L’incontro su antropologia e mondo del lavoro, tenutosi il 21 febbraio, si è concentrato su due focus principali: l’antropologo come profilo professionale nel «mondo esterno» all’Accademia e le possibilità lavorative contemporanee per i laureati e gli addottorati in antropologia. Il primo è stato approfondito con l’aiuto di Ivan Severi presidente di Anpia, l’Associazione Nazionale Professionale Italiana di Antropologia mentre il secondo, in cui la disciplina è indagata come propedeutica ad alcune carriere professionali, è stata analizzato con l’aiuto di Valentina Mutti e Massimiliano Reggi, dottori di ricerca al DACS e oggi professionisti nel campo della cooperazione e nel settore educativo.
Anpia nasce a Bologna nel 2016 «con l’intento di dare voce, rappresentanza e supporto a tutte le antropologhe e gli antropologi che lavorano stabilmente all’esterno dell’accademia» costituendosi sullo spunto della riforma “Franceschini” del 2013 che ha consentito il sorgere di associazioni di rappresentanza per quelle professioni non regolarizzate da ordini. In Anpia confluiscono personalità diverse e associazioni del passato con scopi aggregativi e di divulgazione che scelgono oggi di portare avanti uno sforzo comune per il riconoscimento, da parte del Ministero dello Sviluppo Economico, del profilo professionale dell’antropologo con la relativa sistematizzazione all’interno del settore che ciò implicherebbe (riconoscimento delle specializzazioni, regolamentazione della retribuzione e dei rapporti con la committenza). Al di là dell'evidente spinta verso la «costruzione di ponti verso l’esterno», Severi delinea un’associazione caratterizzata da uno scambio continuo sia reale, attraverso gli sportelli in tre città d’Italia e gli incontri periodici del consiglio direttivo, sia on line, attraverso il sito che per i soci prevede forum di discussione, e infine per mezzo di un meccanismo semplice e inclusivo di adesione.
Valentina Mutti ha esperienza di ricerca sulle migrazioni, di progettazione e di valutazione del monitoraggio di progetti con committenze diverse da operatore esterno. Il suo intervento si è soffermato soprattutto su cosa significhi avere una committenza nella libera professione specialmente in funzione della specificità dei tempi di lavoro, del metodo (se il protocollo di ricerca è preesistente o si ha capacità negoziale) e su cosa significhi lavorare in équipe. A questo si aggiunge la necessità di padroneggiare le strategie, le logiche e il linguaggio delle istituzioni con cui si lavora e la molteplicità di canali di accesso. Per queste professioni, progettazione e valutazione in campo cooperativo, non esiste una sistematizzazione in grado di indicare tariffe e tempistiche a chi si propone da libero professionista poiché risultano assoggettate alla struttura progetto/bando spesso preesistente. Mutti suggerisce una spinta propositiva mossa da «un’umiltà di fondo» nell’accettare incarichi che potrebbero differire dall’antropologia propriamente detta, ma per i quali la disciplina è vista come «valore aggiunto» da chi li conferisce. Si riscontra dalle sue parole un’esperienza pregressa per la quale il dottorato in antropologia tenda a non vedere in queste aree sbocchi carrieristici (che restano comunque governati dallo zelo individuale secondo le testimonianze) considerandoli non un proseguimento naturale degli studi dunque, ma una sorta di ripiego in settori in cui la laurea pare più spendibile (sempre con l’aggiunta degli obbligatori approfondimenti teorici di varia natura in cooperazione o progettazione).
Massimiliano Reggi, che viene da una formazione plurale su informatica, psicologia e etnopsichiatria, è attivo nel settore della cooperazione attraverso una Ong a cui è giunto tramite i canali classici del mondo del lavoro e che ha creduto nel suo potenziale. Il suo intervento ha insistito sulla necessità di preparare al meglio le autocandidature o candidature in risposta. La buona dose di fortuna che non manca in nessun inserimento lavorativo, deve infatti essere supportata da un impegno nella presentazione di sé stessi («tirare fuori quello che non si può leggere in un cv») in modo che nel marasma dei candidati si possa spiccare per personalità o percorso di studi valorizzando le competenze acquisite durante il dottorato di antropologia, anche qualora il requisito sia solo una «sensibilità antropologica» e non di più. È interessante lo sprone a «intercettare spazi vuoti, il bisogno di ricerca in settori in cui non è stata sviluppata», ma non se ne chiariscano le modalità perché interamente a carico dell'iniziativa individuale.
La discussione aperta al termine degli interventi si è dipanata infatti soprattutto intorno alla dicotomia strutturale tra la necessità di proporsi autonomamente prevista dalla libera professione contro la praticamente inesistente sistematizzazione non solo della professione dell’antropologo, ma anche di quelle satellite. Di fronte a questa sorta di doppia solitudine e preso atto della lezione di umiltà necessaria, scopriamo tristemente che il percorso da fare è l’opposto rispetto a quello delle generazioni di antropologi che ci hanno preceduto: è molto più probabile, a detta di tutti i presenti, che il dottorato ci porti lontano dall’antropologia verso le Ong, i ministeri, le associazioni di categoria piuttosto che ci avvicini ad essa. La generazione di trentenni dell’uditorio che si è da poco abituata ad usare Europass per esempio, è un po’ basita all’idea di dover adesso tirare fuori quello che non si legge dal cv costruito con grande fatica o addirittura di imparare a compilarne un altro diverso come propone Anpia e inoltre, dopo aver speso tre anni a specializzarsi in un’area geografica e in una branca della disciplina come l’Accademia insegna, è chiamata a ragionare se sia il caso che quest’area specifica debba essere riconosciuta professionalmente o no.
Ci lasciamo inoltre con un forte gap rispetto all’organizzazione dell’antropologia professionale all’estero su cui potremmo decidere di soffermarci in seno al dottorato.
Nella miriade di suggestioni offerte da un incontro su antropologia e lavoro, in un paese in cui non si può nemmeno insegnare antropologia in quei licei dove la disciplina è presente perché chi la insegna non è tenuto ad essere un antropologo, personalmente non ho fatto altro che pensare tutto il tempo ai taccuini di De Martino sulla ricerca in Lucania con le dettagliate note spesa per la Camera del Lavoro, tra i committenti della ricerca, e la lista di contributi istituzionali e privati con cifra a fronte. La sensazione è che si possa comunque cominciare da qualcosa che in fondo in Italia già si faceva e si è fatto con enorme successo e rimesse sia per l’Accademia che per il mondo esterno, dovunque esso sia.
De Martino E. (1995). Note di campo. Spedizione in Lucania, 30 Sett.-31 Ott. 1952. Gallini C. (a cura di). Lecce: Argo.
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