Nel mese di aprile si è tenuto il
seminario di Ivan Bargna, docente di antropologia estetica all’Università
Milano-Bicocca. L’incontro ha stimolato una serie di feconde riflessioni sul rapporto
tra campo e museo, tra arte e antropologia nel quadro di alcune dinamiche
globali che contraddistinguono la società contemporanea. A tal proposito, il
relatore ha introdotto due importanti concetti (artificazione/estetizzazione):
spesso usati come sinonimi, in realtà questi termini indicano processi distinti, per quanto
connessi.
“Artificazione”
è una nozione recente, sviluppata dalle studiose Nathalie Heinich e Roberta
Shapiro, le quali, attraverso tale concettualizzazione, hanno inaugurato un
nuovo campo di ricerca della sociologia dell’arte (Heinich, Shapiro 2012). “Artificazione”
indica il passaggio dalla non-arte all’arte. La trasformazione in arte di una
determinata pratica (che prima non lo era) implica la messa in campo di
strategie organizzative, sociali, estetiche, discorsive e comporta un graduale processo
di risignificazione, legittimazione, istituzionalizzazione, patrimonializzazione
e museificazione. Un caso paradigmatico e precoce è quello che vede coinvolta l’“arte
primitiva” (oggi definita “arte etnica”), la quale cambia statuto agli inizi del
Novecento: sulla scia del Primitivismo delle Avanguardie e della nascita di un
mercato ad hoc, i “manufatti
etnografici” si trasformano in “opere d’arte” (Price 2015).
In tempi più recenti, possiamo citare il caso
della street art che da fenomeno marginale
e underground è diventata, seppur con significative forme di “resistenza”,
parte integrante del sistema dell’arte istituzionale con una crescita
esponenziale di mostre e festival dedicati all’arte urbana.
La prospettiva di ricerca inaugurata da
Heinich e Shapiro presenta indubbiamente dei limiti (concezione eurocentrica
dell’arte, scarsa attenzione al fieldwork)
ma ha il merito di adottare un atteggiamento disincantato nei confronti
dell’arte, infrangendone l’aura sacralizzata di “religione laica” e ponendo l’accento
sul suo carattere processuale, situato e storico. In quest’ottica, l’artificazione
non è un processo neutro ma, essendo attraversato da relazioni di potere,
implica attriti, conflitti, contraddizioni (si veda Bargna 2011). Le autrici
parlano, a tal proposito di de-artificazione e/o di resistenza
all’artificazione (si pensi al caso emblematico del noto street artist Blu a Bologna).
L’artificazione non è dunque un processo
irreversibile ma è sicuramente in espansione: l’arte si dilata, conquista nuovi
territori, sposta i propri confini (Perniola 2015), anche se le frontiere
dell’artworld continuano tuttora a essere gestite
in maniera selettiva ed elitaria dagli “addetti ai lavori” (questo è uno dei
grandi paradossi dell’arte contemporanea). Ci si chiede, però, se tale dilatazione
del mondo dell’arte non si traduca in una sua sparizione (Baudrillard 2012): nel
momento in cui – da Duchamp in poi - tutto può essere arte, sorge il dubbio che
niente lo sia.
Più che sparire, però, l’arte sembra
assumere uno “stato gassoso”, diventa etere, un profumo che si diffonde ovunque, al punto che il
nostro mondo appare immerso in una fluttuante atmosfera estetica (Michaud 2007).
In quest’ottica, l’artificazione partecipa al processo di estetizzazione
diffusa e generalizzata che caratterizza la società contemporanea.
Con il termine “estetizzazione” indichiamo un insieme di processi di disseminazione
della dimensione estetica nelle varie sfere dell’esistente: vita quotidiana,
corpo, ambiente urbano e domestico, media, politica, economia, religione
(Bargna 2018).
Per quanto riguarda il campo economico (e
non solo), Gilles Lipovetsky e Jean Serroy (2017) parlano, a tal proposito, di
capitalismo artistico, ovvero di un sistema connotato da un peso sempre
maggiore assunto dal mercato delle emozioni e del design process, da un lavoro sistematico di stilizzazione di oggetti
e luoghi, da un’integrazione generalizzata dell’arte, del look e della sensibilità
affettiva nell’universo economico e quotidiano. Tale sistema non solo implica la
globalizzazione dei mondo dell’arte, la proliferazione e la finanziarizzazione delle
industrie creative, ma innesca processi più ampi e pervasivi. In quest’ottica, il
capitalismo artistico rappresenta
una riorganizzazione del mondo e della produzione sotto il segno dell’artistizzazione
e della valorizzazione della dimensione emozionale, spettacolare e immateriale:
si tratta, dunque, non solo di fabbricare beni materiali al minor costo
possibile (fordismo) ma di sedurre, evocare immaginari, sollecitare desideri ed
emozioni, “piacere e colpire” (Lipovetsky 2019). Il management creativo, il
marketing emotivo ed esperienziale, il visual branding nascono per rispondere a
queste nuove esigenze del mercato.
Tale evoluzione non rende il capitalismo
artistico “meno capitalista”, anzi sotto certi aspetti lo fa diventare più
efficiente, insinuante, potente: l’estetizzazione del mondo si integra con il
razionalismo economico. La fase postfordista appare così caratterizzata - non
senza contraddizioni e conflitti - da una profonda interconnessione tra
calcolo e creatività, razionalità ed emozione, finanza e arte. Secondo le voci più
critiche, questo sistema incarna una sorta di “totalitarismo dolce” in quanto
genera una “governance orizzontale intessuta di pura attrazione” (ibidem: 204), un subdolo apparato di
alienazione, manipolazione e controllo sociale che, attraverso accattivanti meccanismi
seduttivi, impone una cultura assoggettata alle esigenze del capitale. Per Lipovetsky
questo valutazione è eccessivamente
tranchant e apocalittica: secondo il filosofo francese, non è necessario demonizzare
la “società della seduzione”, è sufficiente contrastarne gli effetti negativi.
Al
di là dei vari giudizi in merito, ciò che ci interessa sottolineare in questa
sede è il ruolo cruciale assunto dalla
dimensione estetica nel mondo contemporaneo. I fenomeni estetici non sono
dunque marginali ma si situano al centro delle dinamiche globali di produzione,
commercializzazione, comunicazione. I processi di estetizzazione, inoltre,
investono anche il consumo, le aspirazioni, gli stili di vita, il rapporto con
il corpo, lo sguardo sul mondo. Da questo punto di vista, il capitalismo
artistico, facendo appello al gusto e alla sensibilità degli individui, ha dato
vita a un “uomo nuovo” – l’homo aestheticus
- “iperconsumatore”, collezionista compulsivo di esperienze, emozioni,
sensazioni. In tal senso, innescando processi di
ibridazione e scombinando le vecchie gerarchie artistiche e culturali, ha
diffuso in tutti gli strati sociali un’etica edonistica ed estetica: la vita
quotidiana e il consumo, indipendentemente dalla classe sociale, sono sempre più
regolati dalla ricerca di emozioni e piaceri immediati, dal desiderio di vivere
esperienze gradevoli e gratificanti. All’estetizzazione dell’economia corrisponde,
così, l’estetizzazione dell’etica.
La dimensione estetica non è, dunque, una
variabile periferica o decorativa ma si configura come un elemento-chiave del
passaggio dal fordismo al postfordismo (dalla funzionalità all’estetica, dai
bisogni ai desideri, dagli oggetti alle esperienze). Inoltre, è una componente
costitutiva del “nuovo spirito del capitalismo” il quale - pur essendo
attraversato da tensioni paradossali - si caratterizza per una squalificazione
della morale austera (come l’etica protestante) a favore di un’etica estetica
di massa che attribuisce valore all’edonismo individualista, al benessere
esperienziale, al godimento hic et nunc.
Il
trionfo del capitalismo artistico, che ha fatto dell'estetica uno strumento
essenziale della propria espansione, ha trasformato radicalmente la società e
la percezione stessa dell'arte, dei suoi confini, del suo ruolo sociale. Se l’arte
ha anticipato tutta una serie di aspetti (lo spostamento dai prodotti ai
processi, l’immaterialità, le pratiche immersive e sensoriali, l’obsolescenza programmata,
etc) al centro dall’attuale sistema postfordista, oggi il capitalismo artistico
si fa carico della funzione precedentemente assegnata all’arte (in quanto fonte
di esperienza estetica). Ai nostri giorni, il vettore principale dell'estetizzazione
del mondo non è più l'arte, ma l’economia. La distinzione tra queste due sfere,
d’altra parte, si fa sempre più labile: se si assiste a un’estetizzazione dei
processi produttivi ed economici, parallelamente si è testimoni di una
finanziarizzazione dei mondi dell’arte.
Cosa
ha a che fare tutto ciò con l’antropologia?
Innanzitutto, la centralità (sia a livello
economico che sociale) del sistema arte-cultura nel mondo contemporaneo lo
rende un cruciale oggetto di studio (Fillitz, Van der Grijp 2018): appare sempre
più necessario, dunque, produrre etnografie dense dei mondi dell’arte e delle
dinamiche di artificazione/estetizzazione. Questi lavori dovrebbero tenere conto
degli scarti tra le retoriche e i processi effettivi, tra quel che si dice e
quel che si fa (Bargna 2011:91). In quest’ottica, i musei e le mostre non sono
solo possibili luoghi di restituzione dell’investigazione antropologica ma anche
veri e propri terreni di ricerca.
Secondo Bargna, poi, in linea generale tutti
gli antropologi dovrebbero considerare queste dinamiche in quanto esse
travalicano il campo settoriale dell’antropologia dell’arte: come abbiamo visto,
la dimensione artistica ed estetica impregna la struttura sociale globale,
seppur con intensità e modalità variabili. I ricercatori (anche quelli che non si
occupano specificatamente di arte) dovrebbero, dunque, prestare attenzione a questi fenomeni e verificare sul terreno se, come e fino a che punto tali dinamiche
abbiano un impatto sul proprio oggetto di studio.
Inoltre, si deve considerare che l’antropologia stessa è stata investita dai
processi di artificazione ed estetizzazione e “sta velocemente e in modo
inesorabile scivolando verso l’arte” (Padiglione, Bargna 2018:7): la competenza
antropologica sembra perdere di rilevanza rispetto al linguaggio - narrativo,
visuale, artistico - della mediazione e di autorevolezza rispetto ai propri abituali
soggetti, temi e oggetti (ad esempio, oggi i musei etnografici, significativamente
ridenominati “musei delle culture del mondo”, sono molto spesso diretti da
storici dell’arte e non da antropologi).
Se questo spostamento porta con sé un
senso di perdita ed espropriazione, esso si presenta però anche come un’occasione
per ripensare i rapporti tra arte e antropologia
con maggior consapevolezza.
Tra arte e antropologia intercorre una
relazione di lunga durata che attraversa tutta la storia della disciplina, sin
dalle origini. A partire dagli anni Ottanta, in virtù di una crescente affinità
e prossimità degli stili conoscitivi, si è assistito tuttavia a un’intensificazione degli
scambi e dei prestiti reciproci tra i due campi (Marcus 2010): se da un lato, l’antropologia
si appropria dei linguaggi artistici per tentare di superare il proprio
logocentrismo (svolta sensoriale dell’antropologia), dall’altro, l’arte
contemporanea, emancipandosi dalla materialità dell’opera, si avvicina all’antropologia
in quanto pone un’attenzione sempre maggiore agli aspetti contestuali (es: interventi
site-specific) e relazionali (es: arte pubblica e partecipativa) della
creazione (svolta etnografica dell’arte) (Bargna 2009).
Il dialogo tra arte e antropologia, sebbene
non privo di malintesi e tensioni e nonostante oggi sia più sbilanciato
dal lato dell’arte, si è dimostrato particolarmente fecondo e ha dato luogo a
varie forme di ibridazione e collaborazione sperimentale (Schneider, Wright
2006). Nel realizzare progetti comuni e trasversali che intersecano discipline
e saperi diversi, occorre però “mettere dei paletti”.
A tal proposito, Marcus e Myers (1995) invocano la necessità di un’etnografia
critica dei mondi dell’arte che si delinea come “una prospettiva etnografica
collegata e allo stesso tempo distanziata sull’arte”, ovvero come un punto di
vista che tiene in considerazione i diversi modi in cui l’antropologia è
implicata nei mondi dell’arte attraverso le sue categorie concettuali e le varie
forme di collaborazione sul terreno (in cui l’antropologo stesso può essere
protagonista attivo dei processi di artificazione); allo stesso, però, tale
prospettiva cerca di mantenere una necessaria distanza critica nei confronti di
questo mondo, delle sue pratiche, dei suoi discorsi.
In questa direzione, durante il seminario,
il professor Bargna ci ha illustrato un esempio concreto che l’ha visto
convolto nel doppio ruolo di antropologo e curatore in collaborazione con la collega
Giovanna Parodi da Passano: l’organizzazione della mostra “L’Africa delle meraviglie. Arti africane nelle collezioni italiane”
(Palazzo Ducale-Castello d’Albertis Museo delle Culture del Mondo, Genova, 31/12/2010-05/06/2011).
Bargna ha
ripercorso le varie tappe e i diversi elementi che hanno dato vita all’esposizione,
evidenziandone limiti e pregi e focalizzandosi sul rapporto con il contesto
(geografico e storico) e sulle relazioni tra i vari attori in campo. Da questo
punto di vista, l’oggetto-mostra rappresenta un terreno complesso e conflittuale
in cui intervengono molteplici istanze (mediatiche, politiche, economiche,
finanziarie) e diversi professionisti e saperi. L’antropologo che si trova a
operare (non solo come ricercatore ma anche come curatore) in questa cornice deve
relazionarsi con gli altri attori in campo, con loro esigenze e aspettative, deve
“scendere a patti con la realtà” ma può e deve negoziare spazi di autonomia e
riflessioni critica. In tale prospettiva, l’intento della mostra, nonostante il
titolo, non era quello di esporre oggetti di arte africana suscitando
meraviglia ma, mettendo in atto particolari strategie espositive, consisteva
nel cartografare gli oggetti, la loro biografia (i percorsi, gli spostamenti,
le risemantizzazioni, i rapporti con luoghi, cose, persone). Attraverso gli
oggetti, si voleva dunque innescare una riflessione sul rapporto tra arti
africane e collezioni italiane, interrogandosi, attraverso il filtro del
collezionismo italiano, sulla rappresentazione dell’Africa e delle arti
africane in Occidente (si veda anche Bargna 2014). In quest’ottica, secondo le
parole dei curatori (Bargna, Parodi da Passano 2010:30):
“collezionare è molto più che raccogliere
oggetti, è un modo di darsi ragione del mondo, di gettare uno sguardo sull’Altro,
di costruire un microcosmo tra reale e immaginario che ci parla tanto degli
altri come di noi. Le collezioni italiane di arte africana ci parlano tanto
dell’Africa quanto dell’Italia, dei modo in cui in Italia (come altrove in
Occidente) ridefinendo gli oggetti africani come opere d’arte ci si è
rappresentato l’Africa”.
Il collezionismo appare così non solamente
come un fenomeno (trans)culturale che può essere oggetto di studio ma si
configura come una pratica di costruzione del sapere, uno strumento euristico,
un paradigma di ricerca (Bargna 2016) che ci permette di transitare dal museo
al campo e al mondo (e viceversa).
La mostra “L’Africa delle Meraviglie", che tra
le altre cose ha visto la partecipazione in fase di allestimento del quotato
artista contemporaneo Stefano Arienti, è così un esempio di come si può fare etnografia
nei/dei mondi dell’arte: si collabora, ci si può “ibridare”, ma “senza mai abdicare a
quello spirito critico e autoriflessivo che ci consente di riprendere le
distanze quando è il momento” (Padiglione, Bargna 2008:9).
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