Il ciclo di seminari DACS è proseguito con uno degli ultimi
incontri, il 22 maggio, dedicato alla filosofa Silvana Borutti, professoressa
ordinaria all’Università di Pavia. Borutti ha ripreso la discussione attorno al
tema dell’antropopoiesi frutto di un
gruppo di ricerca congiunto pluridecennale di Filosofi e Antropologi
provenienti da diverse università, fra cui quella di Milano-Bicocca, quella di
Torino, l’Università di Pavia e l’EHESS di
Parigi. Attraverso la nozione classica di antropopoiesi
e dell’incompletezza ontologica dell’individuo, Borutti ha voluto ripercorrere lo sviluppo di una visione
relazionale e intersoggettiva del Sé e della Persona nei pensieri di tre filosofi
classici della tradizione occidentale: Hegel, Kant e Wittgenstein.
Muovendo dal concetto di “riconoscimento contemplativo” che
attraversa la Fenomenologia dello Spirito
di Hegel, Borutti ha ricostruito il senso che quest’ultimo ha dato alla
nozione di sé: per Hegel non vi può essere autocoscienza di sé se non attraverso
la capacità di riconoscerSI nell’altro. Il Sé è dunque inevitabilmente connesso
alla relazione con l’Altro, dato che non vi può essere coscienza individuale
senza un ambiente di relazioni esterno all’individuo attraverso cui quest’ultimo
acquista la rivelazione della propria esistenza. Il motore di questo processo è
per Hegel un “appetito antropogeno”: una “brama” che manifesta una mancanza strutturale
primordiale del vivente. In questa “contemplazione” il soggetto è assorto nella
cosa completa, e la vita non è altro che “desiderio del desiderio dell’Altro”.
Tale desiderio di vita, “appetito”, non è altro che la brama dell’andare “fuori
di sé”, dato che l’Autocoscienza trova appagamento solo nella scoperta di un’altra
Autocoscienza: la manifestazione di qualcosa che è altro ma allo stesso tempo
uguale al proprio Sé e quindi fornisce la prova della propria esistenza. L’esistenza
soggettiva non può dunque che realizzarsi nell’esistenza comune, un momento in
cui i soggetti acquistano reciprocamente un’autocoscienza individuale. Il
desiderio dell’Altro non è il desiderio della cosa dell’Altro, piuttosto
la brama di essere riconosciuti da un Altro che si realizza nella scoperta
della parte umana che ogni soggetto condivide, ovvero la medesima bramosia e il
medesimo sguardo. Ed è proprio in questo “riconoscimento reciproco” che Hegel
identifica la caratteristica ontologica che fonda l’esistenza della Comunità
Umana. Il singolo soggetto non è quindi semplicemente connesso a un insieme di
relazioni che intrattiene con altri soggetti, come se l’esistenza del Sé avvenisse
in un tempo precedente alla costruzione dei legami con l’Altro: al contrario, l’esistenza
di una trama di relazioni inter-soggettive e comunitarie costituisce la
condizione di possibilità affinché si possa parlare dell’esistenza del Soggetto,
e non esiste alcuno scarto temporale fra il Sé e la relazione con l’Altro.
Per Kant invece ciò che fonda la Comunità Umana è un “Sentire
Comune”, che egli considera condizione preliminare ante-predicativa: ovvero l’appartenenza
alla comunità è un legame che avviene prima della possibilità di concepire
intellettualmente l’altro. Prima del rapporto conoscitivo con il mondo c’è un
appartenere comune. Kant non parla di Comunità nella Critica della Ragion Pura; per lui i soggetti non acquistano
coscienza attraverso una comunità, dato che la coscienza e la morale si identificano
sulla base di imperativi categorici che rispondono a leggi naturali universalmente
valide indipendenti dalla comunità. Il problema della comunità è un problema
che affronta nella Critica sul Giudizio,
dove afferma che è il “soggetto riflettente, consapevole” che si pone il
problema del rapporto con gli altri e con il mondo esterno. Si dà delle leggi,
ovvero atomi, principi che pretendono di essere messi in comune e costituire un
sentire comune: quella della comunità è dunque una questione sentimentale che
Kant non pone sullo stesso livello di una questione morale o intellettuale.
Ponendosi il problema del vivere nella natura, il soggetto riflettente
stabilisce delle leggi che sono dei “come se”, delle convenzioni
ontologicamente diverse dalle leggi di natura che tuttavia armonizzano i
rapporti con gli Altri e con la Natura stessa. Un sentire comune che è
profondamente diverso da un concetto di empatia, poiché non ha il carattere di
immediatezza e di fusione ma è piuttosto una valutazione fondata su una
re-immaginazione creativa di ciò che l’altro potrebbe pensare e dei giudizi che
potrebbe conferire.
Anche in Wittgenstein vi è l’idea di un sentire comune,
ovvero di un passaggio da “una voce” a “tutte le voci”. Il filosofo vissuto a
cavallo fra Ottocento e Novecento trasforma la nozione di vedere attraverso l’espressione
del “vedere come”: il “vedere come” consente al soggetto di trasferire la
comprensione dei significati che è il modo attraverso cui si genera una
comunità. Una connotazione linguistico-pragmatica che acquista statuto
comunitario nel momento in cui si lega a un determinato contesto, un’azione che
Wittgenstein chiama “fisionomia”. Il carattere di un oggetto si sub-stanzia in
un contesto in cui ogni parte acquisisce significato nel legame con le altre
attraverso delle regole. Narrare una storia equivale a rispettare le regole di
un gioco linguistico, fra cui per esempio la sequenza temporale. Le regole sono
ciò che definisce la forma di un oggetto. Vedere un viso equivale a percepirne
l’eidos, il suo aspetto.
Il “vedere come” è dunque formato e addestrato attraverso norme e principi che non sono separabili da contesti di azione intersoggettivi: in altre parole, il significato e le norme che lo regolano non precedono l’azione ma sono piuttosto funzionali e inseparabili dall’azione stessa. Tale forma di addestramento si realizza attraverso un processo mimetico in cui le regole, ovvero ciò che definisce la forma, non sono esplicitate prima dell’azione ma comprese attraverso un’esperienza sensoriale tout court che si realizza nell’azione stessa. Non apprendiamo come si parla ricevendo delle regole a priori ma piuttosto parlando, in un processo in cui Wittgenstein lascia ampio spazio alla creatività individuale. Ciò è in linea con uno dei concetti cardine dell’Antropologia: Oltre a dover essere collocato nel suo contesto di appartenenza, il significato è sia relazione che azione, non vi è scarto temporale fra questi tre piani. Nella concezione dell’esperienza di apprendimento come “sinestetica”, ovvero come esperienza sensoriale tout court, Wittgenstein anticipa un’altra questione divenuta ormai classica nella disciplina: ovvero l’ontologia dell’esistenza e dell’azione umana ha un carattere inter-corporeo che tocca simultaneamente tutti i piani dell’esperienza sensoriale. Tornando all’esempio del narrare una storia, ascoltandola non apprendiamo solamente il contenuto (le sentenze) e la sequenza temporale ma anche il tono della voce e l’espressione del viso di chi narra. Non sentiamo semplicemente come gli altri ma anche con gli altri. Ciò rimanda, in definitiva, alla nozione di antropopoiesi e allo statuto di incompletezza ontologica del Sé e dell’Esistenza umana.
Il “vedere come” è dunque formato e addestrato attraverso norme e principi che non sono separabili da contesti di azione intersoggettivi: in altre parole, il significato e le norme che lo regolano non precedono l’azione ma sono piuttosto funzionali e inseparabili dall’azione stessa. Tale forma di addestramento si realizza attraverso un processo mimetico in cui le regole, ovvero ciò che definisce la forma, non sono esplicitate prima dell’azione ma comprese attraverso un’esperienza sensoriale tout court che si realizza nell’azione stessa. Non apprendiamo come si parla ricevendo delle regole a priori ma piuttosto parlando, in un processo in cui Wittgenstein lascia ampio spazio alla creatività individuale. Ciò è in linea con uno dei concetti cardine dell’Antropologia: Oltre a dover essere collocato nel suo contesto di appartenenza, il significato è sia relazione che azione, non vi è scarto temporale fra questi tre piani. Nella concezione dell’esperienza di apprendimento come “sinestetica”, ovvero come esperienza sensoriale tout court, Wittgenstein anticipa un’altra questione divenuta ormai classica nella disciplina: ovvero l’ontologia dell’esistenza e dell’azione umana ha un carattere inter-corporeo che tocca simultaneamente tutti i piani dell’esperienza sensoriale. Tornando all’esempio del narrare una storia, ascoltandola non apprendiamo solamente il contenuto (le sentenze) e la sequenza temporale ma anche il tono della voce e l’espressione del viso di chi narra. Non sentiamo semplicemente come gli altri ma anche con gli altri. Ciò rimanda, in definitiva, alla nozione di antropopoiesi e allo statuto di incompletezza ontologica del Sé e dell’Esistenza umana.