In
questi giorni mi trovo a Parigi. Sto usufruendo di un programma europeo di mobilità internazionale che permette ai dottorandi europei di condurre un
periodo del proprio percorso di ricerca all’estero. Mi trovo dunque ora all’Universitè
de Paris 8, ospite del Département de Sociologie e d’Antropologie. Vivere a
Parigi mi sta dando la possibilità di seguire diversi seminari organizzati non
solo dalla mia Università ospitante, ma anche da altri istituti universitari
locali. Il 31 Gennaio scorso ho partecipato ad un seminario organizzato dall’antropologo
Michel Agier all’interno del suo corso dottorale Anthropologie de l’hospitalité, dedicato agli studenti frequentanti
il dottorato in Anthropologie Sociale et ethnologie dell’École des Hautes Études
en Sciences Sociales. Il relatore convitato era Ferdinando Fava, antropologo e
professore dell’Università degli Studi di Padova.
Ho conosciuto il Professor Fava grazie alla lettura del suo denso e stimolante testo “Lo Zen di Palermo. Antropologia dell’Esclusione”, edito nel 2008 da FrancoAngeli. Il testo si basa su una approfondita analisi antropologica di un quartiere residenziale pubblico costruito nella periferia nord di Palermo a partire dalla fine degli anni sessanta del novecento dall’architetto Vittorio Gregotti. Lo stesso architetto che ha progettato e costruito gli edifici che oggi ospitano l’Università di Milano-Bicocca. Il caso di studio dello Zen è paradigmatico: da un lato perché rappresenta, nel senso comune, uno dei più vividi simboli del “degrado” delle periferie italiane; dall’altro lato, perché è l’esito di una concezione modernista della progettualità e della cosmologia urbanistico-architettonica nazionale. Ferdinando Fava, attraverso le narrazioni dei residenti, dei media e degli “esperti” che attraversano quello spazio sociale, invita il lettore a decostruire il dispositivo del confine e dell’esclusione e a decentrarsi rispetto alla visione egemonica che descrive questi spazi “da lontano”, attraverso categorie stigmatizzanti ed escludenti.
Questa breve presentazione del testo, che certamente non restituisce la complessità e l’articolazione della monografia in questione, ci è utile per affrontare ora il tema centrale del seminario a cui ho partecipato. L’idea di base degli incontri proposti da Agier riguarda il concetto, le pratiche e l’ideologia dell’ospitalità. L’intenzione è dunque quella di immaginare una sorta di antropologia dell’ospitalità. L’intervento di Ferdinando Fava, dal titolo "De l’incontournable hospitalité: l’enquête de terrain en aires urbaines marginales", va dunque proprio in questa direzione, focalizzandosi però principalmente sulla costruzione epistemologica del sapere antropologico e sull'inevitabilità dell'ospitalità stessa. In questo senso la narrazione proposta è di carattere riflessivo e prende piede a partire da un “ritorno interpretativo” del relatore sul proprio lavoro di campo a Palermo. L’intento è quello di esplorare, a partire dalla propria esperienza di campo, la dimensione politica della pratica quotidiana dell’ospitalità come costitutiva nel dispositivo della ricerca di campo.
Ho conosciuto il Professor Fava grazie alla lettura del suo denso e stimolante testo “Lo Zen di Palermo. Antropologia dell’Esclusione”, edito nel 2008 da FrancoAngeli. Il testo si basa su una approfondita analisi antropologica di un quartiere residenziale pubblico costruito nella periferia nord di Palermo a partire dalla fine degli anni sessanta del novecento dall’architetto Vittorio Gregotti. Lo stesso architetto che ha progettato e costruito gli edifici che oggi ospitano l’Università di Milano-Bicocca. Il caso di studio dello Zen è paradigmatico: da un lato perché rappresenta, nel senso comune, uno dei più vividi simboli del “degrado” delle periferie italiane; dall’altro lato, perché è l’esito di una concezione modernista della progettualità e della cosmologia urbanistico-architettonica nazionale. Ferdinando Fava, attraverso le narrazioni dei residenti, dei media e degli “esperti” che attraversano quello spazio sociale, invita il lettore a decostruire il dispositivo del confine e dell’esclusione e a decentrarsi rispetto alla visione egemonica che descrive questi spazi “da lontano”, attraverso categorie stigmatizzanti ed escludenti.
Questa breve presentazione del testo, che certamente non restituisce la complessità e l’articolazione della monografia in questione, ci è utile per affrontare ora il tema centrale del seminario a cui ho partecipato. L’idea di base degli incontri proposti da Agier riguarda il concetto, le pratiche e l’ideologia dell’ospitalità. L’intenzione è dunque quella di immaginare una sorta di antropologia dell’ospitalità. L’intervento di Ferdinando Fava, dal titolo "De l’incontournable hospitalité: l’enquête de terrain en aires urbaines marginales", va dunque proprio in questa direzione, focalizzandosi però principalmente sulla costruzione epistemologica del sapere antropologico e sull'inevitabilità dell'ospitalità stessa. In questo senso la narrazione proposta è di carattere riflessivo e prende piede a partire da un “ritorno interpretativo” del relatore sul proprio lavoro di campo a Palermo. L’intento è quello di esplorare, a partire dalla propria esperienza di campo, la dimensione politica della pratica quotidiana dell’ospitalità come costitutiva nel dispositivo della ricerca di campo.
Fava prende spunto da una considerazione del 1977 di JulianPitt-Rivers per stimolare la riflessione, ovvero che la legge d’ospitalità
riguarda principalmente “the problem to deal with stranger”. Se così intesa,
sostiene Fava, la questione dell’ospitalità si può affrontare secondo diverse
prospettive: principalmente, a livello giuridico o a livello sociale. Trattandosi
di un’analisi antropologica, che agisce anche in forma riflessiva sulle
politiche della ricerca etnografica, la prospettiva adeguata risulta essere quella
sociale. Come interpretare tuttavia l’antropologo che si approccia al campo?
Seppur autorizzato dal proprio status accademico o professionale, l’etnografo
quando giunge sul campo di ricerca, dovunque questo si situi, è uno straniero
e, come straniero, porta in sé, simbolicamente, un pericolo, un disordine, un carattere impuro,
come direbbe Mary Douglas. Questa percezione di estraneità, che spesso non si
limita ad essere una percezione ma diventa un dispositivo di inclusione o
esclusione nella vita degli attori sociali con cui facciamo ricerca, non è
sicuramente nuova a tutti quegli antropologi e quelle antropologhe che hanno
condotto ricerche etnografiche: qualsiasi sia il gruppo sociale di riferimento,
questa relazione risulta essere strutturante nella costruzione del campo.
In questo senso, l’antropologo diventa un “professional
stranger”, secondo la definizione di Michael Agar (1996). L’antropologo non fa
dunque parte del gruppo sociale con cui conduce ricerca e non gli è neanche
propriamente estraneo, straniero: in qualche modo costruisce la sua estraneità
professionale a partire dal suo posizionamento metodologico e epistemologico,
ovvero situandosi sulla soglia, sul limite della produzione sociale dei mondi
locali di riferimento. Non solo gioca il suo posizionamento su questa relazione
ambigua, ma diventa egli stesso relazione. È proprio questo peculiare meccanismo
che permette all’etnografo di decentrarsi e produrre una critica sociale che tenda alla decostruzione sul e del campo. Il relatore ha evidenziato tuttavia
come questo rapporto sia fragile e di difficile costruzione: per questo spesso
agli antropologi viene richiesto di passare molto tempo sul campo. L’instabilità
relazionale che si produce e di cui è prodotto rende l’etnografo una figura
mediatrice, un confine, una soglia tra mondi. Tra il mondo della
straordinarietà, a cui appartiene in quanto straniero, e il mondo dell’ordine,
a cui appartiene in quanto quotidiana e viva presenza sul campo. Fava evidenzia
come la relazione tra straordinarietà e ordine non è tuttavia logica, ma si
basa su una “differenziazione relazionale”.
In questo modo si produce uno
scarto che risulta tuttavia asimettrico e monodirezionale, perché nasce esattamente
dal rapporto che gli attori sociali di un luogo costruiscono a partire dal
proprio luogo di appartenenza. In questo senso, ogni straniero, in quanto
attinente al mondo dello straordinario, è frutto dell’ordine che vige in un
preciso luogo. Nel momento in cui lo straniero si presenta sulla soglia, allora
nasce la costruzione dell’ospitalità. È lo straniero stesso che attiva questo
dispositivo, esistente ma soggiacente, ponendosi sul limite. Nel nostro caso, l’antropologo
non solo si pone sulla soglia, ma trasgredisce questa frontiera, situandosi
contemporaneamente dentro e fuori dal campo. Facendosi dunque portatore della soglia stessa, diventando
figura mediatrice e dialettica tra il dentro e il fuori. E in questo spazio
mobile l’antropologo deve prendere coscientemente posizione, costituendosi come
figura mediatrice non isomorfa all’ordine di riferimento, ma costruendo uno “spazio
proprio”, secondo la definizione di Michel de Certeau. Per fare ciò Fava
suggerisce che l’antropologia dovrebbe porsi
principalmente come un sapere dell’ascolto più che della parola, una sapere del
dire, più che del detto. E l’ascolto non si deve limitare alle parole, ma deve
raffinarsi tanto da riuscire a comprendere le interazioni, le relazioni e legami che ci circondano.
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