I cambiamenti climatici sono sempre esistiti - ci dice Mauro Van Aken durante il seminario DACS del 15 febbraio - ma quello che sta accadendo adesso è un'accelerazione nuova, da cambiamento epocale, un'intensificazione in tempi brevissimi, che amplifica drammaticamente le dinamiche di crisi ambientale, rendendole qualcosa di spaventoso e angosciante, e accentuando forme di marginalità e conflitto sociale. In un'epoca di sconvolgimenti climatici senza precedenti, l'uomo si riscopre potenza naturale e riscopre il proprio ruolo attivo nel cambiamento dei sistemi ambientali, in quanto produttore della maggior parte dei gas serra che inquinano l'atmosfera e causano il surriscaldamento globale, ma allo stesso tempo riscopre di non essere padrone della natura, che gli riesplode attorno con tutta la sua energia.
Dichiarando finita l'Olocene, l'era geologica iniziata alla fine dell'ultima glaciazione, 11.500 anni fa, e ufficialmente ancora in corso, nel 2000 il premio Nobel per la chimica Paul Jozef Crutzen afferma che siamo entrati in una nuova epoca geologica, che propone di chiamare Antropocene, "in cui gli esseri umani agiscono tutto ad un tratto come forza nel determinare il clima dell'intero pianeta". Si tratta di una definizione geologica, non ancora autorizzata, ma basata su una serie di tracce empiriche, considerazioni stratigrafiche, riscontri geofisici.
L'Antropocene rappresenta una vera faglia epocale, una faglia geologica e culturale, caratterizzata dal massiccio impatto delle attività sociali ed economiche umane sul pianeta, in cui il ruolo dell'uomo come forza geologica ne fa il principale autore delle trasformazioni ambientali e climatiche. Si tratta di trasformazioni che sfuggono al controllo dell'uomo e causano angoscia, di cambiamenti dalle conseguenze drammatiche, soprattutto per quelle popolazioni già particolarmente vulnerabili e marginalizzate dai processi di globalizzazione capitalistica, che vivono in aree ad alto rischio e le cui economie dipendono da risorse estremamente sensibili al clima, come scrive Susan Crate, raccontando dei Sakha della Siberia nord-orientale.
"The very idea of the Anthropocene places the 'human agency' smack in the center of attention", dice Bruno Latour. Ma soprattutto, continua il sociologo, "to claim that human agency has become the main geological force shaping the face of the earth, is to immediately raise the question of 'responsability'". Infatti, riconoscere, anche se con molto ritardo, la natura antropica delle emissioni dei gas serra che hanno causato e stanno causando sempre più rapidi cambiamenti climatici, disastri ambientali e catastrofi naturali pone l'uomo di fronte alle proprie responsabilità.
Ma di quale anthropos stiamo parlando? Quali idee di umano entrano in gioco? Da un lato, come già accennato, l'Antropocene ridefinisce il ruolo dell'umano, che si scopre potenza naturale, ma che allo stesso tempo si rende conto di non essere "padrone dell'ambiente". Dall'altro, come scrive Latour e come vedremo più avanti, "the 'anthropos' of the Anthropocene is not exactly any body, it is made of highly localised networks of some individual bodies whose responsability is staggering".
In quest'epoca di cambiamenti climatici sempre più veloci, che mettono in discussione l'antropocentrismo, con le sue idee di dominio, progresso e sviluppo, e che definiscono il futuro sempre più in termini di crisi e incertezze, emerge la necessità di un cambio di paradigma nel modo di pensare - o meglio di non pensare - la relazionalità ambientale, la necessità di rileggere la storia e l'attualità tirando fuori quello che è stato rimosso, ovvero le relazioni socio-naturali.
I cambiamenti climatici, come scrive Amitav Ghosh nel suo libro intitolato "The Great Derangement: Climate Change and the Unthinkable", sono qualcosa di impensabile. Richiamano idee di fine del mondo, di rischio, di emergenza, ci spaventano e ci privano delle nostre certezze, perché mettono in crisi quella visione della realtà basata sull'alterità natura/cultura, sulla distinzione tra saperi della natura e saperi dell'uomo, che è il fondamento del nostro "senso comune moderno", della nostra cosmologia. La dicotomia tra cultura e natura, prerequisito dell'ideologia del dominio sulla natura e quindi della modernità, intesa come liberazione dell'uomo dalla natura, nega il nostro coinvolgimento con il mondo e quel complesso sistema di interazioni con soggetti non-umani in cui siamo invischiati. Proprio questa dicotomia, ontologica ed epistemologica, che ha costruito la cultura come qualcosa di opposto alla natura, che ha reso passivo tutto ciò che compone la vita ambientale, che ha portato a un totale diniego della soggettività degli attori ambientali, ci impedisce oggi di leggere e comprendere quei cambiamenti ambientali così interrelati con il nostro "capitalismo del carbonio". Avendo ridotto al silenzio l'ambiente, avendo oggettivato la natura, mettendola a distanza dalla cultura e rendendola qualcosa di estraneo e distinto dall'uomo, anzi qualcosa a disposizione dell'uomo, che egli può controllare e sfruttare, non siamo in grado di leggere la relazionalità tra sistemi sociali ed ecologici, quindi la dimensione di interdipendenza, di responsabilità, di moralità.
Ecco quindi che i cambiamenti climatici emergono come qualcosa di sconvolgente, di inspiegabile, qualcosa che ci disturba emotivamente, che ci angoscia e spaventa, perché ci rendiamo conto tutto ad un tratto che l'ambiente è vivo, agisce e reagisce, che non è controllabile, manipolabile, domabile. Anzi, come scrive Michel Serres nel suo libro "Tempo di crisi", torna a farci paura, "perché diventato soggetto ci cade sulla testa".
Si tratta allora di andare al di là del "naturalismo" e di svelare quei processi di negazione, rimozione e diniego che sono forme di difesa sociale, di ricollocare la cultura nell'ambiente e di ripensare l'umano nella sua relazionalità ambientale. Del resto, come l'antropologia ha sempre mostrato e come fa notare Marshall Sahlins "il modo in cui l'Occidente moderno rappresenta la natura è la cosa meno condivisa al mondo. In molte regioni del pianeta, gli umani e i non umani non si sviluppano in modi incommensurabili secondo principi distinti".
Tutto questo, afferma lo storico Dipesh Chakrabarty, implica il riconoscimento del fatto che gli uomini sono ora parte della storia naturale del pianeta.
La questione climatica è una questione culturale, che ha a che fare con quegli immaginari che oggi sono molto "carbonici", ci dice Van Aken, ed è una questione altamente politicizzata, perché mette in crisi gli attuali modelli di consumo del capitalismo moderno. Rendersi conto del ruolo che l'uomo ha nei cambiamenti ambientali in corso è qualcosa di profondamente destabilizzante, ma allo stesso tempo può essere qualcosa di potenzialmente creativo, nel momento in cui ci spinge a mettere in discussione quel modello di "sviluppo e progresso" che genera continuamente desideri di consumo, che sono alla base dei modelli di sfruttamento e di produzione dell'economia del carbonio.
Ripartendo dalla relazionalità, dal proprio coinvolgimento in sistemi ambientali complessi, abbiamo l'opportunità di far riemergere ciò che rimane nascosto, in "un'organizzazione sociale del diniego", quindi di riconoscere le pratiche consumistiche innanzitutto come pratiche ecologiche (non ecologiste!), che hanno un impatto sull'ambiente e sull'atmosfera, e quindi ancora di pensare a possibili trasformazioni. Come scrive Crate, "the global climate change [...] is caused by the multiple drivers of Western consumer culture, it transforms symbolic and subsistence cultures, and it will only be forestalled via a cultural transformation from degenerative to regenerative consumer behavior. Accordingly, anthropologists are strategicall well-placed to interpret, facilitate, translate, communicate, advocate, and act both in the field and at home in response to the cultural implications to unprecedent climate change".