Il workshop “Politiche del corpo e governance della
riproduzione: ʻcarneʼ, tecnologie e saperi”, tenuto il 29/11 e 30/11
presso il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione dell’Università
Milano-Bicocca e organizzato da Claudia Mattalucci (Università Milano-Bicocca),
è stato dedicato al tema delle materialità corporee della riproduzione.
La
prima giornata ha coinvolto sei studiose che hanno esplorato pratiche
culturali, dispositivi sociali e politiche istituzionali attraverso cui oggi si
pensa e modella la ʻcarneʼ nella nascita, la filiazione e la
genitorialità. Come ha notato Mattalucci, Il corpo e la riproduzione sono
tematiche al centro di un grande interesse scientifico, politico e mediatico,
rinnovato dalle recenti innovazioni tecnologiche nel campo della procreazione.
Negli ultimi anni si è assistito alla nascita di movimenti che rivendicano
nuovi diritti contrastanti sulla responsabilità riproduttiva, alimentando
dibattiti etici e morali su vita, morte, parentela, natura e modernità.
Rossana
Di Silvio (Università Milano-Bicocca) ha riflettuto sull’essere genitori oggi
di un figlio difettuale, presentando un lavoro etnografico sulle strategie
adottive nel territorio milanese e gallurese. Nel tentativo di conciliare
i Critical Kinship studies con i Disability Studies,
Di Silvio si è interrogata su come le famiglie riconfigurino i progetti e le
aspettative di genitorialità in presenza dell’arrivo di un bambino difettuale.
Di Silvio ha notato come l’intenzionalità e la scelta di diventare genitori si
sia trasformata grazie all’utilizzo di pratiche mediche – come i test di
screening – che consentono di ridurre e controbilanciare il grado di incertezza
e casualità del futuro. Riproducendo il mito del bambino ideale privo di
difetti, tali tecnologie veicolano la promessa di una salute per tutti coloro
che ne hanno accesso e fungono da motivo di rassicurazione per molte
famiglie.
Quali debbano o non debbano essere le modalità di intervento
mediche sul corpo e sulla vita sono domande al centro di riflessioni,
contestazioni e negoziazioni politiche e morali negli spazi e luoghi della
biomedicina. Il parto diventa oggetto di critiche a partire dagli anni’80,
quando il movimento femminista della differenza ha cominciato ad associare le
tecniche mediche che vi intervengono ad una svalutazione delle capacità
riproduttive del corpo femminile. Focalizzando l’attenzione sulle pratiche
concrete che configurano il parto naturale nella sicurezza di un reparto
ospedaliero di Poggibonsi – la ricostruzione di un ambiente “domestico”, le
diverse posizioni adottate dalla partoriente, l’utilizzo dell’anestesia
epidurale, il taglio del cordone ombelicale, ecc., - Chiara Quagliariello
(EHESS, Paris) ha sostenuto che diverse ambiguità e contraddizioni entrano in
gioco nel processo di definizione di cosa sia il “naturale” e quali siano i
ruoli i ruoli femminili e maschili nel parto. Mettendo in luce anche la
presenza di un discorso razzializzante degli operatori sanitari del reparto, che
associava alle pazienti senegalesi una maggiore capacità riproduttiva ed un più
alto grado di sopportazione del dolore rispetto alle donne bianche.
Mattalucci ha presentato una serie di ricerche sulla sepoltura dei
resti dell’interruzione volontaria di gravidanza e delle perdite perinatali,
condotte attraverso l’analisi delle rappresentazioni mediatiche, politiche
istituzionali e l’osservazione di un gruppo di auto-mutuo aiuto per il lutto
perinatale a Milano. Che cosa rappresentano queste materialità corporee
per gli attori sociali? Quali sono gli effetti dell’attribuzione di un nome a
questi resti sul vissuto di donne e coppie in situazioni di differente
fertilità? Mattalucci ha proposto la categoria di ʻcarneʼ come
significato fluttuante che si specifica nel tempo e nelle relazioni e che si
contrappone all’attribuzione di un ontologia uniforme. L’adozione della
categoria di ʻcarneʼ permette secondo la ricercatrice di oltrepassare
una strumentalizzazione pubblica ed istituzionale del rapporto problematico fra
lutto perinatale ed interruzione volontaria di gravidanza, poiché consente di
far emerge alcune intersezioni fra posizioni ed esperienze a prima vista
inconciliabili.
Corinna Guerzoni (Western Fertility Institute, Los Angeles) ha
aperto la sessione pomeridiana di interventi discutendo le forme di biasimo e
condanna morale a cui è soggetta la maternità surrogata. Leggendo la maternità
surrogata come un processo organico inserito in un percorso relazionale
fra surrogates e famiglie di intenzione, Guerzoni ha posto
l’accento sulla parola “restituzione” usata dalle surrogates per
descrivere il proprio compito nella clinica americana dove ha condotto e
conduce le sue ricerche. Formule come ʻdare viaʼ e ʻrestituireʼ sottolineano
l’appartenenza alle famiglie di intenzione del corpo portato in grembo dalle surrogates.
La maternità surrogata si configura dunque a tutti gli effetti come una pratica
che costruisce una visione altra rispetto a categorie socialmente dominanti di
maternità e genitorialità.
I legami di filiazione attraversano un momento turbolento in Italia, che vede una frattura e una grande frammentazione regionale e comunale sul piano del riconoscimento legale di diritti al genitore “biologico” e al genitore “sociale”. Cosa resta della natura della parentela una volta tagliate alcune caratteristiche come il riconoscimento legale e l’unità di residenza? Muovendo da questa domanda provocatoria e critica verso la nozione euroamericana di parentela, Alice Sophie Sarcinelli (Université de Liège-Università di Milano-Bicocca) ha presentato le strategie di riconoscimento e visibilità del ruolo di co-parent (genitore di intenzione) nella vita famigliare di alcune coppie omogenitoriali italiane.
I legami di filiazione attraversano un momento turbolento in Italia, che vede una frattura e una grande frammentazione regionale e comunale sul piano del riconoscimento legale di diritti al genitore “biologico” e al genitore “sociale”. Cosa resta della natura della parentela una volta tagliate alcune caratteristiche come il riconoscimento legale e l’unità di residenza? Muovendo da questa domanda provocatoria e critica verso la nozione euroamericana di parentela, Alice Sophie Sarcinelli (Université de Liège-Università di Milano-Bicocca) ha presentato le strategie di riconoscimento e visibilità del ruolo di co-parent (genitore di intenzione) nella vita famigliare di alcune coppie omogenitoriali italiane.
Léa Linconstant (Université de Aix Marseille) ha esaminato la costruzione
del ruolo di paziente nella procreazione medicalmente assistita (P.M.A.) in un
Centro Pubblico in Italia. Leggendo questo processo di identificazione come un
lavoro di costruzione sul corpo in cui è centrale la temporalità, Lincostant si
è dedicata a ricostruirne le diverse fasi. In un primo momento, nelle
consultazioni iniziali fra personale medico e famiglie l’intervento medico è
percepito come un’intrusione nella vita di coppia. I ginecologici sono
impegnati in un processo di trasformazione dell’infertilità da dramma
esistenziale a forma patologica trattabile, che Lincostant ha definito ʻdesingolarizzazioneʼ.
Dalla prima fase si passa a quelle successive in cui si intensifica
progressivamente l’intervento medico fino al momento finale di identificazione
del ruolo di paziente in un modo coerente e funzionale con il processo di
P.M.A.
Lucia Gentile (Università di Milano-Bicocca – INALCO, Paris) ha
concluso la giornata con un’etnografia dettagliata sull’isterectomia.
Muovendosi sia all’interno che fuori da contesti ospedalieri, Gentile ha
presentato le diverse costruzioni della categoria di ʻuteroʼ fra credenze
locali e saperi medico-scientifici nella regione del Punjab, India. Nel
tentativo di spiegare il massiccio ricorso in India all’isterectonomia in
presenza del rifiuto di altre forme di contraccezione, Gentile ha sostenuto che
tale ricorso non sia maturato da un’ignoranza della biomedicina ma piuttosto
vada considerato rispetto ad un sapere locale che deriva dal vissuto e
dall’esperienza. I medici disconoscono questa forma di sapere incorporato,
costituito da tecniche di controllo della fertilità così come sono interpretate
dalle donne del luogo.
La seconda giornata è stata interamente dedicata alla conferenza
tenuta da Dominque Memmi “La rivincita della carne: Nuove forme e supporti
dell’identità”. Memmi è direttrice di ricerca in Scienze Sociali presso il
Centro Nazionale della Ricerca Scientifica di Parigi (CNRS), e autrice di
diversi articoli e monografie sul tema dell’inizio e del fine vita che propone
di pensare insieme, fra cui Faire vivre et laisser mourir (La
Découverte, 2003) e Le gouvernement des corps (Fassin, Memmi,
Èditions de l’EHESS, 2004). La sociologa francese ha presentato le riflessioni
iscritte nella sua opera La Revanche de la chair: Essais sur le nouveaux
supports de l’identité (Editions du Seuil, 2014), in cui si è dedicata
a ricostruire le fasi della nascita di un nuovo dispositivo ideologico che
definisce ʻbio-psicologismoʼ.
Per Memmi, a partire dagli anni 90’ questo dispositivo comincia a
iscriversi definitivamente nelle pratiche di alcuni ceti sociali nell’area
euroamericana: i professionisti della vita, della salute fisica e mentale e i
professionisti della morte. Cruciale nella sua genealogia è il processo di
accentramento sul corpo che inizia a partire dagli anni 70’, quando il corpo si
pone al centro di un nuovo processo di ripensamento ridiventando appannaggio e
responsabilità dell’individuo al di là delle prescrizioni e proibizioni delle
autorità religiosa cattoliche. Da questa fase si è passati al contesto
contemporaneo in cui la psiché assume un ruolo centrale nella spiegazione dei
processi corporei, ed in cui l’ossessione del benessere psicologico e
“l’obbligo di proporre” si iscrivono nelle pratiche dei professionisti
impegnati in questioni che hanno a che fare con vita e morte. Pratiche
attraverso cui si reinventano legami e identità filiali che sono autonomi,
liberi ma allo stesso tempo fluttuanti e fragili. Il rifiuto della cremazione
poiché impossibilitata a favorire l’elaborazione della perdita è un esempio di
questa ossessione intorno alla psiché, e della diffusione di una nuova teoria
del ʻlutto impossibileʼ in assenza di corpo. Teoria che si impone all’attenzione dei
professionisti di vita e morte posti di fronte all’insorgere di nuove
difficoltà e domande, fra cui cosa fare dei resti carnali degli aborti ma anche
come agire con coloro che chiedono il trattamento di fine vita.
Adottando lo strumento della grande comparazione sociologica di
contesti differenti nell’area euroamericana – condotta soprattutto attraverso una
disamina dei principali testi psicoanalitici sull’argomento – Memmi ha offerto
un’importante chiave analitica per indagare le inquietudini e le turbolenze che
sorgono attorno a vita e morte nel presente. Lungi dal voler proporre un
unilineare e universale processo evolutivo del pensiero sul corpo, la sociologa
ha suggerito di guardare alle compresenze ed intersezioni fra passato e
presente ma anche alle differenze contestuali. La ʻcarneʼ, il controllo
ʻbio-psicologicoʼ, e le sue diverse fasi storiche si pongono dunque come un
forte dispositivo teorico per tutti gli antropologi e sociologici interessati
al lutto e alla nascita, e contemporaneamente come un importane spunto di
riflessione per chiunque, dentro e fuori le discipline sociali, si interessi al
corpo e ai suoi meccanismi di costruzione. L’intervento di
Memmi ha riassunto in sé molti degli spunti, delle tematiche e delle proposte
teoriche presentate nella giornata precedente, alimentando in modo proficuo un
ulteriore momento di riflessione che ha chiuso la sessione di studi sulle
materialità riproduttive.
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