giovedì 31 gennaio 2019

Metodo biografico e soggettività: verso un'antropologia del “bene”?

Il metodo biografico si è imposto come una delle metodologie di ricerca etnografica più rilevanti e utilizzate nel panorama antropologico contemporaneo. Emerse con peculiare autorità a partire dalla svolta post-strutturalista nella disciplina, le biografie di chi prende parte alle ricerche degli antropologi sono diventate una delle risposte possibili alla profonda critica di metodo e riflessività disciplinare mossa dall'ormai classico Writing Culture (Clifford & Marcus 1986). Il metodo, tuttavia, insieme al carico di meditazioni teoriche che fa scaturire, non è sorto dal nulla né è stato il risultato di un ripensamento puramente intellettuale di termini e condizioni. Al contrario, ha una storia, un contesto e una serie di possibilità che apre per il futuro riposizionamento filosofico della ricerca. Sono state queste le questioni al centro del seminario “Biografie e contesto: come lavorare sulle traiettorie esistenziali in etnografia”, spalmato su due incontri coordinati dalla Prof. Silvia Vignato.

La Vida, una pubblicazione
successiva di Lewis di enorme
successo in America.
Per quanto una nota critica post-moderna degli scritti antropologici avesse sottolineato come i “padri” della disciplina avessero sistematicamente bypassato le vite dei loro informatori come individui in favore di costruzioni tipologiche (da Boas a Griaule, fino ai “balinesi” di Geertz), l'attenzione alle biografie dei partecipanti alle ricerche antropologiche ha un antenato di gran rilievo – e presciente rispetto al modo in cui questo tipo di ricerche verrà svolto a partire dagli anni Ottanta – in The Children Of Sanchez di Oscar Lewis (1961). In questo celebre volume dell'antropologia economica, dopo aver espletato i classici alberi genealogici e le mappe di vicinato, Lewis fa raccontare dai personaggi stessi (cinque) della ricerca le loro autobiografie, in cui emergono i particolari della vita di una famiglia messicana alle prese con difficoltà economiche, disoccupazione e alcolismo, da cui scaturisce poi, secondo Lewis, il concetto di “cultura della povertà”. 
 
The Children Of Sanchez anticipa in un certo modo tanti dei temi che verrano poi affrontati in maniera più analitica da tanta antropologia a venire. Tra questi, sul piano metodologico, la differenza tra narrazione e autonarrazione. Quest'ultima, in particolare, è stata discussa durante il seminario come soggetta a processi narrativi e culturali in maniera non troppo differente rispetto alla prima: in altre parole, il modo in cui ci si auto-narra è ugualmente contestuale e influenzato culturalmente. Una delle soluzioni possibili dall'empasse epistemologico in cui l'antropologo si trova, quindi, è stata quella di “calarsi” nella scena etnografica stessa, entrando nell'ordinario del campo (Das 2007, Han 2015) e/o presentare l'etnografia come testo scritto nella forma di dialogo tra l'etnografo e il partner di ricerca.

Come accennato in apertura, tuttavia, il metodo biografico non è una riflessione metodologica sospesa nel nulla, ma si è sviluppato in seno ad un movimento storico preciso e più ampio, fotografato dai contributi di Sherry Ortner e Joel Robbins (Ortner 2016, Robbins 2013). Robbins ha fatto notare come l'attenzione alle biografie e più in generale all'individuo all'interno delle ricerche etnografiche è emerso all'interno di una svolta di focus da quello che lui ha definito savage slot ethnography a una suffering slot ethnography. La “scomparsa” del nativo come oggetto di ricerca auto-costituitosi in quanto “alterità” ha fatto sì che gli antropologi andassero a trovare nel soggetto sofferente un tema di ricerca similmente e trasparentemente valido, questa volta appoggiato sul presupposto dell'universalità della sofferenza come emozione incorporata. Questa tendenza, definita dalla Ortner “dark anthropology”, va contestualizzata secondo l'antropologa da una parte dal sorgere del modello neoliberale e del carico di insicurezze e diseguaglianze portato con sé anche nelle società di cui gli antropologi fanno parte. Dall'altra, come evidenziato da Flavia Cuturi (2012), troviamo la progressiva ossessione per l'individuo, il soggetto e le narrative del sé, proiettata anche dai canali massmediatici, dall'utilizzo (pseudo?) personalizzato dei social media alla popolarizzazione delle biografie e autobiografie come genere letterario.

Professor Joel Robbins
Problematizzando quindi concetti quali “trauma” e “vittima” seguendo, tra gli altri, testi come Archeologie del Trauma di Beneduce (2013), il seminario ha discusso le varie modalità con cui arrivare, facendo eco di nuovo al lavoro di Robbins, ad un'antropologia del “bene”, un tipo di antropologia che si muove a partire dai recenti lavori sull'etica e la morale (Laidlaw 2002, Robbins 2007), sul dono (Sykes, 2005) e sulla speranza (Mattingly 2010). La professoressa Vignato espone quindi, a mo' di esempio pratico, il suo lavoro personale sulle vite dei bambini che ha seguito in post-tsunami Aceh, arrivando ad afferrare le specifiche concezioni di “bene” e osservando i “punti di snodo” cha hanno attraversato queste biografie e le preoccupazioni per il futuro, concepite in un senso molto pragmatico: cosa intraprendo per garantire un “buon” futuro a me e/o a mio figlio?
Questo è, in altri termini, il fulcro di questo modo di fare etnografia, una modalità in grado di restituire il punto di vista dell'antropologia come disciplina: mettere in crisi l'etnografo, ricostruire un vero (Fassin, 2014) che indichi come vissuti “altri”, forse migliori rispetto a quello dell'antropologo o forse no, esistano e valgano la pena entrarci in conversazione.

Bibliografia:

Beneduce, R. (2013) Archeologie del trauma: Un'antropologia del sottosuolo. Milano: Feltrinelli;
Clifford, J. & Marcus G. (1986) Writing Culture. University of California Press;
Cuturi, F. (2012) Storie di vita e soggettività sotto assedio, Annuario di Antropologia, 14: 30-70;
Das, V. (2007) Life and Words. Violence and the Descent into the Ordinary. University of California Press;
Fassin, D. (2014). True life, real lives: Revisiting the boundaries between ethnography and fiction. American Ethnologist, 41(1), 40-55;
Han, C. (2015) Echoes of Death: Violence, Endurance, and Experience of Loss. Living and Dying in the Contemporary World: A Compendium, 493-509;
Laidlaw, J. (2002) For an anthropology of ethics and freedom. Journal of the Royal Anthropological Institute 8: 311-32.
Lewis, O. (1961) The Children Of Sanchez. New York: Random Hause.
Mattingly, C. (2010) The paradox of hope: journeys through a clinical borderland. Berkeley: University of California Press;
Ortner, S. (2016) Dark anthropology and its Other: Theory since the Eighties. HAU: Journal of Ethnographic Theory 6(1): 47-73;
Robbins, J. (2007) Between reproduction and freedom: morality, value, and radical cultural change. Ethnos 72: 293-314.
Robbins, J. (2013) Beyond the suffering subject: toward an anthropology of the good. Journal of the Royal Anthropological Institute, 19(3): 447-462
Sykes, K. 2005. Arguing with anthropology: an introduction to critical theories of the gift. London: Routledge;

domenica 13 gennaio 2019

Il "paradosso" dell'osservazione partecipante: le implicazioni metodologiche, etiche e politiche della ricerca etnografica


Prima della pausa natalizia, il Dacs ha ospitato il seminario di Filippo Osella, professore di Antropologia e South Asian Studies all’Università del Sussex. L’incontro, attraverso un vivace dibattito e un percorso di letture proposto dal professor Osella (che riportiamo alla fine del post), ha sollevato numerose questioni e ha rappresentato un’occasione preziosa per riflettere e discutere sulle implicazioni metodologiche, etiche e politiche dell’etnografia.

Malinowski alle Trobriand
Partendo da autori “classici” come Malinowski (1922) e Geertz (1973), abbiamo inizialmente ragionato sulla dimensione relazionale della ricerca sul campo, intesa come esperienza condivisa, come pratica immersiva e intersoggettiva. Il fieldwork appare come un “gioco delle parti”, un processo dialettico e performativo (fatto di continui “aggiustamenti”, riposizionamenti, fraintendimenti, etc) che prevede una delicata “gestione delle impressioni” e delle emozioni (Berreman 2012; Jackson 2010; Srivinas 1980): come vedono i “nativi” l’antropologo e i suoi collaboratori? Come percepiscono la sua presenza? Che effetti innesca tale presenza? Come gestire la frustrazione, il senso di spaesamento, i conflitti che possono sorgere sul terreno? Possiamo esprimere le nostre convinzioni, i nostri sentimenti (anche quando ci fanno entrare in contrasto con i nostri interlocutori) o dobbiamo “metterci tra parentesi”, evitare i conflitti e/o imporci un rigido autocontrollo? In quest’ultimo caso, dobbiamo considerarci ipocriti o possiamo ritenere, come afferma Goffman, che in fondo la vita quotidiana implica sempre un certo grado di finzione,  di mise en scène? Sono alcune delle questioni cruciali della pratica di campo che riguardano in modo particolare (ma non solo) il rapporto tra gli antropologi e i loro key informants (Turner 1967; Rabinow 1977), una relazione complessa, instabile e dinamica con molteplici risvolti di carattere metodologico, etico e politico che fa emergere due temi fondamentali, strettamente connessi tra di loro: la questione della soggettività e il problema del posizionamento.

Con la cosiddetta “svolta riflessiva” e la conseguente crisi del modello positivista, l’antropologia si è messa in discussione, analizzando criticamente le condizioni di produzione del proprio sapere e facendo i conti con la questione della soggettività: il sapere antropologico non è neutro e oggettivo (come per lungo tempo si è autorappresentato) ma è il risultato delle interazioni tra antropologo e soggetti studiati. Come abbiamo accennato, ciò porta in superficie tutta una serie di interrogativi e nodi problematici, ormai ineludibili. Inoltre, tale corpus di conoscenze è incastonato in una rete di relazioni di potere, la cui asimmetria si riflette nelle distinzioni dicotomiche spazio-temporali “moderne” (“noi”/”altri”, “qui”/”là”, “tradizione”/modernità”, etc) che caratterizzano il discorso antropologico “classico” (Benjamin 2002; Comaroff, Comaroff 1992; De Certeau 2000; Gupta, Ferguson 1992; Kaplan 1996).  In questa direzione, sotto l’influenza del femminismo e del pensiero postcoloniale, l’antropologia ha iniziato a porsi il problema del posizionamento in termini non solo metodologici ed epistemologici ma anche etici e politici: il modo in cui ci relazioniamo con i nostri interlocutori è indubbiamente condizionato da dinamiche di genere, classe, “razza”, nazionalità, sessualità, religione, etc (Di Cori 2002; Mahmood 2001; Rooke 2010).  

Il reflexive turn ha condotto, inoltre, a un ripensamento critico del concetto malinowskiano di “osservazione partecipante”,  mettendone in luce il carattere paradossale e controverso (Behar 2014): come si possono coniugare osservazione e partecipazione? Dobbiamo essere distaccati o farci coinvolgere? Se ci facciamo coinvolgere, fino a che punto ci possiamo spingere senza “diventare nativi” (going native)? Tali questioni hanno generato accesi dibattiti in seno alla disciplina. Uno dei più rilevanti è sicuramente il cosiddetto “objectivity vs militancy debate” che ha visto confrontarsi sulle pagine della rivista CurrentAnthropology vari studiosi di primo piano (tra cui D'Andrade, Scheper-Hughes, Crapanzano, Friedman, Rabinow, Harris, etc).

Per Nancy Scheper Hughes, l’antropologia è una forma di militanza, resistenza, impegno politico: siccome gli antropologi hanno “scelto di occuparsi dei dannati della terra” (Bourgois 1990: 46), devono schierarsi, prendere posizione al loro fianco. Da questo punto di vista, l’etnografia si configura come l’arma dei più deboli: attraverso di essa  l’antropologo dà voce agli ultimi, sveste i panni dello spettatore per diventare testimone/“compagno” (Scheper-Hughes 1996, si veda anche Behar 2014). 
La prospettiva dell’antropologia militante fornisce diversi e interessanti spunti di riflessione: innanzitutto ci “obbliga” a misurarci con argomenti scomodi come la violenza, l’ingiustizia, lo sfruttamento. In che modo si può fare etnografia su questi temi? A quali rischi esponiamo noi stessi e/o i soggetti studiati? Come trattare i dati prodotti da tali investigazioni? Secondo Bourgois, l’accademia, attraverso i suoi rigidi codici etici, scoraggia le ricerche su temi controversi e non si occupa abbastanza delle relazioni diseguali di potere (Bourgois 1990, si veda anche Graeber 2009). Eppure l’antropologia ha una responsabilità storica nell’affrontare tali questioni visto che il suo tradizionale “oggetto di studio" (“i popoli indigeni”) è stato violentemente incorporato nell’economia globale e spesso si trova a sperimentare gravi forme di ingiustizia, sfruttamento, repressione, miseria, etc. È anche vero, però, come ammette lo stesso Bourgois, che ricerche di questo tipo espongono antropologi e soggetti coinvolti a  rischi concreti che possono produrre un effetto contrario rispetto a quello sperato. A tal proposito l’autore di “In Search of Respect” riporta le eloquenti parole di Laura Nader: “Don’t study the poor and powerless because everything you say about them will be used against them” (Bourgois 2003: 18)  Tuttavia, secondo Bourgois e Scheper-Hughes, non possiamo autocensurarci ed evitare temi scomodi altrimenti l’antropologia diventa una scienza innocua, dedita unicamente alle “stranezze del mondo”. In quest’ottica, è necessario “affrontare il potere”, integrando l’approccio ermeneutico e riflessivo dell’antropologia postmoderna (che si concentra sulla dimensione simbolica) con una prospettiva teorico-politica che tenga conto anche degli aspetti strutturali e materiali delle relazioni sociali e delle configurazioni culturali.

Nonostante abbia fatto prova di riflessività e spirito autocritico, la militant anthropology mostra diversi punti deboli: innanzitutto veicola un’idea “romantica”, ideologica e riduzionista del concetto di resistenza, contrapposto in maniera dicotomica e monolitica a quello di potere (Ortner 1995). Inoltre non affronta fino in fondo la questione della rappresentazione e mantiene spesso un’impostazione etnocentrica e paternalista/maternalista attraverso la quale si arroga il diritto di  “parlare per”, senza tener conto che i nativi/subalterni possono opporre un “rifiuto etnografico” (Ortner 1995; Simpson 2007), respingendo l’idea di essere studiati e rappresentati dagli antropologi (Ramphele 1996; Trencher 1998, si veda anche Spivak 1994).  

Inoltre, l’antropologia militante si autorappresenta come “la disciplina dei dannati della terra” e, come è emerso durante il seminario, questo pone ulteriori interrogativi: dobbiamo provare necessariamente empatia/simpatia nei confronti dei soggetti studiati? Dobbiamo limitarci alle “classi subalterne” o possiamo studiare anche le élite? Qualsiasi “cosa” può diventare oggetto di studio? Fino a dove si espande il campo di ricerca? Qual è il senso della disciplina? Che cos’è questa “antropologia” che noi facciamo? Per chi? Per cosa?

Per tentare di rispondere a queste domande, gli antropologi dibattono, si confrontano, si scontrano. Come scrive Crapanzano, l’antropologia appare, dunque, come un’arena le cui centrature e i cui confini sono sempre in questione (Crapanzano in Scheper-Hughes 1995:420). Le continue diatribe che attraversano la disciplina possono essere lette, non a torto, come un sintomo di acuta autoreferenzialità. Sono anche il segno, però, di una vitalità dell'antropologia che, secondo Osella, trova il suo senso più profondo nella tendenza a mettersi/mettere in discussione, a destabilizzare ciò che crediamo universale, scontato, sicuro. Da questa prospettiva, le “piccole storie”, i dettagli marginali che l’antropologo raccoglie sul terreno, non sono stranezze innocue e curiose ma hanno una valenza epistemologica, etica  e politica in quanto si delineano come frammenti di una complessità che non possiamo ridurre a un unico modello, a un solo discorso. La natura “paradossale” della ricerca etnografica, riassunta nel concetto di “osservazione partecipante”, esprime una tensione costitutiva tra vicinanza e distanza, esperienza e interpretazione, pratica di campo e riflessioni teoriche. Ed è proprio nella combinazione di “teoria” e di “campo” (in cui ci “si sporca le mani”) che, secondo Francesco Remotti, si trova la formula fondamentale dell’antropologia, “una sorta di filosofia che si infanga e che rischia continuamente di perdersi, ma anche esperienze in cui ci si imbratta e che tuttavia contengono temi che possono avere un notevole valore teorico, persino filosofico”.

PERCORSO DI LETTURA PROPOSTO DAL PROFESSOR OSELLA:

Prima parte del seminario: Antropologia, ricerca sul campo e osservazione partecipante: tra empirismo modernista ed esoticismo romantico?

Background concettuale:
- Kaplan, C. (1996), “The Question of Moving” in Questions of Travel: Postmodern Discourses of Displacement, Durham, Duke University Press, pp.27-64.
- Benjamin, W. (2002), "Paris, Capital of the Nineteenth Century" [1939]”, in Tiedemann, R.; Eiland, H.; McLaughlin, K. (ed.), The Arcades Project, Cambridge, MA, Harvard University Press.
 - De Certeau, M. (2000) “Walking in the City” in Ward, G.(ed.), The Certeau Reader, London, Blackwell, pp.126-133.

Metodologia ed orientamento dell‘antropologia moderna:
- Malinowski, B., (1922), “Introduction” in Argonauts of the Western Pacific: An Account of Native Enterprise and Adventure in the Archipelagos of Melanesian New Guinea, London, Routledge, pp.1-25.
- Geertz, C., (1973), “Thick description: Toward an Interpretive Theory of Cultures” in The Interpretation of Cultures, New York, Basic Books, pp.3-30.

La pratica della ricerca sul campo:
- Berreman, G.D., (2012), “Behind Many masks: Ethnography and Impression Management” in Robben, A.; Sluka, J. (eds) Ethnographic Fieldwork: an Anthropological Reader, Chichester,Wiley-Blackwell, pp.152-174.
- Srinivas, M.N., (1980), “Chapter 1: How It All Began” in  The Remembered Village, Berkeley, University of California Press, pp.1-52.

Confabulazioni: antropologi e i loro “key informants”:
- Turner, V. (1967), "Muchona the Hornet, Interpreter of Religion" in The Forest of Symbols, Ithaca, Cornell University Press, pp.131-150.
 - Rabinow, P. (2007), “Ali: an insider’s outsider” in Reflections on Fieldwork in Morocco, Berkeley, University of California Press, pp.31-69.

 Affetti, emozioni e posizionalità:
- Jackson, M. (2010), “From Anxiety to Method in Anthropological Fieldwork” in Davies, j.; Spencer, D. (ed), Emotions in the field: The Psychology and Anthropology of Fieldwork Experience, Palo Alto, Stanford University Press, pp.35-54.  
- Behar, R. (2014), “Chapter 1: The Vulnerable Observer” in The Vulnerable Observer: Anthropology That Breaks Your Heart, Boston, Beacon Press, pp.1-33.
- Rooke, A. (2010), “Queer in the Field: On Emotions, Temporality and Performativity in Ethnography” in Browne, K.; Nash, C. J. (ed.), Queer Methods and Methodologies: Intersecting Queer Theories and Social Science Research, Surrey, Ashgate, pp.25-40.

Ridefinire il campo di ricerca:
- Gupta, A.; Ferguson, J. (1992), “Beyond ‘Culture’: Space, Identity, and the Politics of Difference, Cultural anthropology, 7(1), pp.6-23.
- Comaroff, J.; Comaroff, J. (1992), “Chapter 1: Ethnography and the Historical Imagination” in Ethnography and the Historical Imagination  Boulder, Westview Press, pp.3-48.

Seconda parte del seminario: “Being there”: politica ed etica dell’osservazione partecipante

Incontrando violenza ed illegalità: 
- Bourgois, P. (1990), “Confronting anthropological ethics: Ethnographic lessons from Central America”, Journal of Peace Research, 27(1), pp.43-54.
- Bourgois, P. (2003), “Introduction” in In search of respect: Selling Crack in El Barrio, Cambridge, Cambridge University Press, pp.1-18.

 “Il personale è politico”:
 - Scheper-Hughes, N. (1995), “The Primacy of the Ethical: Propositions for a Militant Anthropology”, Current anthropology, 36(3), pp.409-440.
- Ramphele, M. (1996), “How Ethical are the Ethics of this Militant Anthropologist?”, Social Dynamics, 22(1), pp.1-4.
- Trencher, S.R. (1998), “Righteous Anthropology”, Society in Transition, pp.29(3-4), pp.118-129.

Partecipazione osservante come critica [e i suoi limiti]:
 - Mahmood, S. (2001), “Feminist Theory, Embodiment, and the Docile Agent: Some Reflections on the Egyptian Islamic Revival”, Cultural anthropology, 16(2), pp.202-236.
 - Ortner, S.B. (1995), “Resistance and the Problem of Ethnographic Refusal”, Comparative studies in society and history, 37(1), pp.173-193.

Chi dà voce a chi?:
 - Simpson, A. (2007), “On Ethnographic Refusal: Indigeneity, ‘Voice’ and Colonial Citizenship”, Junctures: The Journal for Thematic Dialogue, 9, pp.67-80.
 - Spivak, G. (1994), “Can the Subaltern Speak?" in Williams, P.; Chrisman, L.(ed.), Colonial Discourse and Postcolonial Theory, New York, Columbia University Press, pp.66-111.
 - Di Cori, P. (2002), “Margini della città: Lo spazio urbano decentrato di Michel de Certeau e Diamela Eltit”, Antropologia, 2(2), pp.138-161.
 - Graeber, D. (2009), “Anarchism, Academia, and the Avant-garde” In Amster, R. and alii, Contemporary Anarchist Studies, London, Routledge, pp. 119-128.