Prima della pausa natalizia, il Dacs ha ospitato il seminario di Filippo Osella, professore di Antropologia e South Asian Studies all’Università del Sussex. L’incontro, attraverso un vivace dibattito e un percorso di letture proposto dal professor Osella (che riportiamo alla fine del post), ha sollevato numerose questioni e ha rappresentato un’occasione preziosa per riflettere e discutere sulle implicazioni metodologiche, etiche e politiche dell’etnografia.
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Malinowski alle Trobriand |
Partendo da autori “classici”
come Malinowski (1922) e Geertz (1973), abbiamo inizialmente ragionato sulla dimensione relazionale della ricerca sul
campo, intesa come esperienza condivisa, come pratica immersiva e
intersoggettiva. Il fieldwork appare come un “gioco delle parti”, un processo
dialettico e performativo (fatto di continui “aggiustamenti”, riposizionamenti,
fraintendimenti, etc) che prevede una delicata “gestione delle impressioni” e
delle emozioni (Berreman 2012; Jackson 2010; Srivinas 1980): come vedono i “nativi”
l’antropologo e i suoi collaboratori? Come percepiscono la sua presenza? Che
effetti innesca tale presenza? Come gestire la frustrazione, il senso di spaesamento,
i conflitti che possono sorgere sul terreno? Possiamo esprimere le nostre convinzioni,
i nostri sentimenti (anche quando ci fanno entrare in contrasto con i nostri
interlocutori) o dobbiamo “metterci tra parentesi”, evitare i conflitti e/o imporci
un rigido autocontrollo? In quest’ultimo caso, dobbiamo considerarci ipocriti o
possiamo ritenere, come afferma Goffman, che in fondo la vita quotidiana
implica sempre un certo grado di finzione, di mise
en scène? Sono alcune delle questioni cruciali della pratica di campo che
riguardano in modo particolare (ma non solo) il rapporto tra gli antropologi e
i loro key informants (Turner 1967;
Rabinow 1977), una relazione complessa, instabile e dinamica con molteplici
risvolti di carattere metodologico, etico e politico che fa emergere due temi fondamentali,
strettamente connessi tra di loro: la questione della soggettività e il problema
del posizionamento.
Con la cosiddetta “svolta
riflessiva” e la conseguente crisi del modello positivista, l’antropologia si è
messa in discussione, analizzando criticamente le condizioni di produzione del
proprio sapere e facendo i conti con la
questione della soggettività: il sapere antropologico non è neutro e
oggettivo (come per lungo tempo si è autorappresentato) ma è il risultato delle
interazioni tra antropologo e soggetti
studiati. Come abbiamo accennato, ciò porta in superficie tutta una serie di interrogativi
e nodi problematici, ormai ineludibili. Inoltre, tale corpus di conoscenze è
incastonato in una rete di relazioni di potere, la cui asimmetria si riflette
nelle distinzioni dicotomiche spazio-temporali “moderne” (“noi”/”altri”, “qui”/”là”,
“tradizione”/modernità”, etc) che caratterizzano il discorso antropologico “classico”
(Benjamin 2002; Comaroff, Comaroff 1992; De Certeau 2000; Gupta, Ferguson 1992;
Kaplan 1996). In questa direzione, sotto l’influenza del
femminismo e del pensiero postcoloniale, l’antropologia ha iniziato a porsi il problema del posizionamento in
termini non solo metodologici ed epistemologici ma anche etici e politici: il
modo in cui ci relazioniamo con i nostri interlocutori è indubbiamente
condizionato da dinamiche di genere, classe, “razza”, nazionalità, sessualità,
religione, etc (Di Cori 2002; Mahmood 2001; Rooke 2010).
Il reflexive turn ha condotto, inoltre, a un ripensamento critico del
concetto malinowskiano di “osservazione partecipante”, mettendone in luce il carattere paradossale e controverso
(Behar 2014): come si possono coniugare osservazione e partecipazione? Dobbiamo
essere distaccati o farci coinvolgere? Se ci facciamo coinvolgere, fino a che punto
ci possiamo spingere senza “diventare nativi” (going native)? Tali questioni hanno generato accesi dibattiti in
seno alla disciplina. Uno dei più
rilevanti è sicuramente il cosiddetto “objectivity vs militancy debate” che ha visto
confrontarsi sulle pagine della rivista CurrentAnthropology vari studiosi di primo piano (tra cui D'Andrade, Scheper-Hughes, Crapanzano, Friedman, Rabinow, Harris, etc).
Per Nancy Scheper Hughes, l’antropologia
è una forma di militanza, resistenza, impegno politico: siccome gli antropologi
hanno “scelto di occuparsi dei dannati della terra” (Bourgois 1990: 46), devono
schierarsi, prendere posizione al loro fianco. Da questo punto di vista, l’etnografia
si configura come l’arma dei più deboli: attraverso di essa l’antropologo dà voce agli ultimi, sveste i
panni dello spettatore per diventare testimone/“compagno” (Scheper-Hughes 1996,
si veda anche Behar 2014).
La prospettiva dell’antropologia militante fornisce diversi
e interessanti spunti di riflessione: innanzitutto ci “obbliga” a misurarci con
argomenti scomodi come la violenza, l’ingiustizia, lo sfruttamento. In che modo
si può fare etnografia su questi temi? A quali rischi esponiamo noi stessi e/o
i soggetti studiati? Come trattare i dati prodotti da tali investigazioni? Secondo
Bourgois, l’accademia, attraverso i suoi rigidi codici etici, scoraggia le
ricerche su temi controversi e non si occupa abbastanza delle relazioni
diseguali di potere (Bourgois 1990, si veda anche Graeber 2009). Eppure l’antropologia
ha una responsabilità storica nell’affrontare tali questioni visto che il suo
tradizionale “oggetto di studio" (“i popoli indigeni”) è stato violentemente
incorporato nell’economia globale e spesso si trova a sperimentare gravi forme
di ingiustizia, sfruttamento, repressione, miseria, etc. È anche vero, però, come
ammette lo stesso Bourgois, che ricerche di questo tipo espongono antropologi e
soggetti coinvolti a rischi concreti che
possono produrre un effetto contrario rispetto a quello sperato. A tal
proposito l’autore di “In Search of Respect” riporta le eloquenti parole di
Laura Nader: “Don’t study the poor and powerless because everything you say about
them will be used against them” (Bourgois 2003: 18) Tuttavia, secondo Bourgois e Scheper-Hughes,
non possiamo autocensurarci ed evitare temi scomodi altrimenti l’antropologia
diventa una scienza innocua, dedita unicamente alle “stranezze del mondo”. In quest’ottica,
è necessario “affrontare il potere”, integrando l’approccio ermeneutico e
riflessivo dell’antropologia postmoderna (che si concentra sulla dimensione
simbolica) con una prospettiva teorico-politica che tenga conto anche degli
aspetti strutturali e materiali delle relazioni sociali e delle configurazioni
culturali.
Nonostante abbia fatto prova di riflessività
e spirito autocritico, la militant anthropology
mostra diversi punti deboli: innanzitutto veicola un’idea “romantica”,
ideologica e riduzionista del concetto di resistenza, contrapposto in maniera
dicotomica e monolitica a quello di potere (Ortner 1995). Inoltre non affronta fino
in fondo la questione della
rappresentazione e mantiene spesso un’impostazione etnocentrica e paternalista/maternalista
attraverso la quale si arroga il diritto di “parlare per”, senza tener conto che i
nativi/subalterni possono opporre un “rifiuto
etnografico” (Ortner 1995; Simpson 2007), respingendo l’idea di essere
studiati e rappresentati dagli antropologi (Ramphele 1996; Trencher 1998, si
veda anche Spivak 1994).
Inoltre, l’antropologia militante
si autorappresenta come “la disciplina dei dannati della terra” e, come è
emerso durante il seminario, questo pone ulteriori interrogativi: dobbiamo provare
necessariamente empatia/simpatia nei confronti dei soggetti studiati? Dobbiamo limitarci
alle “classi subalterne” o possiamo studiare anche le élite? Qualsiasi “cosa”
può diventare oggetto di studio? Fino a dove si espande il campo di ricerca?
Qual è il senso della disciplina? Che cos’è questa “antropologia” che noi
facciamo? Per chi? Per cosa?
Per tentare di rispondere a
queste domande, gli antropologi dibattono, si confrontano, si scontrano. Come
scrive Crapanzano, l’antropologia appare, dunque, come un’arena le cui
centrature e i cui confini sono sempre in questione (Crapanzano in Scheper-Hughes
1995:420). Le continue diatribe che attraversano la disciplina possono essere
lette, non a torto, come un sintomo di acuta autoreferenzialità. Sono anche il
segno, però, di una vitalità dell'antropologia che, secondo Osella, trova il suo
senso più profondo nella tendenza a mettersi/mettere in discussione, a destabilizzare ciò che crediamo universale,
scontato, sicuro. Da questa prospettiva, le “piccole storie”, i dettagli
marginali che l’antropologo raccoglie sul terreno, non sono stranezze innocue e
curiose ma hanno una valenza epistemologica, etica e politica in quanto si delineano come
frammenti di una complessità che non possiamo ridurre a un unico modello, a un
solo discorso. La natura “paradossale” della ricerca etnografica, riassunta nel
concetto di “osservazione partecipante”, esprime una tensione costitutiva tra vicinanza
e distanza, esperienza e interpretazione, pratica di campo e riflessioni
teoriche. Ed è proprio nella combinazione
di “teoria” e di “campo” (in cui ci “si sporca le mani”) che, secondo
Francesco Remotti, si trova la formula fondamentale dell’antropologia, “una
sorta di filosofia che si infanga e che rischia continuamente di perdersi, ma
anche esperienze in cui ci si imbratta e che tuttavia contengono temi che
possono avere un notevole valore teorico, persino filosofico”.
PERCORSO DI LETTURA PROPOSTO DAL
PROFESSOR OSELLA:
Prima
parte del seminario: Antropologia, ricerca sul campo e osservazione partecipante:
tra empirismo modernista ed esoticismo romantico?
Background
concettuale:
- Kaplan, C. (1996), “The Question
of Moving” in Questions of Travel:
Postmodern Discourses of Displacement, Durham, Duke University Press,
pp.27-64.
- Benjamin, W. (2002), "Paris,
Capital of the Nineteenth Century" [1939]”, in Tiedemann, R.; Eiland, H.; McLaughlin,
K. (ed.), The Arcades Project, Cambridge,
MA, Harvard University Press.
- De Certeau, M. (2000) “Walking in the City”
in Ward, G.(ed.), The Certeau Reader,
London, Blackwell, pp.126-133.
Metodologia
ed orientamento dell‘antropologia moderna:
- Malinowski, B., (1922), “Introduction”
in Argonauts of the Western Pacific: An
Account of Native Enterprise and Adventure in the Archipelagos of Melanesian New
Guinea, London, Routledge, pp.1-25.
- Geertz, C., (1973), “Thick
description: Toward an Interpretive Theory of Cultures” in The Interpretation of Cultures, New York, Basic Books, pp.3-30.
La
pratica della ricerca sul campo:
- Berreman, G.D., (2012), “Behind
Many masks: Ethnography and Impression Management” in Robben, A.; Sluka, J. (eds)
Ethnographic Fieldwork: an Anthropological
Reader, Chichester,Wiley-Blackwell, pp.152-174.
- Srinivas, M.N., (1980), “Chapter
1: How It All Began” in The Remembered Village, Berkeley, University
of California Press, pp.1-52.
Confabulazioni:
antropologi e i loro “key informants”:
- Turner, V. (1967),
"Muchona the Hornet, Interpreter of Religion" in The Forest of Symbols, Ithaca, Cornell University Press, pp.131-150.
- Rabinow, P. (2007), “Ali: an insider’s
outsider” in Reflections on Fieldwork in
Morocco, Berkeley, University of California Press, pp.31-69.
Affetti, emozioni e posizionalità:
- Jackson, M. (2010), “From Anxiety
to Method in Anthropological Fieldwork” in Davies, j.; Spencer, D. (ed), Emotions in the field: The Psychology and Anthropology
of Fieldwork Experience, Palo Alto,
Stanford University Press, pp.35-54.
- Behar, R. (2014), “Chapter 1:
The Vulnerable Observer” in The Vulnerable
Observer: Anthropology That Breaks Your Heart, Boston, Beacon Press, pp.1-33.
- Rooke, A. (2010), “Queer in the
Field: On Emotions, Temporality and Performativity in Ethnography” in Browne, K.;
Nash, C. J. (ed.), Queer Methods and
Methodologies: Intersecting Queer Theories and Social Science Research,
Surrey, Ashgate, pp.25-40.
Ridefinire
il campo di ricerca:
- Gupta, A.; Ferguson, J. (1992),
“Beyond ‘Culture’: Space, Identity, and the Politics of Difference, Cultural anthropology, 7(1), pp.6-23.
- Comaroff, J.; Comaroff, J. (1992),
“Chapter 1: Ethnography and the Historical Imagination” in Ethnography and the Historical Imagination Boulder, Westview Press, pp.3-48.
Seconda
parte del seminario: “Being there”: politica ed etica dell’osservazione
partecipante
Incontrando
violenza ed illegalità:
- Bourgois, P. (1990), “Confronting
anthropological ethics: Ethnographic lessons from Central America”, Journal of Peace Research, 27(1),
pp.43-54.
- Bourgois, P. (2003), “Introduction”
in In search of respect: Selling Crack in
El Barrio, Cambridge, Cambridge University Press, pp.1-18.
“Il personale è politico”:
- Scheper-Hughes, N. (1995), “The Primacy of
the Ethical: Propositions for a Militant Anthropology”, Current anthropology, 36(3), pp.409-440.
- Ramphele, M. (1996), “How Ethical
are the Ethics of this Militant Anthropologist?”, Social Dynamics, 22(1), pp.1-4.
- Trencher, S.R. (1998), “Righteous
Anthropology”, Society in Transition,
pp.29(3-4), pp.118-129.
Partecipazione
osservante come critica [e i suoi limiti]:
- Mahmood, S. (2001), “Feminist Theory, Embodiment,
and the Docile Agent: Some Reflections on the Egyptian Islamic Revival”, Cultural anthropology, 16(2),
pp.202-236.
- Ortner, S.B. (1995), “Resistance and the Problem
of Ethnographic Refusal”, Comparative
studies in society and history, 37(1), pp.173-193.
Chi
dà voce a chi?:
- Simpson, A. (2007), “On Ethnographic Refusal:
Indigeneity, ‘Voice’ and Colonial Citizenship”, Junctures: The Journal for Thematic Dialogue, 9, pp.67-80.
- Spivak, G. (1994), “Can the Subaltern
Speak?" in Williams, P.; Chrisman, L.(ed.), Colonial Discourse and Postcolonial Theory, New York, Columbia
University Press, pp.66-111.
- Di Cori, P. (2002), “Margini della città: Lo
spazio urbano decentrato di Michel de Certeau e Diamela Eltit”, Antropologia, 2(2), pp.138-161.
- Graeber, D. (2009), “Anarchism, Academia, and
the Avant-garde” In Amster, R. and alii, Contemporary
Anarchist Studies, London, Routledge, pp. 119-128.