A
ciascuno di noi sarà capitato almeno una volta nella vita di giocare
a cercare volti di animali o di cose nelle bianche rotondità del
cielo, nel fogliame dei cespugli, o nei sassi; a qualcuno magari sarà
successo di intravvedere una faccina sorridente nel tombino del
marciapiede su cui camminava; altri avranno parlato al proprio
animale domestico come se si stessero rivolgendo a una persona.
Tutti
questi esempi rimandano a quella capacità della mente umana di
antropomorfizzare oggetti e animali, sia riconducendone le sembianze
a qualcosa di molto familiare e noto, sia proiettando su di essi
facoltà tipicamente umane. Nota anche come pareidolia (dal
greco εἴδωλον, "immagine" e παρά, "vicino"),
tale capacità, oltre a restituire un senso di ordine alla nostra
percezione della realtà esterna, sarebbe anche alla base dello
sviluppo delle credenze in entità fantasmatiche.
L’obiettivo
del Prof. Scarduelli in
occasione del seminario del
12 aprile era di riflettere
con noi su
quali siano le premesse
cognitive alla base delle credenze nell’esistenza di tali
entità fantasmatiche, vale
a dire di quell’insieme di
entità ascrivibili alla sfera del sacro, che vanno dagli spiriti
della natura, alle divinità ancestrali, fino alle creature delle
cosmologie più complesse (come nel caso dell’induismo).
Nel
tentativo di coniugare gli studi
cognitivi più avanzati sul
funzionamento della mente con
i contributi della
paleontologia sull’evoluzione
degli ominidi,
il Prof. Scarduelli ha dunque proposto un abbozzo di modello teorico
antropologico
che vorrebbe
gettare luce su
questa capacità, tipicamente
umana, di creare entità fantasmatiche e di attribuirvi uno statuto
ontologico. Il suo
modello teorico subisce
l’influenza di
diversi contributi: dell’antropologo Pascal
Boyer, il cui articolo “What
Makes
Anthropomorphism
Natural”
(1996) era
tra le letture
preliminari al seminario, autore
tra l’altro del
libro “E l’uomo creò gli dei”
(Odoya, 2010);
delle suggestioni provenienti da Ara
Norenzayan, autore di “Grandi
dei" (Raffaello Cortina,
2014);
della portoghese Diana Espirito Santo, autrice e
curatrice del volume “Making
spirits” (Tauris, 2013); ma
anche di “Religion and
Material
Culture”
(Routledge,
2010) curato
da David Morgan.
L’ipotesi
alla base di questo tentativo di far convivere l’antropologia
culturale con la psicologia intuitiva, le scienze cognitive e la
biologia evoluzionista, è che l’evoluzione umana sia stata
influenzata dalle pratiche dei primi ominidi, pratiche strettamente
culturali, che
avrebbero avuto ricadute
sulla filogenesi dell’Homo
sapiens
sapiens.
Infatti, tutte
le caratteristiche che ci
qualificano
come esseri umani, e in
particolare la nostra
struttura scheletrica, il
coordinamento mano-cervello, la
stessa
struttura fisiognomica della nostra faccia, come
anche il
linguaggio e i meccanismi cognitivi, sarebbero
in stretta relazione con lo svilupparsi delle
credenze in entità fantasmatiche. Questi
particolari tipi
di credenze sarebbero, secondo il Prof. Scarduelli, un sottoprodotto
del processo evolutivo (un
sottoprodotto da intendersi
non in termini
dispregiativi
o sminuenti,
ma solo nel senso di un fenomeno non
previsto).
Dal
punto di vista filogenetico,
ciò significherebbe che la
selezione naturale avrebbe
preferito
quei meccanismi cognitivi che
apparivano più funzionali
alla sopravvivenza degli
esseri umani. Tali meccanismi, tuttavia, una volta trasposti in un
contesto diverso, non più caratterizzato dall’imperativo alla
sopravvivenza, avrebbero continuato a funzionare ma
in un modo diverso dal loro scopo originario.
Secondo
Boyer, ciò che caratterizza il
nostro modo di concepire le
entità fantasmatiche è la possibilità che gli esseri umani hanno
di interagire con
esse. Ciò che l’antropologo
sottolinea,
a partire dai risultati di
un esperimento dello psicologo Justin L. Barrett sul concetto di Dio,
è
la tendenza da parte dei
soggetti ad
assegnare
a Dio delle
capacità che normalmente si attribuiscono all’essere umano. Tale
inclinazione sarebbe alla
base dell’estensione del concetto di umanità alle entità
fantasmatiche, e avrebbe
quindi
portato gli esseri umani a concepire gli spiriti, le divinità, gli
dei, come esseri umani,
come entità con le quali si sarebbe potuto interagire, allo
stesso modo che con gli altri
esseri umani, avendo quindi le stesse aspettative nei loro confronti
e, in alcuni casi,
attribuendo ad essi sembianze
antropomorfe.
Le loro caratteristiche
contro-intuitive –
come le definisce lo stesso
Boyer – ovvero il fatto di avere una biologia
anomala (caratterizzata dall’assenza di bisogni fondamentali come
cibo, sonno etc.) e le loro
capacità sovra-umane
(volare, risorgere dopo la morte, capacità
demiurgiche etc.), in
violazione delle leggi della
fisica, non avrebbero
comunque impedito
di costruire (e di
pensare) tali entità come esseri
umani (o per parafrasare il
linguaggio biblico, a propria
immagine e somiglianza),
anche se per
di più l’antropomorfismo avrebbe
riguardato il comportamento più
che le sembianze fisiche.
Ma
allora, si è chiesto il
Prof. Scarduelli, da dove
scaturirebbe, da un punto di
vista cognitivo, questa tendenza ad
attribuire caratteristiche
umane ad altri esseri
animati e inanimati, alla
base della credenza in entità fantasmatiche?
Boyer
tenderebbe a dare una risposta in termini puramente descrittivi,
limitandosi a descrivere i
meccanismi di attribuzione di
intenzioni tipicamente umane
anche agli
esseri soprannaturali. Diversamente, la proposta del
Prof. Scarduelli è di
analizzare la filogenesi dei
primissimi ominidi e, in particolare, di
risalire all’attività
venatoria da essi praticata, per lo meno a partire dall’Homo
erectus.
La caccia di
grossi animali, infatti,
si configurava come
pratica collettiva e come
tale richiedeva non
solo una raffinata progettazione preliminare, ma anche attività di
coordinamento, divisione dei compiti e capacità di comunicazione.
Quanto a quest’ultima,
fondamentale era la capacità di capire le intenzioni degli altri,
a partire dalla interpretazione
della loro espressione del
volto, e quindi dei
movimenti dei muscoli
perioculari e della motilità
dei muscoli labiali etc. Proprio
la capacità di comprendere
le intenzioni degli altri sarebbe stata
fondamentale per lo sviluppo dei legami sociali, oltre
ad essere un importante
tratto distintivo
dell’essere umano rispetto
alle altre specie animali.
Secondo
il Prof. Scarduelli, la capacità di immaginare che qualcosa esista
al di fuori della nostra
percezione è una delle tre
facoltà fondamentali alla base del linguaggio umano
(distanziamento),
assieme
alla produttività,
cioè la
possibilità di costruire un numero potenzialmente infinito di
messaggi;
e all’arbitrarietà,
che fa sì che i significanti
siano di
per sé liberi da vincoli e
costrizioni e che tra parola e referente vi sia un rapporto
convenzionale. Sarebbe
proprio
il distanziamento a
consentirci di parlare di
oggetti, eventi e persone anche molto lontani nello spazio e nel
tempo, a
parlare di ciò che non esiste, a
elaborare equazioni
algebriche, così come a
pensare alla musica senza
ascoltarla, mentire etc. Ed
è grazie ad esso, ad esempio, che sono
potute nascere la fantascienza
o la
storia.
La
capacità di ritenere
reali le
entità fantasmatiche antropomorfiche (dotate
di un carattere, di emozioni e di volontà)
potrebbe allora essere
dovuta a un iper-distanziamento,
ovvero a una facoltà cognitiva umana utilizzata in un modo diverso
da quello per cui si era originariamente formata. Riprendendo un
termine utilizzato dallo stesso Barrett (citato a sua volta da
Boyer), Scarduelli chiama
iper-riconoscimento la
capacità di attribuire
caratteristiche umane ad altri oggetti animati e inanimati. Anche
secondo Barrett tale capacità
avrebbe avuto origine
proprio dall’attività di caccia dei
primi ominidi. Da
qui avrebbe preso forma un
sistema di inferenza che
avrebbe permesso di
distinguere nell’ambiente
circostante qualsiasi cosa dotata
di intenzionalità,
umana o non umana. Barrett
definisce
l’iper-riconoscimento come
“sistema di individuazione di agente intenzionale” e
lo assimila al cosiddetto
“balzare alle conclusioni”, intendendo con ciò la
facoltà di pensare
all’esistenza di un ente intenzionale anche laddove avrebbero
potuto esserci altre
spiegazioni plausibili. Esso
avrebbe avuto
la funzione di mettere
in guardia rispetto a potenziali minacce e,
da un punto di vista evolutivo, si sarebbe rivelato più vantaggioso
rispetto alla tendenza a minimizzare o a sottostimare il
pericolo.
C’è
poi un
altro aspetto da considerare,
che si lega strettamente al
meccanismo dell’iper-riconoscimento rilevato
da Barett: il
disconoscimento. Se da
un lato è vero che
l’iper-riconoscimento
sarebbe
in grado di spiegare perché le entità fantasmatiche abbiano
cominciato ad essere assunte come reali, dall’altro,
il disconoscimento avrebbe
permesso di pensarle come entità autonome, separate da noi
stessi, e con le quali poter
instaurare rapporti
di gerarchia o di scambio.
La
reciprocità e la gerarchia sarebbero
proprio le due forme
fondamentali delle nostre relazioni sociali,
e d’altro canto presso
popolazioni distinte si ritrova spesso una
corrispondenza fra la gerarchia del mondo degli spiriti e quella
della sfera
dell’umano. Come afferma lo stesso Prof. Scarduelli nel suo “I
rituali del potere” (Carocci, 2014), i dati paleoantropologici che
hanno portato alla scoperta dei rituali di doppia sepoltura, così
come alla simbologia cromatica delle ossa dei defunti, darebbero
ulteriore sostegno a
queste ipotesi.
Il
seminario, in conclusione, ci ha lasciato con alcuni
fecondi spunti di riflessione e importanti
suggestioni. In generale il
Prof. Scarduelli, ormai alle soglie della pensione, ci
ha messo in guardia da alcune tendenze sempre più in voga nel mondo
accademico attuale: in primo luogo dalla tendenza alla
iper-specializzazione degli antropologi, sempre più esperti del
proprio settore di studi ma anche, di conseguenza, sempre
meno in grado di dialogare
fra loro; poi dal fatto che altri scienziati sociali, e in
particolare i sociologi, si siano appropriati dell’etnografia, il
metodo per eccellenza dell’antropologia, con l’effetto di
snaturarlo e, cosa ancor
più grave, di ridurne la complessità.
L’invito
per tutti noi è di
mantenere un atteggiamento sempre aperto verso ogni contributo, non
solo antropologico;
di
leggere la produzione
scientifica di altre
discipline, in modo da trarne
nuova
linfa e ispirazione.
Inoltre,
in un mondo accademico sempre
più investito dalla logica della produttività (una logica
economicistica, a noi poco familiare), tradotta
nell’imperativo a pubblicare il più possibile
senza rispetto per
il
tempo
soggettivo
del ricercatore né
per quello
necessario alla
rielaborazione
dell’esperienza di
campo, mi sembra che la
parola d’ordine possa
diventare…
RESISTERE
RESISTERE
RESISTERE
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