martedì 12 giugno 2018

Antropologia e Lavoro. Intersezioni teoriche e prospettive di ricerca.

A cura di Fulvia D'Aloisio
Ricercatrice, insegnante di Antropologia culturale e Antropologia delle società complesse presso il dipartimento di psicologia della seconda Università di Napoli. Si occupa di antropologia del lavoro e dell'impresa, di bassa fecondità in Italia. Ha pubblicato Donne in tuta amaranto. Trasformazione del lavoro e mutamento culturale alla Fiat-Sata di Melfi (Guerini & Associati), Milano 2003, e Non son tempi per fare figli. Orientamenti e comportamenti riproduttivi nella bassa fecondità italiana (a cura), Guerini &Associati 2007. È membro dell'Associazione Italiana Scienze Antropologiche (AISEA), e dell'American Anthropological Association.
 
Il campo d’indagine sul mondo del lavoro e in particolare quella branchia che chiameremo “antropologia d’impresa” è un settore di studi piuttosto recente, lontano dagli esotismi che hanno caratterizzato gli albori della disciplina. È in Francia, dove il legame tra antropologia e sociologia è stato più stretto, che questa forma di riflessione endotica ha dato il contributo maggiore a questo particolare campo analitico. In Italia invece questo filoni di studi interno alla disciplina è stato poco esplorato, focalizzando sovente l’attenzione su quelle pratiche lavorative artigiane e tradizionali, legate al folklore popolare piuttosto che al mondo del lavoro contemporaneo, alle logiche aziendali e all’organizzazione d’impresa. È a partire dagli inizi degli anni ’90 che Oltralpe iniziano le prime etnografie sul mondo del lavoro contemporaneo soprattutto grazie all’impegno di Monique Sélim che con il suo articolo-manifesto apparso sul Journal des antropologues del ’91 dal titolo emblematico Désacraliser l'entreprise : un terrain ethnologique banal contribuisce a sistematizzare concetti e metodologie per approcciare questo inedito spazio analitico.

Un caposaldo importante nell’impostazione teoretica e metodologica del lavoro promosso da Sélim consiste nel mettere a fuoco una visione globale dell’impresa, invitandoci a diffidare dall’appiattimento focale sulla sola classe di lavoratori salariati. Superare, dal punto di vista dell’analisi antropologica, la visione duale marxiana capitale-forza lavoro, può essere opportuno per cercare di mettere in evidenza quelle che sono le relazioni dialettiche che vengono creandosi fra lavoratori all’interno dell’impresa (antropologia nell’impresa) e provare a fornire una prospettiva più generale procedendo ad una comparazione tra imprese operanti nel medesimo settore (antropologia dell’impresa). Evitare di concepire un’antropologia dell’impresa fondata solo sull’analisi della forza lavoro, tenere in considerazione le dinamiche interne all’azienda, focalizzandosi anche sulle gerarchie e sul management che fanno parte di logiche limpide di organizzazione aziendale, significa per D’Aloisio cercare di analizzare come l’impresa si inserisce e si performa dentro i contesti locali e i tessuti sociali entro cui opera, analizzando i processi lavorativi e le economie che si modellano dentro i sistemi di relazione sociale (Malinowski, Polany) che prendono piede a partire da determinati processi storici. Evitare una sorta di ontologizzazione della nozione di “classe” ripensandone confini e contenuti è un primo doveroso passo per metterci nelle condizioni per approcciare al mondo del lavoro nel XXI secolo, dove alcuni temi cardine in auge nel ‘900 sono stati soppiantati o superati da nuove dinamiche di organizzazione e divisione del lavoro a livello globale. 
Risultati immagini per kasmir carbonellaUn concetto di classe aderente al nuovo modello di produzione transnazionale è proposto da Sharryn Kasmir e August Carbonella [1] i quali, ponendo l’enfasi sulle diverse esperienze lavorative degli individui, mettono in risalto come in uno stesso ciclo di vita, la biografia di un lavoratore possa attraversare differenti costellazioni di classe, contribuendo quindi a fornire una nuova concettualizzazione del termine, tutt’altro che omogeneo quanto piuttosto notevolmente dinamico, mutevole e per certi versi sfuggevole. Avvicinarsi allo studio sistematico dell’Antropologia d’impresa, avendo chiare alcune riformulazioni di concetti classici diviene quindi la condizione preliminare per guardare a fenomeni globali in parte lontani e svincolati da tradizionali sistemi analitici.

Prendendo spunto da un saggio del 2004 La globalizzazione non esiste (Sélim), D’Aloisio ragiona sugli assetti multinazionali delle imprese all’alba del nuovo millennio, allorché il loro muoversi nello spazio consente alle aziende di performarsi a seconda dei luoghi e dei tessuti sociali in maniera molto diversa e non sempre e non per forza alla ricerca di forza-lavoro a basso costo (esercito industriale di riserva per Marx) ma oggi più che mai, alla ricerca di manodopera ad alta qualificazione, in un’ottica che privilegia maggiormente lavori ad alto contenuto cognitivo. Per l’autrice sono cambiati gli indicatori dell’allocazione e distribuzione mondiale del capitale, sono cambiate le logiche con le quali le imprese si muovono e sono cambiati gli effetti che l’esportazione di lavoro e parti di produzione possono produrre ni territori in cui approdano. Per questi motivi è importante ripensare ai classici modelli che dominano il panorama degli studi sul lavoro e spostarci su un piano più interdisciplinare che sappia cogliere il passaggio da un sistema lavorativo (e analitico) imperniato sulla figura dell’operaio con caratteristiche legate al lavoro manuale e ripetitivo, a un modello di lavoro fondato su caratteristiche e competenze cognitive e affettive. Il cambio di paradigma è sensibile: le richieste delle imprese nei confronti dei dipendenti spingono verso un “saper essere” piuttosto che un “saper fare”.

In Italia i contributi più significativi in materia di analisi del mondo del lavoro vengono da Cristina Papa che ha cercato di proporre una visione dell’impresa come un coacervo di processi globali, decisioni, circuiti che esulano dalla singola dimensione nazionale o globale ma che ritornano al territorio in cui operano attraverso i lavoratori e le lavoratrici che all’interno di queste imprese lavorano. A livello internazionale una incisiva riflessione sullo stato dell’arte circa il nuovo mercato globalizzato del lavoro è stata portata avanti dall’ILO [2] che ha cercato di sistematizzare le categorie di flessibilità (esterna e interna legate rispettivamente al numero secco di lavoratori e alle dinamiche organizzative e di mobilità lavorativa all’interno di ogni singola azienda) e di precarietà, così come la definizione di decent work. Coadiuvato dallo studio di eminenti sociologi come Gallino e Cornero, il rapporto ILO chiarisce come il fenomeno della precarietà non sia solo il fil rouge delle trattazioni modaiole sul lavoro ma piuttosto come questa condizione caratterizzi la vita intera del lavoratore, inficiandone fin nel profondo ogni aspetto sociale e annullando ogni possibilità di identificazione del lavoratore con una determinata mansione. Siamo di fronte ad una sorte di rivoluzione copernicana laddove contrariamente al secolo appena trascorso, ogni illusione di stabilità e coscienza lavorativa collettiva vigorosa e proattiva viene definitivamente abbandonata. La nozione di decent work promossa dall’ILO dovrebbe cercare di spostare il vertice visivo verso una concezione “sostenibile” di impresa in cui il lavoro non sia generatore di condizioni di precarietà e di sofferenza ma che possa contare su una continuità del reddito, rispettando le norme salariali minime stabilite da ogni singolo contratto collettivo.

Nella seconda parte dell’incontro D’Aloisio ci ha illustrato i percorsi e le traiettorie di ricerca che l’hanno accompagnata negli ultimi 25 anni: la ricerca nel comune di Melfi, in Basilicata, dove ha sede la fabbrica FCA e il progetto interno al Gruppo Volkswagen presso lo stabilimento di Automobili Lamborghini a Sant’Agata Bolognese. L’analisi diacronica di lungo periodo nei due contesti ha permesso all’autrice di portare alla luce quelle che sono le differenti strategie dei due gruppi e le modalità di interazione con i tessuti socio- produttivi locali.


Risultati immagini per fiat melfiA partire dalla decisione di Fiat di negare l’acceso alla ricercatrice campana allo stabilimento lucano e la susseguente decisione di approfondire la ricerca nel comune di Melfi, lavorando perciò sulla vita della fabbrica ma fuori da essa, D’Aloisio ci porta a riflettere sulle modalità in cui il campo viene co-costruito con i propri interlocutori, diventando un’operazione tutt’altro che neutra, quanto piuttosto una complessa e delicata mediazione tra diversi attori in gioco. Contrariamente a quanto avvenuto in Fiat infatti, l’accesso all’interno dell’azienda Automobili Lamborghini è stato proposto e accolto con favore dal Gruppo Volkswagen che opera con dinamiche aziendali del tutto particolari, dove la presenza di un sindacato unitario che siede al tavolo con la proprietà e che è coinvolto nelle scelte manageriali, ha contribuito a facilitarne l’ingresso e le relazioni con gli interlocutori-lavoratori.

Il progetto di ricerca in Automobili Lamborghini si configura come una proposta autonoma, non commissionata dalla società tedesca, pertanto la possibilità di accesso sistematico e continuativo agli ambienti di lavoro così come ad operai e dirigenti, può essere a buon titolo considerato un unicum nel panorama degli studi dell’antropologia dell’impresa poiché beneficiaria di un modello del tutto singolare di relazioni industriali. Le scelte metodologiche del ricercatore e la composizione del suo campo quindi, dipendono in buona misura dalla storia dell’impresa e dai suoi rapporti aziendali interni ed esterni e non sono e non possono essere decisioni univoche e statiche dell’antropologo bensì un processo che comporta inevitabilmente deviazioni, cambiamenti, rimodulazioni in corso d’opera.

Dal punto di vista delle relazioni industriali e sulla localizzazione di macro- processi di scale globale i casi di Melfi e di Sant’Agata Bolognese sono meritevoli di attenzione per diversi motivi.

La sede lucana di Fiat, ultimo stabilimento aperto in Italia prima delle massicce esternalizzazioni, ha rappresentato il tentativo di superamento del modo di produzione fordista, introducendo una filosofia di produzione e un’organizzazione del lavoro inedita nel contesto automotive italiana, ossia quella del cosiddetto toyotismo giapponese, che intende la propria forza lavoro come “operai pensanti”, non solo quindi dediti a standardizzati movimenti ripetitivi ma molto più vicini a quella tipologia di lavoro cognitivo di cui sopra. Resta da verificare quanto questa nuova spinta proveniente da Oriente sia o meno riuscito ad attecchire nel particolare tessuto socio-produttivo lucano, uno dei più poveri d’Italia e d’Europa. L’apertura della sede melfitana ha rappresentato un rinnovato progetto di graduale abbandono delle grandi produzioni delle economie di scala, andando incontro a una sempre maggiore diversificazioni dei prodotti, a una maggiore personalizzazione degli stessi e contrazione della produzione per fette sempre più di nicchia di mercato. Partendo dalla domanda di ricerca dell’antropologa su come nuove dinamiche organizzative globali e mutamenti culturali radicali influenzino il tessuto sociale, economico e politico locale, risulta ora chiaro come Melfi sia stato un esperimento di come la filosofia del lavoro Toyota e un nuovo modello di lavoratore, potesse essere declinato in ambito Occidentale [3]. Secondo D’Aloisio infatti ci sono state ricadute a più livelli nella vita sociale e culturale della comunità, a partire dal nucleo famigliare con un notevole aumento dei tassi di divorzi e separazioni, una rifunzionalizazione delle reti di vicinato, fino ad arrivare ad un nuovo modello di operaio, diplomato e qualificato [4] in grado di avere a che fare con un’elevata tecnologizzazione dei macchinari.

Le spinte globalizzatrici, i flussi di capitale, la divisione del lavoro e l'alto grado di conoscenze e competenze tecnologiche e d’avanguardia hanno interessato anche il contesto produttivo meccanico emiliano compreso tra Bologna, Modena e Reggio Emilia ed in particolare la famigerata casa automobilistica Lamborghini nel suo rapporto con la casa madre Volkswagen, che la vede come un unicum nel complesso panorama italiano delle relazioni industriali. L’incontro della cultura Volkswagen con l’expertise metalmeccanico e manifatturiero emiliano e con il sindacato FIOM [5] ha portato in dieci anni ad un raddoppio sia del fatturato dell’azienda sia del numero di lavoratori, ponendosi in ambito europeo come un modello virtuoso in cui la solidità di un gruppo multinazionale si interseca con la l’intelaiatura tecnica avanzata sia in campo di manodopera, sia in campo di rapporti azienda-sindacato a livello locale. Questo sodalizio va ad inserirsi all’interno di una teoria più ampia delle catene globali del lavoro, dove sembra chiaro come risulti indispensabile per produrre valore, lavoro, prestigio e solidità ad un gruppo multinazionale, scommettere sulle relazioni socio-produttive ad alto contenuto cognitivo e tecnologico piuttosto che rifarsi ad una smodata delocalizzazione d’impresa in cerca di sola manodopera a basso costo.

In conclusione, questi esempi etnografici si configurano dal punto di vista dell’analisi antropologica dell’impresa come ciò che possiamo intravedere a livello locale, di come un tessuto economico, culturale, sociale particolare interagisca con movimenti globalizzanti e con grandi gruppi industriali dal carattere multinazionale.



[1] Blood and Fire. Toward a Global Anthropology of Labor, Berghahn Books, Oxford, 2014
[2] International Labor Organization
[3] Un particolare turno di lavoro è divenuto famoso nel settore automotive europeo: Melfi è stato l’unico stabilimento che ha adottato una turnazione 6 su 7 con il turno notturno di sabato che prevedeva lo smonto la domenica mattina. L’intensità di lavoro fino ai primi anni ’10 era stimata in 1500 vetture al giorno, la più alta d’Europa.
[4] I giovani operai (tutti al di sotto dei 32 anni) venivano chiamati “giapponesi di Melfi”
[5] Unico sindacato presente in Automobili Lamborghini

giovedì 24 maggio 2018

L’antropologo e il suo rapporto con la scrittura

Il lavoro dell’antropologo è indissolubilmente legato alla scrittura. Insieme a Francesco Vietti, in questo incontro dedicato allo scrivere, abbiamo riflettuto sulle molteplici forme di scrittura e sui differenti contesti in cui l’antropologo può esercitare questa attività.

I due principali contesti in cui l’antropologo scrive sono il campo e l’accademia.

Le note di campo sono il primo tentativo di descrivere l’Altro. E possono comprendere descrizioni di sensazioni, mappe e disegni, parole e traduzioni e tutto ciò che in quel momento ci sembra più adatto per fermare su carta l’incontro con l’Altro. Tuttavia, è sempre necessaria un’ulteriore rielaborazione per tradurre e rendere esplicita “la natura orale e inconscia dei fenomeni” (Fabietti, 2012, p. 116). 

Come dimostra lo schema qui accanto:
“La scrittura, dopo essere risalita dall’alterità verso la differenza (producendo la monografia), e dopo aver superato dimensione orale e dimensione inconscia riportando la prima ad una traduzione (scritta) e la seconda a senso (esplicito), confluisce nel corpus etnografico per ridiscenderne sotto forma di precomprensione e per dirigersi nuovamente verso l’alterità, guidando le modalità di avvicinamento dell’etnografo al suo oggetto” (Fabietti, 2012, p. 117).

 Il quaderno di campo è, quindi, utile all’antropologo per avvicinarsi progressivamente all’Altro. Ma raggiunto questo fine, il quaderno di campo non serve più?

Sul sito del Council for the Preservation of Anthropological Records sono conservati numerosi dati etnografici provenienti da quaderni di campo di alcuni antropologi. Questi dati, oltre a servire da ispirazione, possono essere utilizzati nelle ricerche di altri antropologi? È questa la domanda lasciata aperta durante la nostra discussione.

Esempio di quaderno di campo
Per quanto riguarda l’accademia, invece, è indispensabile saper trasformare questi dati grezzi raccolti sul campo in conoscenze utili per la comunità scientifica. Tradurre i propri dati in concetti accademici è molto problematico. L’antropologo spesso è costretto a sacrificare storie di vita, dialoghi e lunghe descrizioni, che caratterizzano la sua ricerca, in favore di uno stile più conciso e lineare, al fine di vedere pubblicati i suoi lavori.

Del resto, sono sacrifici che secondo Boyer (2016) è necessario fare, in quanto, al giorno d’oggi pubblicare articoli accademici è di fondamentale importanza per la “sopravvivenza professionale” di un antropologo. Quando si dice: “publish or perish”!

Secondo Remotti, come riportato in un’intervista rilasciata a Francesco Vietti, la scrittura struttura la vita sul campo. Durante le fasi di osservazione, lo scrivere non deve essere motivo di distacco, ma di coinvolgimento con i presenti. Quando la scrittura diventa un momento intimo, la riflessione privata si trasforma in una circostanza in cui “si tirano fuori dal magma emotivo gli snodi concettuali”, sostiene Remotti. La scrittura, rispetto al pensiero, è unidirezionale e ci aiuta a creare un filo conduttore tra i nostri pensieri e a collegarli con le osservazioni etnografiche e i testi di altri autori.

L’antropologo può anche scegliere di diffondere le proprie conoscenze oltre l’ambito scientifico, come scrive Wulff (2016). Per Helena Wulff, pubblicare articoli su giornali non accademici è stato un modo per rendere le proprie ricerche di facile accesso e in questo modo ricambiare le persone che le hanno permesso di fare etnografia.
Anche secondo Aime, intervistato da Francesco Vietti, la divulgazione non è banalizzazione, ma significa tradurre il dibattito accademico in qualcosa di leggibile.

In ogni caso, lo scrivere, che sia sul diario o che sia per contesti accademici e non, comporta la nascita di una relazione sia con se stessi che con l’Altro. Scrivere non è una attività solitaria. Quando si scrive bisogna pensare al lettore, come afferma Viazzo in una intervista rilasciata a Francesco Vietti. Ogni volta che si scrive ci si deve domandare: per chi scrivo?

Bibliografia 

Boyer D., 2016, "The Necessity of Being a Writer in Anthropology Today", in Wulff H., 2016, The Anthropologist as a Writer. Genres and Contexts in the Twenty-First Century, Berghahn, New York.
Clifford J., Marcus G. E., 1986, Writing Culture: The Poetics and Politics of Ethnography, University of California Press.
Fabietti U., 2012, Antropologia culturale. L’esperienza e l’interpretazione, Editori Laterza, Lecce.
Fabietti U., Matera V., 1997, Etnografia: Scritture e rappresentazioni dell’antropologia, Carrocci, Roma.
Wulff H., 2016, The Anthropologist as a Writer. Genres and Contexts in the Twenty-First Century, Berghahn, New York.

mercoledì 2 maggio 2018

Percorsi di studio, ricerca e formazione post-laurea

DACSdiaries ospita qui di seguito il primo post a cura degli studenti del Corso di laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche dell'Università di Milano Bicocca. Ne sono autori: Paolo Molteni, Serena Saligari e Giulia Canzi, che ringraziamo!

Lo scorso 18 aprile si è tenuto presso l’Università degli studi di Milano-Bicocca un incontro sui percorsi di studio, ricerca e formazione post-laurea rivolto a noi studenti della magistrale e organizzato in collaborazione col DACS – Dottorato di Antropologia Culturale e Sociale della Bicocca. Le tematiche affrontate in questo appuntamento possono essere riassunte in tre aree principali: il dottorato di antropologia e il modo in cui ci si deve preparare per affrontare il passaggio dalla magistrale a questo percorso di studio; la stesura di un articolo scientifico e il processo di selezione attuato dalle redazioni di riviste del settore; l'antropologia e il mondo del lavoro, concentrandosi sui risvolti pratici dell’antropologia applicata. 

Il primo punto è stato sviluppato grazie all'intervento della professoressa Alice Bellagamba; il secondo è stato invece discusso dalla professoressa Alessandra Brivio, che è anche redattrice della rivista scientifica Antropologia; il terzo tema è stato trattato da Marco Traversari, responsabile del Laboratorio Antropologia e mondo del lavoro e dell’ufficio Politiche Attive. Ad essi si sono aggiunti gli interventi del professor Ivan Bargna, del tutor del DACS Francesco Vietti e di alcuni tra i dottorandi.
Risultati immagini per transport en commun senegalL'intervento di Alice Bellagamba si è aperto con la presentazione del numero di dottorandi che vengono accettati ogni anno: statisticamente, i posti riservati agli studenti di antropologia nelle più importanti sedi universitarie italiane sono tra gli 8 e i 10. A questi posti se ne aggiungono altri riservati a persone provenienti dal mondo del lavoro che, in accordo con i propri datori e tramite finanziamenti privati, hanno deciso di proseguire la propria formazione con un dottorato. Successivamente, è stato presentato un utile riassunto delle competenze necessarie per poter accedere al dottorato, con una divisione tra competenze base (conoscenza della lingua inglese e/o di altre lingue straniere e una buona conoscenza della tecnologia), competenze specifiche (relative alla storia dell’ antropologia e alla capacità di stendere bibliografie tematiche) e, ultimo ma non ultimo, doti personali (quali l'autodisciplina, la motivazione, il desiderio di stare sul campo, il saper stare da soli, etc). Come è emerso dall’esperienza personale dei dottorandi che sono intervenuti successivamente, centrali per ottenere queste competenze sono le esperienze effettuate prima di accedere al dottorato: corsi di perfezionamento, esperienze nel mondo del lavoro, master non sono pensati come meri riempitivi del curriculum studiorum, ma come percorsi atti a fornire le competenze necessarie a muoversi verso il dottorato.

Risultati immagini per strade kleeAlessandra Brivio ha iniziato il suo discorso con una breve presentazione di come si debba scrivere un articolo scientifico, sottolineando l’importanza di una domanda di ricerca precisa cui si vuole rispondere e ricordando che per certi aspetti la stesura di un articolo può essere più difficile rispetto a quella di una tesi di dottorato, causa tempi più ristretti e necessità di sintesi.
Dopo aver nominato una serie di riviste antropologiche catalogate in Italia come "riviste A" - tra  cui Antropologia, ANUAC, Lares, Antropologia Museale, Archivio Antropologico Mediterraneo e DADA -  sono state spiegate le dinamiche attraverso cui viene valutato se un articolo è pubblicabile oppure no: dopo una prima selezione da parte della redazione della rivista, il testo viene inviato a due revisori esterni specializzati sul tema che devono dare un giudizio autonomo e suggerire eventuali correzioni. Qui emerge la centralità della negoziazione, con un ruolo di labor limae utile ad accordare il proprio discorso con gli interessi dell'accademia. Tale lavoro, tuttavia, è lungo e può passare molto tempo prima che un articolo venga pubblicato. Pertanto, per poter effettuare un primo confronto con altri antropologi, può essere utile partecipare a conferenze e incontri, in cui esporre la propria tesi e i propri ambiti di ricerca al fine rielaborarli e ridiscuterli. La professoressa Brivio ci ha consigliato di iniziare a cimentarci con la scrittura di recensioni di libri, articoli e altri lavori antropologici prima di passare all’esposizione delle nostre idee e di provare a proporsi, almeno per i primi tempi, a riviste non di prima classe. Da quest'ultimo suggerimento è emerso come, in passato, la facoltà magistrale avesse una rivista di antropologia gestita dagli studenti. Questo ricordo è stato anche un momento di critica verso noi studenti, tacciati di essere poco comunitari e molto individualisti: le attività svolte grazie alla rappresentanza studentesca, oggi più che mai, vengono poco prese come opportunità. 

Infine, l’intervento del professor Traversari era volto a presentare l’Ufficio per le Politiche Attive, che si occupa di fornire agli studenti un supporto sia didattico che personale per lo sviluppo dei propri interessi e delle proprie attitudini. L’ufficio è aperto il giovedì dalle 15.30 alle 17.30 e si propone di dare consigli mirati riguardo la stesura della tesi, gli ambiti di ricerca, la ricerca di lavoro in ambito antropologico, i percorsi di studio post laurea. 
Il laboratorio da lui tenuto, Antropologia e mondo del lavoro, che può essere scelto dagli studenti del 2° anno per l’acquisizione dei crediti Altre conoscenze, cerca di presentare alcuni campi di applicazione dell’Antropologia alternativi alla ricerca accademica, tra cui il mondo dell’insegnamento, del marketing, dell’educazione.

sabato 28 aprile 2018

Traiettorie e snodi esistenziali. L’espressione del vissuto quale chiave di comprensione antropologica

Le attività di selezione, raccolta ed elaborazione dei dati rappresentano il fulcro della ricerca etnografica. Reperire le informazioni significa attingere, a seconda della domanda di ricerca, ad un vasto ed eterogeneo patrimonio di fonti (scritte, orali, materiali, ecc.), tra queste spiccano le storie di vita dalle quali viene generalmente estrapolata una mole considerevole di elementi. Queste narrazioni risentono tuttavia di un processo di “nebulizzazione” all'interno del testo, una dispersione che tende a lasciare inesplorato un aspetto cruciale per la comprensione: la restituzione della traiettoria esistenziale. In che modo è possibile restituire la complessità di una storia orale? Siamo in grado di padroneggiare una scrittura attenta alle forme della partecipazione e all’analisi dei dati e capace, allo stesso tempo, di generare personaggi all’interno di una narrazione ricostruita?

È sulla base di queste riflessioni che, mercoledì 11 aprile 2018, la Prof.ssa Silvia Vignato ha introdotto il seminario dal titolo "Biografie e contesto: come lavorare sulle traiettorie esistenziali in etnografia", un approfondimento sul tema delle autonarrazioni volto a far emergere i limiti e le potenzialità di questo insostituibile e sfaccettato strumento di ricerca.

L’iperdiffusione e la pervasività delle storie di vita costituisce un fatto indiscutibile della società contemporanea che si alimenta senza sosta di “frammenti autobiografici” (Cuturi 2012). Una sovraesposizione mediatica delle soggettività che si accompagna da alcuni decenni a una proliferazione di “archivi della memoria” – quali la Banca della memoria del progetto Memoro, l’Archivio delle Memorie Migranti (AMM) e molti altri – in cui la valorizzazione del ricordo si stringe alla necessità di rendere il passato partecipe alla costruzione del presente. La moltiplicazione di questi sistemi di archiviazione suscita necessariamente una serie di domande in chi si occupa di percorsi esistenziali, ad esempio, chi consulta questi archivi? Che valore hanno? Chi incrocia le biografie con il dato contestuale? Emerge una codificazione di tipo ideologico della memoria depositata? Domande che permettono di comprendere come, estrapolate dallo schema di archiviazione, le storie orali possano trasformarsi in antropologia.

Le autonarrazioni costituiscono per l’antropologo una preziosa chiave d’accesso al terreno di indagine – aprendo un varco immediato nel vissuto interiorizzato dei propri interlocutori – nonostante ciò le storie di vita restano, paradossalmente, un genere poco considerato in antropologia. Questa reticenza nei confronti delle autonarrazioni è legata ad una serie di limiti teorici e pratici: se da un lato permane la tendenza a privilegiare l’attendibilità delle fonti scritte, dall’altro esistono una serie di variabili connesse ad esempio alla scelta degli interlocutori; alla loro disponibilità a confidarsi attraverso un racconto spontaneo (particolarmente difficile nei contesti permeati da illegalità e sfruttamento); al senso di intrusione e/o di vergogna nell’affidare la propria storia ad un estraneo; ai problemi etici rispetto ad alcuni temi ritenuti sensibili; ecc.

Privilegiando il concetto di traiettorie biografiche rispetto alle “storie di vita”, Silvia Vignato ha intenzionalmente posto l’accento sulla dimensione processuale dell’esistenza, nonché sulla pluralità delle sue interpretazioni: il racconto che un individuo produce rispetto al proprio passato tende non solo a variare a seconda del destinatario, ma continua a essere rielaborato e risignificato alla luce del presente, assumendo valenze diverse nel processo di restituzione.

La narrazione autobiografica, oltre a rappresentare un bacino formidabile di informazioni, consente al ricercatore di riorganizzare il sapere elaborato su un determinato campo – composto spesso da elementi eterogenei e slegati fra loro – innestandolo su di uno schema di vita che, oltre a dettare il tempo, scandisce eventi, relazioni, rappresentazioni e reinterpretazioni del sé.
«Stili narrativi differenti, se presenti, occultano anche fatti diversi» (Vignato): ogni soggetto ha una narrazione di sé che varia a seconda delle fasi della vita, della condizione socio-economica, degli interlocutori e/o del dispositivo a cui affida la propria memoria, ecc. Una variabilità che favorisce la continua rivalutazione del dato esistenziale.

Chi si racconta può dunque fare affidamento su una serie di schemi narrativi del sé capaci di far emergere o di celare particolari aspetti. Cogliere tali schemi costituisce evidentemente un’operazione complessa che richiede una particolare combinazione di sensibilità e strategia. In primo luogo, Vignato consiglia di lavorare sulla diacronia, ovvero su ciò che la gente dice sulla “storia dell’altro ieri”. È indispensabile scovare le cosiddette “zone d’ombra”, affinando la capacità di cogliere il non detto: una persona non è mai come appare, tuttavia la sua storia costituisce sempre un tracciato utile per incrociare e vagliare altri dati e quindi saggiare altri livelli di realtà.

Il pettegolezzo si conferma, come da tradizione, un ottimo metodo per ottenere una microrestituzione circa la validità dei dati raccolti  (Gluckman 1983). Vignato suggerisce inoltre di “andare a caccia” di quelli che chiama gli operatori cognitivi, ovvero gli snodi vitali (eventi, traumi, scelte decisive, ecc.) che hanno sollecitato una metamorfosi esistenziale e la riformulazione de sé.
Scandire il racconto attraverso il filtro dei fattori determinanti è un’operazione decisiva del processo di narrazione a specchio, rappresentando un momento cardine per l’appropriazione cognitiva della propria esperienza di vita e, di conseguenza, per la reinterpretazione del sé.
Occorre al tempo stesso lavorare sulla percezione, imparando a cogliere il riverbero – o l’eco – che un microevento produce e che influenza non soltanto gli attori direttamente coinvolti ma si diffonde, in maniera concentrica, all’intero spazio sociale.

Il crescente interesse nei confronti dell’autonarrazione risulta storicamente connesso allo sviluppo dei Postcolonial Studies a partire dai quali, complice lo stile narrativo di stampo letterario, gli antropologi hanno cominciato a rispondere alla necessità degli interlocutori di “parlare di sé, per sé”: in tal senso, l’autobiografia viene intesa come una fonte preziosa capace di dar voce alla storia dei dominati, degli oppressi (Clemente 2010). L’antropologo è dunque un narratore (Geertz 1973; 1988) che costruisce un racconto sulla base delle traiettorie biografiche a cui ha accesso. 
Ma chi lo autorizza a parlare per gli altri?
Il problema etico della costruzione del “racconto degli altri” rappresenta una questione a lungo dibattuta in antropologia che trova una parziale risoluzione, al di là del più noto sistema del consenso informato, attraverso l’attivismo, espresso da Vignato come “l’asservimento dell’antropologo alle storie degli altri”, che nobilita la sua ricerca e lo autorizza a scrivere per chi non ha possibilità di far sentire la propria voce e la propria sofferenza.

Riferimenti bibliografici:

Caughey J. (1982), The Ethnography of Everyday Life: Theories and Methods for American Culture Studies, «American Quarterly», Vol. 34, No. 3, The Johns Hopkins University Press, p. 222-243.
Clemente P. (2010), L’antropologo che intervista. Le storie della vita, in Pistacchi M. (a cura di) Vive voci. L’intervista come fonte di documentazione, Donzelli, Roma. 
Clifford J., Marcus G.E. (1986), Writing Culture: The Poetics and Politics of Ethnography, University of California Press.
Crapanzano, V. (1980), Tuhami: Portrait of a Moroccan, University of Chicago Press.
Cuturi F. (2012), Storie di vita e soggettività sotto assedio, «Antropologia», No. 14, p. 29-70. 
Das V. (2015), Affiction. Health, Disease, Poverty, Fordham University Press, New York.
Geertz C. (1973), Interpretation of cultures, Basic Book.
Geertz C. (1988), Works and lives: the Anthropologist as Author, Polity Press.
Gluckman M. (1963), Gossip and Scandal, Papers in Honor of Melville J. Herskovits, «Current Anthropology», Vol 4, No. 3, p. 307-316.
Jackson M. (2002), The Politics of Storytelling: Violence, Transgression, and Intersubjectivity, Museum Tusculanum Press.
Robbins J. (2013), Beyond the suffering subject: toward an anthropology of the good, «Journal of the Royal Anthropological Institute», Vol. 19, No. 3, p. 447-462.
Rosaldo R. (1980), Doing oral history, «Social Analysis: The International Journal of Social and Cultural Practice», No. 4, Berghahn Books, p. 89-99.
Rosaldo, R. (2004), Prefazione, in Montezemolo F., La mia storia non la tua. La costruzione dell’identità chicana tra etero e auto rappresentazioni, Milano, Guerini Studio, p. 7-25.
Vansina J. (1985), Oral tradition as History, University of Wisconsin Press.

martedì 3 aprile 2018

Fischia il Vento

Seminario DACS a cura di Enrico Squarcina e Mauro Van Aken.

“Il Vento è invisibile… ciò lo pone immediatamente in una categoria di cui fanno parte Amore, Odio, Politica che troviamo difficili da spiegare e difficili da ignorare" (Frazer, James, Il Ramo d’Oro, 1890).

Dal punto di vista atmosferico il vento si crea in virtù di uno spostamento di una massa d’aria da zone d'alta pressione a zone di bassa pressione. Il motore di tutto quanto è il sole, cioè il riscaldamento della terra che crea una serie di cellule convettive (più o meno costanti): nella fascia equatoriale assistiamo ad un innalzamento di aria riscaldata che crea un vuoto capace di attirare aria fredda proveniente da altre zone terrestri. A livello dell’Equatore, nella sua fase ascendente l’aria calda subisce un processo di raffreddamento che, nella sua fase discendente va creando i venti Alisei.

A livello dei tropici, questo sistema di cellule convettive forma i cosiddetti venti Occidentali. La discesa dei venti non segue una traiettoria perfetta in virtù dell’effetto Coriolis, per il quale, in virtù della rotazione terrestre, assistiamo ad una deviazione di questi verso destra. All’interno di questo ampio sistema sono presenti sistemi ventosi locali che vanno a modificare la situazione di ogni località: durante il giorno assistiamo ad un moto convettivo delle masse d’aria calda dalla terra (maggiormente riscaldata dal sole) al mare, creando un vuoto che viene riempito da aria fresca proveniente dalle masse d’acqua formando le cosiddette brezze.
I sistemi ventosi macro e i sistemi locali agiscono in combinata, creando particolari zone d’azione.

Vi starete chiedendo: e quindi? Siamo ad un corso dell’Aeronautica? Niente affatto, nei seminari DACS il filo conduttore è l’interdisciplinarietà e per questo motivo un cappello introduttivo risulta necessario al lettore per cercare di inquadrare il fenomeno vento a partire dalla sua formazione geofisica, per poi scandagliarne le molteplici declinazioni che questo assume sul versante umano e socio-culturale.

Per chi vive a contatto con ambienti poco antropizzati, la presenza del vento assume caratteristiche importanti nella conduzione delle attività quotidiane: può facilitarne lo sviluppo, può ostacolarne lo svolgimento, arrivando in alcuni casi ad annullare le concettuali costruzioni di tempo e spazio cui siamo soliti pensare. Ciò lo possiamo notare durante le mareggiate o le burrasche, dove i naviganti del XXI secolo si trovano ad affrontare le medesime condizioni che Magellano affrontò cinquecento anni orsono.

Uscita metro Bonola, Milano. Artista: Ivan Tresoldi
I venti inoltre subiscono un processo di antropizzazione e appropriazione simbolica, delimitando degli spazi, costruendo regioni che, pur basandosi su elementi fisici, divengono regioni culturali: una delle più famose e conosciute, soprattutto da chi va per mare, è la regione degli Alisei, una regione dominata da un particolare regime di venti che richiama ad una serie di attenzioni, precauzioni e prescrizioni per coloro che l’attraversano. Secondo Angelo Turco, geografo politico e studioso dell’epistemologie post-kuhniane (Presidente della Fondazione Università IULM n.d.a.), i processi di appropriazione di uno spazio da parte di una (o più) comunità umane avviene attraverso tre processi: la denominazione, la reificazione (trasformando lo spazio a seconda delle nostre esigenze) e la delimitazione. Iniziare quindi col denominare uno spazio, diviene il primo passo per un’appropriazione simbolica (e non) di una regione “naturale” caratterizzata come nel caso in questione dalla presenza di correnti ventose. Nella storia della navigazione a vela, alcune tipologie di venti hanno subito un processo di appropriazione simbolica davvero esemplare. È il caso dei Quaranta Ruggenti e dei Cinquanta Ululanti che spirano rispettivamente tra i 40° e i 50° e tra i 50° e i 60° di latitudine sud: dal XVIII secolo iniziò a diffondersi la consuetudine tra i marinai, di portare un orecchino - sulla destra o sulla sinistra a seconda della traiettoria seguita - come segno distintivo per aver affrontato questi temibili venti polari ed aver portato a termine la navigazione dall’Europa all’Australia (o viceversa).

Un altro esempio di regione culturale plasmata dal vento è la regione monsonica, dove l’arrivo del vento Monsone (dall’arabo Mawsim che significa stagione; nei contesti aridi indica l’arrivo della stagione delle piogge) coincide con il repentino cambio di stagione e di conseguenza con un deciso cambio di rotta per quanto riguarda lo svolgimento di tutte le attività antropiche.
La Bora, caratterizzazione della zona settentrionale dell’Adriatico, il Lavagnino della costa ligure così come il Maestrale, vento che spira nella regione occidentale del Mediterraneo sono correnti ventose che temprano, forgiano e contribuiscono a modificare le conoscenze delle regioni antropomorfiche a noi assai famigliari. Importante per la caratterizzazione di una regione è anche l’assenza di vento: la zona di convergenza intertropicale (ZCIT) chiamata Pot-Au-Noir è infatti uno spazio in cui i flussi degli Alisei creano una totale assenza di correnti che portano alla formazione di temporali molto violenti e alla presenza di temperature in generale decisamente elevate per tutto l’arco della giornata.

Dal punto di vista antropologico Van Aken mette in luce come le culture costruiscono forme di simbolizzazione e di ambientamento producendo saperi sull’atmosfera, flussi venti e su tutto ciò ad esso connesso come piogge, aridità, ritmi agricoli, commerciali, riti e religioni (l’immaterialità dell’aria infatti è stata spesso legata alla sfera del trascendente). Saperi agricoli, cosmologia e teologia sono state e sono legate a predizioni degli agenti atmosferici, dove le culture hanno connesso, facendo proprie, caratteristiche terrestri con conoscenze “aeree”, la cui peculiarità è la mutevolezza continua e costante.

Seguendo il filone di studi che vede come capofila Tim Ingold, è importante sottolineare come il Vento ha avuto nella storia delle società, un’importanza fondativa nel sistema dei Miti; vento che proviene dall’alto, incontrollabile, soffio di vita o di rapitore di anime (dal greco ànemos, vento).

In termini culturali siamo avvolti, avviluppati in “mondi atmosferici” a tal punto che da sempre le società cercano di rendere familiare le forme atmosferiche che perturbano il proprio quotidiano, attraverso linguaggi e forme di simbolizzazione strettamente locali.Le culture sono quindi “temprate” dall’essere nel tempo, sono “acclimatate” ma possono per questo anche disimparare a stare nel tempo, perdendo la connessione e la consapevolezza di essere in parte modificate da esso. Un esempio di questa disconnessione lo troviamo nella vita urbana, dove l’artificialità, la costruzione di climi indoor, spesso manifesta una rottura con la percezione del tempo atmosferico in cui nonostante tutto siamo immersi. Ripensare la classica dicotomia natura-cultura, vedendo l’uomo non solo come forgiatore di un ambiente culturale ma importante fattore di mutamento del contesto naturale che abita, diventa cruciale per approcciarsi in maniera critica e non mistificante al concetto di antropocene. Riportando la propria esperienza etnografica tra i rifugiati palestinesi in Cisgiordania, Van Aken pone in primo piano le pratiche ed i saperi “trapiantati” dai rifugiati nei territori d’accoglienza. Nella nuova situazione geografica, con caratteristiche decisamente differenti da quella che hanno lasciato, imbricati in un nuovo modello di agro-business in cui sono inseriti, essi ripropongono le stesse costruzioni culturali con cui il tempo atmosferico veniva “gestito” nei territori ora colonizzati, attraverso un calendario meteorologico tramandato di generazione in generazione che orienta in maniera precisa e puntuale le pratiche agricole in ambiente caratterizzato da forte scarsità d’acqua.

Vengono quindi messe in campo delle tecniche, basate sulla conoscenza della “propria aria” che i rifugiati hanno portato con sé dopo la migrazione forzata del ’48, mirate ad organizzare il lavoro (e quindi l’approvvigionamento di cibo) in relazione a meccanismi atmosferici che hanno profondi livelli di incertezza. Un sapere atmosferico che ricopre un ruolo cruciale nella società in quanto regolatore oltre che del tempo (cronologico), diventa strumento di misura dei rapporti politici ed economici interni alla stessa. Vento e animali “sentinella” sono i protagonisti del calendario* che organizza la stagione piovosa dopo i lunghi mesi di aridità, per questo motivo ha un’importante valenza per la collettività in quanto strumento per l’ottimizzazione della predisposizione delle sementi e dei tempi di raccolta.

La caratteristica più rilevante che occorre qui ribadire è la capacità delle culture di orientarsi alla mutevolezza, non tanto cercando di dare previsioni ma, in relazione all’imponderabilità del vento, mettere in campo pratiche che devono essere flessibili alla mutevolezza dei processi atmosferici in cui sono avviluppate, con l’obbiettivo di potersi sostenere e quindi mantenere.

In conclusione merita un approfondimento il rapporto, sottolineato da Squarcina tra politica, arte della guerra e correnti, con l’accento su quelle che sono state le narrazioni che sono seguite a fatti che hanno come protagonista immanente il vento. Alcuni esempi di queste grandi narrazioni si ritrovano nella Battaglia di Salamina (480 a.C.), dove i greci comprendono l’importanza dello spazio e del tempo come strategia da “sfruttare” in guerra, durante l’invasione mongola del Giappone ad opera di Kublai Khan (1281 d.C.), respinta ed annientata per via di un “vento divino” sulle coste giapponesi e ancora nel caso del tentativo di invadere l’Inghilterra da parte dell’invincibile Armata di Filippo II, rovinosamente dissoltasi per via di terribili tempeste nello Stretto della Manica e a nord delle coste scozzesi. Anche in questo caso la causa delle sconfitte sono attribuite non ai nemici, ma legate direttamente alla potenza divina che in un caso “affonda” le ammiraglie spagnole cattoliche, così come è in virtù della superiorità della religione anglicana che l’Inghilterra esce vincitrice da questo scontro.

Conclude Squarcina riportando l’enfasi del discorso sulla simbolizzazione che molte società fanno del vento, ponendo in risalto come spesso questo venga associato all’idea di riproduzione e di fertilità e, soprattutto per quanto riguarda il regno vegetale, il vento sia a tutti gli effetti uno dei principali motori dell’azione riproduttiva (insieme agli insetti) delle specie attraverso la diffusione del polline e la distribuzione dei semi, ribadendo ancora una volta la potenza e l’energia di un fenomeno tanto sfuggente quanto penetrante nelle  nostra quotidianità, al punto di plasmarne silenziosamente i ritmi, i linguaggi, i cibi e le tradizioni.

* Calendario di 90 giorni, suddiviso in 12 giorni e mezzo a partire dall’inizio della stagione piovosa.