mercoledì 14 marzo 2018

Storici lettori di antropologi

Massimo Giuseppe Della Misericordia  è professore associato presso l’università di Milano-Bicocca, dipartimento Scienze Umane per la Formazione “R. Massa”, dove insegna Storia e Didattica della Storia. Le sue ricerche storiche si sono concentrate sulle Alpi lombarde durante il Rinascimento. Da tempo collabora con la Società Storica Valtellinese.

È sempre piacevole trovare spunti inaspettati per il proprio campo di interesse all'interno di discorsi lontani da quelli che si è abituati a frequentare. Un antropologo, per natura consumatore onnivoro della produzione scientifica più disparata, non dovrebbe stupirsi che sia uno storico a fornirgli spunti di riflessione, tuttavia, è sempre una gradita sorpresa quando due punti di piani diversi si toccano.
Questo è quello che egoisticamente conserverò del seminario di Massimo Della Misericordia dal titolo “Storici lettori di antropologi. Nuove prospettive sulla genesi della statualità europea fra medioevo ed età moderna”, organizzato all'interno del programma di formazione dei dottorandi di antropologia di Bicocca (DACS).

Ironia della sorte, accade proprio in un seminario in cui il professor Della Misericordia ha ribadito l’importanza della lettura interdisciplinare, ricostruendo un momento di grande fertilità nato proprio dall'incontro tra storiografia e antropologia, nel contesto della tradizione della micro-storia. Durante gli anni ‘70, la lettura dei classici antropologici avrebbe portato alcuni storici ad allontanarsi dai temi classici della storiografia generale per concentrarsi sullo studio attento e intensivo di dinamiche locali, con grande attenzione alle piccole negoziazioni quotidiane tra detentori e soggetti del potere, alle economie sommerse e ai processi simbolici e interpretativi. Questi studi circoscritti sono stati in grado di illuminare nuove prospettive con cui guardare ai flussi riconosciuti della grande storia, come la nascita degli stati etno-nazionali. L’analisi dei rapporti tra i centri del potere e le zone più marginali dei loro stessi domini ha messo in luce la natura fittizia della grande narrazione degli stati moderni, mostrando come sia sempre stati costretti a scendere a patti e negoziare con altri sistemi di organizzazione, devolvere il monopolio della forza e della giustizia e adattare le pratiche del potere agli usi dei soggetti coinvolti. In generale, l’idea di stato così come era stata costruita da una certa tradizione storiografica è stata decostruita perché analiticamente poco redditizia.


In questo contesto, Della Misericordia ha esposto le sue ricerche riguardo la creazione di uno specifico discorso di alterità culturale delle valli alpine durante il rinascimento. La sua analisi della corrispondenza tra gli emissari degli Sforza in Valtellina e Milano, ricostruisce il discorso che gli esponenti del potere di pianura producevano riguardo gli abitanti di quelle aree “silvestri”. Essa segnala anche un momento di rottura nella rappresentazione dell’altro alpino, che coincide con il passaggio da un sistema di potere di tipo comunale a quello dei proto-stati dell’Italia moderna. Quello di cui parla Della Misericordia è un discorso politico, che si fonda proprio sull'incomprensione reciproca e sulla competizione tra due diversi sistemi di gestione del potere, la piramide altamente gerarchizzata delle signorie medievali di contro alla collegialità orizzontale delle famiglie e delle fazioni in cui si organizzavano le vallate. In quegli anni, infatti, si istituivano nuovi paradigmi del potere politico, meno standardizzati di quelli del comune medievale e con una maggiore attenzione verso le forme di potere locale. Queste nuove pratiche di governo, unite a una nuova circolazione culturale che favoriva l’interesse per il diverso e per l’esotico, generò un nuovo discorso riguardo gli uomini che si trovavano alle periferie degli stati nascenti. In termini culturali, questa svolta si costituisce con il passaggio dalla “satira del villano”, un set di stereotipi letterari che rappresentavano il contadino come un uomo sporco, rozzo e repellente, verso una rappresentazione dello stesso più organica che istituiva una relazione tra l’ambiente naturale e il tipo umano che lo abitava. Così, la differenza culturale veniva naturalizzata, creando due tipi umani differenti, il cittadino urbano e civilizzato opposto al “ferino” abitante dei villaggi in quota. Una rappresentazione che è stata poi appropriata dagli stessi "montanari", con schemi che potremmo definire tipici delle situazioni di subalternità. Questa, infatti, è stata da una parte risemantizzata in senso positivo, diventando sinonimo di indomita libertà opposta alle pecore dei pascoli di bassa quota, dall'altra è stata riprodotta internamente tra gli abitanti del fondovalle e quelli delle zone più remote.

Questa proiezione sull'altro di caratteristiche bestiali, oltre a sottolineare l’estraneità e il disgusto dei nobili rappresentanti del potere rispetto al contesto in cui si trovavano ad operare, giustificava anche la richiesta di strumenti più decisi per l'esercizio della forza. Richieste che, a onor del vero, Milano fu sempre restia a concedere, mostrando ancora una volta la fragilità di un modello di potere che si vorrebbe centralizzato ma che è costretto a rinunciare a parte del proprio potere in favore degli organismi già presenti sul territorio.

Personalmente, non ho potuto fare a meno di notare come alcuni delle immagini sulla costruzione dell’altro nei termini di arretrato, lontano o rozzo contadinotto, siano ancora presenti nei discorsi del mio campo cipriota. Anche lì, seppure in contesti molto lontani e diversi, la rappresentazione dell’altro si intreccia con la più ampia dimensione culturale del contesto e sostiene il realizzarsi di un preciso progetto politico e culturale. Questo mi spinge a interrogarmi sulla relazione che rappresentazioni di città e rappresentazioni della ruralità giocano nella legittimazione di un sistema politico che si vuole fortemente “urbano”, come quello dell’Unione Europea, nelle sue periferie.

L’intervento di Della Misericordia, più in generale, sprona noi antropologi a riflettere sulla lunga durata di alcune delle dinamiche culturali che ci troviamo ad analizzare in contesti specifici e puntuali. Ci esorta a trovare un modo per selezionare quali aspetti del passato siano influenti nelle dinamiche presenti, in modo comprendere i soggetti che incontriamo, con le loro idiosincrasie e le loro specificità, come attori protagonisti di processi più ampi e lunghi di quello che l’etnografia da sola sia in grado di indagare.

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