Questo articolo è scritto a quattro mani, frutto dell'incontro intellettuale tra me e Giovanna Santanera, assegnista di ricerca in Antropologia presso l'università Bicocca.
Io e Giovanna in questi anni ci siamo trovati più volte a condividere esperienze professionali simili nell'ambito dell'accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati e a scambiarci riflessioni e stati d'animo sul nostro lavoro a cavallo tra ricerca teorica e applicazione pratica nel terzo settore.
Conoscendo l'interesse di ricerca di Giovanna per le pratiche mediatiche dei richiedenti asilo e rifugiati è nata l'idea di scrivere qualcosa su un fenomeno mediatico come Bello Figo che certo non rappresenta i rifugiati ma ne parla in alcune sue canzoni.
Che Bello Figo possa essere diventato il paladino dei “profughi” e il fumo negli occhi di fascisti vecchi e nuovi sembrerebbe una battuta. Invece il giovane artista di origini ghanesi, poco più che ventenne e cresciuto in Italia, paese in cui vive da una decina d’anni, è salito alla ribalta delle cronache nazionali dopo una serie di concerti cancellati in varie città italiane per via di tumultuosi schiamazzi di sedicenti comitati difensori dell’identità, dell’italianità contro i “profughi che se ne approfittano”, della decenza e contro il turpiloquio.
Sia chiaro: le sue canzoni sono volgari, sessiste, machiste, razziste. Sono insopportabili e provocatorie, ma fanno anche ridere. Hanno un bel ritmo, lui è un personaggio, piace alle ragazze (e non solo), fa moda. Non è uno sprovveduto e questa sovraesposizione mediatica probabilmente la cercava: sa fare il suo mestiere, sa usare gli strumenti della comunicazione.
Dalla sua comparsata in “Dalla vostra parte” (quel palcoscenico televisivo su Rete 4, dove ogni sera Belpietro parla di profughi che rubano qualcosa ai poveri italiani) e da quel bellissimo duello con Alessandra Mussolini (che non aveva altri argomenti se non “tagliati quel ciuffo” -dello stesso colore dei di lei capelli- o “vai a lavorare”), Bello Figo è tra gli obiettivi di chi è “contro l’accoglienza”. Ci è o ci fa lui? Probabilmente fa il suo mestiere e basta.
È evidente come vengano manipolate le sue canzoni che parlano con grande ironia dell’accoglienza dei richiedenti asilo e dei connessi miti che circolano. Possibile che non si noti l’ironia? Certo che si nota...ma è più utile politicamente fingere di credere che Bello Figo sia un profugo (vive in Italia da 10 anni, oggi ne ha poco più di 20, quindi non rientra nell’ondata dei neoarrivati) che spende i soldi dello stato negli alberghi a 4 stelle e aizzargli contro “quei bravi cittadini che non sono razzisti, ma che non ne possono più”!
Addirittura vietare i concerti per evitare scontri perché qualche decina di fascisti, di esaltati in carne ed ossa e centinaia di leoni da tastiera si scagliano contro di lui sui social... siamo alla follia!
Viene in mente la vicenda delle vignette satiriche sull’Islam rilanciate da Charlie Hebdo, che portarono ai tragici eventi del gennaio 2015. Tutti a stracciarsi le vesti quando la libertà di parola è minacciata dai terroristi islamici...quando però è minacciata da fascisti e leghisti nostrani (ricordiamo che un ventennio di dittatura in cui la libertà di parola era davvero negata in questo paese ce la regalarono loro! Per ora nessun musulmano ha osato tanto nel nostro paese!) contro una star di youtube nessuno dice niente. Forse perché è “un negro”, volgare e insopportabile?
Allora se valeva Je suis Charlie, dovrebbe valere anche Je suis Bello Figo.O No?
Io e Giovanna in questi anni ci siamo trovati più volte a condividere esperienze professionali simili nell'ambito dell'accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati e a scambiarci riflessioni e stati d'animo sul nostro lavoro a cavallo tra ricerca teorica e applicazione pratica nel terzo settore.
Conoscendo l'interesse di ricerca di Giovanna per le pratiche mediatiche dei richiedenti asilo e rifugiati è nata l'idea di scrivere qualcosa su un fenomeno mediatico come Bello Figo che certo non rappresenta i rifugiati ma ne parla in alcune sue canzoni.
Che Bello Figo possa essere diventato il paladino dei “profughi” e il fumo negli occhi di fascisti vecchi e nuovi sembrerebbe una battuta. Invece il giovane artista di origini ghanesi, poco più che ventenne e cresciuto in Italia, paese in cui vive da una decina d’anni, è salito alla ribalta delle cronache nazionali dopo una serie di concerti cancellati in varie città italiane per via di tumultuosi schiamazzi di sedicenti comitati difensori dell’identità, dell’italianità contro i “profughi che se ne approfittano”, della decenza e contro il turpiloquio.
Sia chiaro: le sue canzoni sono volgari, sessiste, machiste, razziste. Sono insopportabili e provocatorie, ma fanno anche ridere. Hanno un bel ritmo, lui è un personaggio, piace alle ragazze (e non solo), fa moda. Non è uno sprovveduto e questa sovraesposizione mediatica probabilmente la cercava: sa fare il suo mestiere, sa usare gli strumenti della comunicazione.
Dalla sua comparsata in “Dalla vostra parte” (quel palcoscenico televisivo su Rete 4, dove ogni sera Belpietro parla di profughi che rubano qualcosa ai poveri italiani) e da quel bellissimo duello con Alessandra Mussolini (che non aveva altri argomenti se non “tagliati quel ciuffo” -dello stesso colore dei di lei capelli- o “vai a lavorare”), Bello Figo è tra gli obiettivi di chi è “contro l’accoglienza”. Ci è o ci fa lui? Probabilmente fa il suo mestiere e basta.
È evidente come vengano manipolate le sue canzoni che parlano con grande ironia dell’accoglienza dei richiedenti asilo e dei connessi miti che circolano. Possibile che non si noti l’ironia? Certo che si nota...ma è più utile politicamente fingere di credere che Bello Figo sia un profugo (vive in Italia da 10 anni, oggi ne ha poco più di 20, quindi non rientra nell’ondata dei neoarrivati) che spende i soldi dello stato negli alberghi a 4 stelle e aizzargli contro “quei bravi cittadini che non sono razzisti, ma che non ne possono più”!
Addirittura vietare i concerti per evitare scontri perché qualche decina di fascisti, di esaltati in carne ed ossa e centinaia di leoni da tastiera si scagliano contro di lui sui social... siamo alla follia!
Viene in mente la vicenda delle vignette satiriche sull’Islam rilanciate da Charlie Hebdo, che portarono ai tragici eventi del gennaio 2015. Tutti a stracciarsi le vesti quando la libertà di parola è minacciata dai terroristi islamici...quando però è minacciata da fascisti e leghisti nostrani (ricordiamo che un ventennio di dittatura in cui la libertà di parola era davvero negata in questo paese ce la regalarono loro! Per ora nessun musulmano ha osato tanto nel nostro paese!) contro una star di youtube nessuno dice niente. Forse perché è “un negro”, volgare e insopportabile?
Allora se valeva Je suis Charlie, dovrebbe valere anche Je suis Bello Figo.O No?
Ma poi, perché Bello Figo scandalizza tanto? Non è certo l’unico “sessista”, “volgare”, “machista” della scena pubblica italiana, eppure va zittito a ogni costo. Visto che – come diceva Lévi-Strauss – gli antropologi sono gli “straccivendoli della storia” che cercano tesori frugando “nelle sue pattumiere”, abbiamo provato a “frugare” nelle canzoni di Bello Figo per vedere se c’è qualcosa oltre al trash. Ecco cosa abbiamo trovato.
Primo motivo di scandalo: le canzoni di Bello Figo negano l’illusione che esista uno stato-nazione italiano, caratterizzato da un’identità e da una lingua nazionali omogenee. Bello Figo nelle sue canzoni usa con disinvoltura un italiano “rotto”, un broken Italian, dove l’accento straniero non cerca di conformarsi a una supposta pronuncia corretta: “Non pago afito”, “Non faccio opraio”. I suoi testi parallelamente delineano un panorama intrinsecamente multiculturale, dove la quotidianità è fatta di persone che provengono da diverse parti del mondo: “Marocchino fammi un kebab, tunisino fammi un kebab, metti maionese e ketchup”; “Se non è pizza, sarà kebab” (da “Kebab”). Non ci sono identità fisse e statiche, ma mutazioni e interazioni: le “fighe bianche mangiano kebab” e i “negri” “mangiano pasta con tonno”. L’italianità scaturisce proprio dalla partecipazione a questo terreno di scambio, non è uno status legale che può essere concesso o negato, non ha a che fare con lo ius sanguinis, ma è un insieme di pratiche ed esperienze quotidiane (Lombardi-Diop e Romeo): “Sembro italiano, mangio solo pasta, se non è pasta allora sarà pizza” (da “Pasta con tonno”). Lo scandalo di questi versi rinvia al disagio di accostare l’italianità al colore “nero”, come se i due termini fossero incompatibili, mutualmente esclusivi (Romeo). Quando Alessandra Mussolini urla a Bello Figo di tornarsene nel suo paese, lui le risponde “E’ questo il mio paese”, facendo eco ai sui testi: “In Africa mangio ancora pasta” (da “Pasta con tonno”). Non c’è nessuna origine, al di là dell’Italia. E se l’omogeneità della nazione italiana è una finzione, finti sono anche i suoi confini. Il mondo (scandaloso) delineato nelle canzoni di Bello Figo è un mondo di frontiere aperte, dove gli africani rivendicano il diritto di movimento, anche solo per piacere (“A dire la verità nel mio paese non c’è nessuna guerra, volevo farmi una vacanza”, da “Referendum costituzionale”).
Secondo motivo di scandalo: Se volessimo tentare un passo oltre, le canzoni di Bello Figo “demoliscono” il concetto di cittadinanza, rendendolo irrilevante. Sebbene nel verso “Vogliamo votar” (in “Referendum costituzionale”) cogliamo un riferimento alla sua centralità, Bello Figo normalmente lo bypassa. Parla di persone che rivendicano il diritto al wifi, al cibo buono, alla casa e ai fantomatici 35 euro al giornoin nome del fatto che sono qui, niente più, niente meno. La distribuzione delle risorse delineata non è basata né sul lavoro, né sull’appartenenza alla comunità nazionale, ma su una “presenza” (Ferguson): perché gli immigrati sono qui hanno diritto a un giusto “sharing”. Non si tratta di dare un supporto minimo a una “nuda vita” (Agamben) (non a caso si invoca il wifi), ma di riconoscere soggetti sociali, dove il sociale indica una presenza concreta, attorno a noi e insieme a noi.
Terzo motivo di scandalo: la voce, l’aspetto, le movenze SWAG di Bello Figo denunciano i limiti delle rappresentazioni dei migranti che ritroviamo tanto a destra quanto a sinistra (Bello Figo risulta fastidioso quasi a tutti). Nello scimmiottare grottescamente i discorsi populisti e razzisti della destra, Bello Figo li risignifica, smascherandone la vuotezza (la mimesi, d’altro canto, è magica proprio perché dà potere su chi copia; per questo Bello Figo fa impazzire i razzisti e i populisti) (Taussig).In diversa maniera, Bello Figo scardina anche i discorsi paternalisti di sinistra, dove i migranti appaiono vittime da salvare, perché scappano da guerre. Con il suo lol-rap cancella l’eccezionalità dei migranti, mostrandoli nella loro normalità di giovani che possono essere divertenti e cool, ma anche superficiali, maschilisti e pigri, esattamente come i loro coetanei italiani. Al suo pubblico Bello Figo chiede di divertirsi: niente compassione, niente indignazione per gli immigrati, per cosa subiscono e per come sono trattati, ma selfie, balli e cori. E’ così che insieme alla rappresentazione della vittima da salvare, si scardina anche la retorica della gratitudine che “il profugo” deve continuamente dimostrare al paese d’accoglienza: “Veri negri miei amici andiamo in piazza a pisciare; veri negri miei amici andiamo a casa a votare” (da “Referendum costituzionale”). Se proprio bisogna ringraziare, lo si fa per le cinture di Louis Vuitton (“Per la mia cintura volevo ringraziare Matteo Renzi”, da “Referendum costituzionale”), non certo per il riconoscimento dei propri diritti.
Per concludere, Bello Figo è scandaloso, è vero. Si muove in bilico fra cazzeggio, volgarità, machismo e sovversione, parodia, politica. Nello scandalo c’è sempre un’occasione di riflessione, e abbiamo provato a coglierla. Detto questo, forse anche questo post apparirà scandaloso a qualcuno. La speranza rimane quella di continuare a riflettere sulle nostre categorie interpretative, per criticarle, decostruirle e ricostruirle nel tentativo di comprendere la complessità e le mille sfaccettature dell’esperienza migratoria.
Primo motivo di scandalo: le canzoni di Bello Figo negano l’illusione che esista uno stato-nazione italiano, caratterizzato da un’identità e da una lingua nazionali omogenee. Bello Figo nelle sue canzoni usa con disinvoltura un italiano “rotto”, un broken Italian, dove l’accento straniero non cerca di conformarsi a una supposta pronuncia corretta: “Non pago afito”, “Non faccio opraio”. I suoi testi parallelamente delineano un panorama intrinsecamente multiculturale, dove la quotidianità è fatta di persone che provengono da diverse parti del mondo: “Marocchino fammi un kebab, tunisino fammi un kebab, metti maionese e ketchup”; “Se non è pizza, sarà kebab” (da “Kebab”). Non ci sono identità fisse e statiche, ma mutazioni e interazioni: le “fighe bianche mangiano kebab” e i “negri” “mangiano pasta con tonno”. L’italianità scaturisce proprio dalla partecipazione a questo terreno di scambio, non è uno status legale che può essere concesso o negato, non ha a che fare con lo ius sanguinis, ma è un insieme di pratiche ed esperienze quotidiane (Lombardi-Diop e Romeo): “Sembro italiano, mangio solo pasta, se non è pasta allora sarà pizza” (da “Pasta con tonno”). Lo scandalo di questi versi rinvia al disagio di accostare l’italianità al colore “nero”, come se i due termini fossero incompatibili, mutualmente esclusivi (Romeo). Quando Alessandra Mussolini urla a Bello Figo di tornarsene nel suo paese, lui le risponde “E’ questo il mio paese”, facendo eco ai sui testi: “In Africa mangio ancora pasta” (da “Pasta con tonno”). Non c’è nessuna origine, al di là dell’Italia. E se l’omogeneità della nazione italiana è una finzione, finti sono anche i suoi confini. Il mondo (scandaloso) delineato nelle canzoni di Bello Figo è un mondo di frontiere aperte, dove gli africani rivendicano il diritto di movimento, anche solo per piacere (“A dire la verità nel mio paese non c’è nessuna guerra, volevo farmi una vacanza”, da “Referendum costituzionale”).
Secondo motivo di scandalo: Se volessimo tentare un passo oltre, le canzoni di Bello Figo “demoliscono” il concetto di cittadinanza, rendendolo irrilevante. Sebbene nel verso “Vogliamo votar” (in “Referendum costituzionale”) cogliamo un riferimento alla sua centralità, Bello Figo normalmente lo bypassa. Parla di persone che rivendicano il diritto al wifi, al cibo buono, alla casa e ai fantomatici 35 euro al giornoin nome del fatto che sono qui, niente più, niente meno. La distribuzione delle risorse delineata non è basata né sul lavoro, né sull’appartenenza alla comunità nazionale, ma su una “presenza” (Ferguson): perché gli immigrati sono qui hanno diritto a un giusto “sharing”. Non si tratta di dare un supporto minimo a una “nuda vita” (Agamben) (non a caso si invoca il wifi), ma di riconoscere soggetti sociali, dove il sociale indica una presenza concreta, attorno a noi e insieme a noi.
Terzo motivo di scandalo: la voce, l’aspetto, le movenze SWAG di Bello Figo denunciano i limiti delle rappresentazioni dei migranti che ritroviamo tanto a destra quanto a sinistra (Bello Figo risulta fastidioso quasi a tutti). Nello scimmiottare grottescamente i discorsi populisti e razzisti della destra, Bello Figo li risignifica, smascherandone la vuotezza (la mimesi, d’altro canto, è magica proprio perché dà potere su chi copia; per questo Bello Figo fa impazzire i razzisti e i populisti) (Taussig).In diversa maniera, Bello Figo scardina anche i discorsi paternalisti di sinistra, dove i migranti appaiono vittime da salvare, perché scappano da guerre. Con il suo lol-rap cancella l’eccezionalità dei migranti, mostrandoli nella loro normalità di giovani che possono essere divertenti e cool, ma anche superficiali, maschilisti e pigri, esattamente come i loro coetanei italiani. Al suo pubblico Bello Figo chiede di divertirsi: niente compassione, niente indignazione per gli immigrati, per cosa subiscono e per come sono trattati, ma selfie, balli e cori. E’ così che insieme alla rappresentazione della vittima da salvare, si scardina anche la retorica della gratitudine che “il profugo” deve continuamente dimostrare al paese d’accoglienza: “Veri negri miei amici andiamo in piazza a pisciare; veri negri miei amici andiamo a casa a votare” (da “Referendum costituzionale”). Se proprio bisogna ringraziare, lo si fa per le cinture di Louis Vuitton (“Per la mia cintura volevo ringraziare Matteo Renzi”, da “Referendum costituzionale”), non certo per il riconoscimento dei propri diritti.
Per concludere, Bello Figo è scandaloso, è vero. Si muove in bilico fra cazzeggio, volgarità, machismo e sovversione, parodia, politica. Nello scandalo c’è sempre un’occasione di riflessione, e abbiamo provato a coglierla. Detto questo, forse anche questo post apparirà scandaloso a qualcuno. La speranza rimane quella di continuare a riflettere sulle nostre categorie interpretative, per criticarle, decostruirle e ricostruirle nel tentativo di comprendere la complessità e le mille sfaccettature dell’esperienza migratoria.
https://ilquotidiario.it/2017/02/05/bello-figo-parabola-del-postcolonialismo-mediatico/ un contrappunto dialettico
RispondiEliminaMolto interessante, complimenti!
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