludiamo con disincanto che forse
avremmo bisogno di una nuova forma, come Fenoglio ebbe bisogno della
storiografia greca per spiegare la difesa di Alba. Una forma che renda la
dimensione collettiva del cambiamento climatico e i fenomeni che esso si
collegano, la migrazione su tutte, ma quale?