Alla Stazione Centrale, il giorno dopo, c’era un’atmosfera
particolare. Anche se in apparenza sembrava tutto uguale. Un’autoblindo della
polizia e tre camionette dei militari stazionavano stabilmente al centro della
piazza principale. Un gruppo misto tra polizia e militari faceva la ronda
attorno alla stazione. Tutto intorno il perimetro della piazza c’erano gruppi
di migranti sparsi in base alle zone di provenienza. Tutto come ogni giorno, in
apparenza. Quello che rendeva l’atmosfera particolare era l’effetto ottico. La piazza
centrale della stazione era pressoché vuota. Lo spazio antistante alla
stazione, quello più ampio, e passaggio principale per pendolari e viaggiatori,
era occupato unicamente da poliziotti e militari. Le parole di Matteo Salvini,
pronunciate durante la diretta Facebook del blitz, sembrano in questo senso più
che appropriate. L’intento del blitz sembra sia stato quello di “ripulire” la
piazza. Disperdere e confinare la “massa”
migrante dal centro ai margini dello spazio principale della Stazione Centrale.
Le affinità elettive tra una certa retorica politica e
l’azione istituzionale non sono di certo un fenomeno nuovo in Italia; il
decreto Minniti, appoggiato dalla stragrande maggioranza dell’arco politico
italiano, in questo senso, costituisce solo l’ultima spia di questa
sovrapposizione. Tuttavia quanto accaduto in Stazione Centrale, per certi
aspetti, rischia di inaugurare una nuova fase. Una fase che vede una saldatura
tra il discorso sulla gestione dei flussi migratori transnazionali e quello
sull’identità nazionale, dove è il territorio, la piazza, lo spazio condiviso
tra status e gruppi sociali contrapposti che diventa l’oggetto del contendere.
Il confinamento della presenza migrante in Stazione Centrale,
l’espulsione dalla piazza principale, può iscriversi in un processo di
risemantizzazione della dinamica tra visibilità e invisibilità (Carter, 2010) nella
gestione delle migrazioni forzate in Italia. Fino al 2011, difatti, tale flusso
rimaneva perlopiù distante (tanto discorsivamente, quanto spazialmente) dallo
spazio pubblico. Le sue rappresentazioni oscillavano tra
un’ipervisibilizzazione dello “sbarco” (di cui Lampedusa ha costituito il centro
simbolico e che Cuttitta (2012) ha definito come lo “spettacolo del confine”) e
un’invisibilizzazione successiva, con il confinamento dei richiedenti asilo nei
vari centri di smistamento, detenzione, controllo (CIE, CPT, CARA, etc)
predisposti a livello istituzionale. Negli ultimi anni però il rapporto tra
visibilità e invisibilità nella gestione delle migrazioni forzate ha assunto
nuove forme. Sin dal 2011, con il rilascio di permessi umanitari ai soggetti in
fuga sbarcati in Italia durante l’Emergenza Nord Africa, si è assistito a un
transito sempre più cospicuo di richiedenti asilo attraverso le frontiere
interne europee. Tale fenomeno ha paradossalmente assunto maggior vigore dal
2013, con la chiusura dello stato d’emergenza in Italia e la normalizzazione
del sistema di contenimento della mobilità migrante. Da quel momento, gli spazi
di frontiera e i punti di snodo nevralgici delle maggiori città sono andati
progressivamente configurandosi come punti di ipervisiblizzazione della
presenza migrante in Italia, entrando a far parte del dibattito pubblico sulla
gestione e il controllo delle migrazioni forzate.
Milano, e la Stazione Centrale in particolare, ha
costituito un esempio di gestione dei flussi informali attraverso un paradigma
di tipo umanitario: organizzando e coordinando l’accoglienza ai richiedenti
asilo in transito, la stessa amministrazione comunale si è attivata per fronteggiare
il ruolo di hub informale che la città ha assunto negli ultimi anni.
Quell’informalità, questa ipervisibilizzazione del
flusso migratorio, oggi è al centro del dibattito pubblico italiano. Un
dibattito che ha portato a un cambio di paradigma: alla gestione umanitaria del
flusso informale dei richiedenti asilo si è andata sovrapponendo e
istituzionalizzando una retorica securitaria. Una retorica che, agganciandosi a
un paradigma nazionalista, ha prodotto un matrimonio pericoloso.
Il blitz in Stazione Centrale costituisce la prima
concreta manifestazione di questa unione. Dalla retorica politica su
un’italianità a rischio di “contaminazione” (la sostituzione etnica invocata
dall’estrema destra) si è infatti passati a un’azione istituzionale tesa alla
difesa “dell’italianità”.
In Stazione Centrale, la formula “lo stato c’è” ha
assunto così le forme della polizia/pulizia, costituendo la “naturale” modalità attraverso cui “fronteggiare” la presenza migrante. Si inaugurano così nuovi modelli. Dalla spettacolarizzazione del confine si è passati a spettacolarizzare il contenimento e la repressione, a elogiare gli elicotteri e la polizia a cavallo che arrestano, identificano e disperdono i migranti. Il messaggio istituzionale è inequivocabile: viene contrapposta una cittadinanza attiva (Italiana) a una “massa” migrante (straniera), razzialmente connotata e percepita come strutturalmente illegittima. La piazza principale della Stazione Centrale diventa così uno “spazio vitale” da liberare, da restituire alla nazione. La rappresentazione della contrapposizione tra divisa blu e pelle nera sotto l’ombrello della gestione del fenomeno migratorio catapulta lo scenario italiano in un campo discorsivo in forte espansione in occidente. Un campo che legittima e promuove muri, repressione e chiusura delle frontiere. Il blitz, lungi dal costituire un episodio isolato, sembra poter essere l’apripista di nuove modalità attraverso cui riprodurre un’italianità sempre più schiacciata sull’isomorfismo tra cittadinanza, nazione e razza.
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