mercoledì 7 novembre 2018

Antropologia e metodo. Un contributo da Iringa, Tanzania

Questa settimana si sono tenuti i primi seminari della didattica del DACS 2018/2019. Il prof. Roberto Malighetti ci ha accompagnato in un interessante confronto sul tema del metodo e dell'epistemologia dell'antropologia. Sul tema ho il piacere di pubblicare qui di seguito il contributo inviatoci da Edoardo Occa, dottorando DACS attualmente impegnato in un lavoro di cooperazione presso Iringa, in Tanzania:

Vorrei  brevemente condividere delle esperienze di vissuto sul campo che la lettura del testo sul metodo ha permesso di far riemergere e ulteriormente problematizzare.
Vorrei farlo a partire da due fotografie tratte dal lavoro di ricerca condotto nel dicembre scorso con le popolazioni Daasanech e Hamer in South Omo, Etiopia, nell'ambito di un progetto di cooperazione sanitaria promosso da Medici con l’Africa CUAMM, l’organizzazione per cui lavoro in Tanzania.




Nella prima qui sopra, che ho  nominato ‘setting straniante’ mi si vede (io sono il bianco a destra della foto, seduto mentre prende appunti) siamo durante un focus groups che ha lo scopo di comprendere le abitudini in termini di allattamento e svezzamento tra le donne Daasanech.
Io con il nostro team (traduttori dal mio pensare in italiano alla mia lingua inglese all'amarico al daasanech… traduzioni di traduzioni di traduzioni), esplicitamente portatori di un sapere/potere quale la biomedicina, che attraverso il sapere/ potere oggettivante della scrittura (il Daasanech è una lingua esclusivamente orale) riconduciamo nelle griglie interpretative del questionario qualitativo-quantitativo (con uno scarto non solo semantico ma anche semiotico, dall'alfabeto latino all'alfabeto amarico) pratiche affatto corporee delle donne coinvolte, pratiche e gestualità e sensibilità per le quali esiste un vocabolario ad uso esclusivo delle donne della comunità (siamo venuti a conoscenza di alcuni termini solo una volta terminato il focus).

Ricordo di aver vissuto i gruppi come esperienze altamente stranianti, distopiche (a partire dalla distanza spaziale, che vede me seduto sulla sedia di fronte alle donne sedute sui gradini…sottolineo che quando, sentendomi più ‘partecipante’ all'inizio dell’ incontro mi sono seduto con loro sulle scale, il gesto ha provocato rimostranze notevoli, come se il mio gesto - mi e’ stato spiegato - mettesse in dubbio la capacità della comunità locale di accogliere degnamente un ospite così decisamente ‘straniero’).

Ricordo una sensazione fisica, un corpo a corpo tra la mia pretesa di ‘etnograficità” e “scientificità”del momento, nel cortocircuito personale tra una ‘osservazione’ necessaria agli scopi nobili dell’intervento (tra i Daasanech la mortalità infantile è pari circa ad un quarto) e una ‘partecipazione’ che mi era preclusa dalla lingua e dall'atteggiamento serioso delle donne nei miei confronti. Solo forse una sorta di ‘distrazione ricettiva’ mi ha permesso però di cogliere, su un versante percettivo poco ‘antropologizzato’, sguardi, sorrisi abbozzati, volontà di entrare in contatto da parte dei’beneficiari’ nei miei confronti, e di vivere l ‘equivoco empatico in una prospettiva di possibilità-da-venire.


La seconda foto l’ho nominata “l’antropologo oggettivato”; questa la riflessione sorta dalla richiesta perentoria delle donne Hamer di farsi fotografare con me, in una sorta di momentaneo ‘mondo alla rovescia’ per un popolo dove il fenomeno del’ turismo antropologico’ sta assumendo proporzioni decisamente invasive che stanno alterando le economie di scale e i modi di produzione locali. In questo frangente sono consapevole di divenire strumento di un orientalismo al contrario in cui la relazione con l’altro rimane pur sempre all'interno di un circolo vizioso di stereotipizzazione del diverso. Laddove (per un volta tanto...) lo straniero non si presenta come armato di tecnologia celando il proprio se’ e la propria identità dietro all'obbiettivo della macchina fotografica, la comunità locale si appropria delle potenzialità del mezzo tecnologico per rivendicare il medesimo movimento di oggettivazione dell’altro. 

Lungi dall'essere imbarazzate o intimorite, le donne Hamer mi rivolgono un “contro-interrogatorio” volto a conoscere gli aspetti della mia vita famigliare e dei rapporti tra genitori in termini di responsabilità nell'educazione dei figli, di sostentamento famigliare e di possibilità di negoziazione all'interno della coppia. In una comunità dove essere la prima moglie viene ostentato con orgoglio, e dove le relazioni tra mogli sono rigidamente gerarchizzate, il “contro-questionario” orale delle donne Hamer risulta un tentativo, una metodologia improvvisata per ampliare le conoscenze sulle condizioni di possibilità della sfera affettiva e dell’organizzazione sociale.

Ho vissuto questa come un’esperienza straniante che per un giorno ha sabotato i dispositivi del framework etnografico, durante la quale sono stato “osservato” e “partecipato”. Ritornato nel contesto appagante del mio ufficio, circondato dalle testimonianze tangibili dei libri e dei grafici con le statistiche sulla salute materno-infantile di queste aree, mi sono affrettato a scriverne, quasi avessi voluto rivendicare per me stesso e per la disciplina che rappresentavo quella peculiarità di scienza ‘dura’ all'interno della quale  le impertinenti donne Hamer avevano aperto una faglia, una possibilità.

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