lunedì 1 aprile 2019

New Summer School in Malta: "Mobility and Heritage in the Mediterranean"


The University of Milan Bicocca launches a brand new joint summer programme with the University of Malta. The first edition of the Summer School “Mobility and Heritage in the Mediterranean”  (MeditHerIty) will take place in Malta from 14 to 22 September 2019. The School is based on an intense academic program, as well as several meetings with local associative and cultural organizations, and is strongly committed to an applied approach in order to match the theoretic analysis about mobility and heritage with the public debate on sensitive themes. The thematic focus of the edition 2019 will be: “Tourists and Migrants: (un)expected encounters in the Mediterranean”.


Cultural heritage is commonly thought as a product of the longstanding link between people and their own territory. But, as anthropologist James Clifford shown us, in our contemporary world culture and identity are associated to "routes" as much as to "roots". We are prompted to recognize that different kinds of mobility and flows are closely connected to the global dynamics of place making. The Mediterranean is one of the most significant areas where we can observe this phenomenon. Here the constant movement of tourists and migrants across both sides of the sea in the last decades has been producing several (un)expected encounters. On the beaches of Lesvos and Kos as in the ethnic neighborhoods of Marseille and Barcelona, in the "Sea Memory Museum" of Zarzis as at "Porto M" of Lampedusa, the clear cut border between tourism and migration is contested and vanished.

In order to follow the paths of this "heritage on the move" we can combine different fields of studies and manage a variety of approaches, ranging from engagement in theoretical debate to application of our skills in innovative projects. The main aim of the Summer School is to improve the knowledge of the participants in the anthropology of mobility and heritage and their capacity to develop fruitfull cooperations with private and public agencies. The Summer School will be divided in sets of lessons and activities including: analysis of theoretical and methodological tools; presentation of case studies with an ethnographic approach; visits to specific places and institutions engaged in migration and tourism in Malta.

Application deadline: 16 April 2019.
All the details about the School and the application process are here.

lunedì 25 marzo 2019

Comparazione e trasversalità nel sapere antropologico

Il seminario del professor Remotti tenutosi in data 13 e 20 Marzo, dal titolo "Comparazione e trasversalità nel sapere antropologico", è stata un'occasione di riflessione su temi che, sebbene già affrontati in passato, è sempre utile e fruttuoso ripercorrere insieme.

Uno dei punti più interessanti messi in luce dal professor Remotti, sia durante il seminario sia negli scritti precedentemente proposti ai dottorandi del DACS, riguarda la pericolosità insita in un atteggiamento antropologico troppo particolaristico. Se la critica mossa da Leach a Malinowski è di essere "troppo trobriandese", troppo “dentro” le dinamiche trobriandesi, è pur vero che non è semplice far dialogare nell'ottica della trasversalità e del connessionismo più ambiti di ricerca. Attraverso un uso fruttuoso delle somiglianze di famiglia proposte da Wittgenstein è però possibile connettere più contesti differenti su argomenti simili operando di fatto una trasversalità di ricerca: ciò permetterebbe di evitare di imbattersi in quella che fu definita da Leach come una "collezione di farfalle". Il rischio già allora all'orizzonte era quello di contribuire ad un sapere puramente monografico e particolaristico che non era in grado di dialogare con altre realtà, altre storie ed altre etnografie: come evidenziato anche da Evans-Pritchard vi era, e tutt'ora è presente, il pericolo di una frammentazione dell'antropologia.

Il secondo punto interessante della riflessione messo in luce durante il seminario riguarda tutto l’excursus storico dell’antropologia da parte del professor Remotti. Sebbene anche nei libri indicati in preparazione al seminario ci fosse questa attenzione, è stato molto apprezzato il ritorno alla spiegazione dei sistemi di parentela di Morgan in quanto nucleo originario da cui si fa derivare il pensiero antropologico: l’idea di possibilità insita nell'identificazione dei sistemi di parentela (per cui nessun sistema è unico, universale o necessario) è ciò che rende possibile pensare all’"altro”.  Il sistema di parentela non è stato usato come semplice espediente ma ha fatto sì che fosse possibile ripercorrere mentalmente tappe fondamentali del percorso antropologico: con Kroeber è stata posta in essere una critica ai criteri con cui si identificano i sistemi e con Lévi-Strauss si è fatta strada l’idea che nessun sistema possa essere studiato da solo e che lo strutturalismo sia “contro la solitudine dei sistemi”. Questa forte presa di posizione contro l’”inscatolamento” dei contesti socio-culturali e contro i famosi “collezionisti di farfalle” appare necessario anche attualmente: il rischio evidenziato durante il seminario, attraverso le parole di diversi antropologi, è quello di rimanere bloccati all'interno di una specifica dinamica culturale senza essere in grado di utilizzare quell'oscillazione propria della ricerca antropologica.

Concludendo, se è vero che il “giro più lungo è spesso la via più breve per tornare a casa” nelle parole di Kluckhohn, questo seminario ci ha permesso di fare un lungo giro storico per permetterci di tornare a casa, cioè al nucleo iniziale del pensiero critico antropologico ossia quello marcato dalla possibilità di pensare concretamente l’altro.

Per approfondire:

Remotti, F., Per un'antropologia inattuale, Elèuthera, 2014

giovedì 21 marzo 2019

World Anthropology Day a Milano: il bilancio della prima edizione e uno sguardo al 2020

L’antropologia può contribuire a migliorare la vita delle persone? Può aiutarci a meglio comprendere il mondo in cui viviamo e favorire la risoluzione pratica dei problemi che affliggono la nostra quotidianità e le nostre società? Queste sono alcune delle domande che hanno attraversato i numerosi eventi, le tavole rotonde, i laboratori, le passeggiate organizzati da antropologi e antropologhe italiane in occasione della prima edizione italiana del World Anthropology Day (WAD). Il WAD è un’iniziativa promossa da alcuni anni a livello internazionale dall'American Anthropological Association per mostrare l’importanza e l’utilità del sapere antropologico e il 21 febbraio 2019 è stato celebrato per la prima volta anche in Italia, a Milano.

L’iniziativa, patrocinata dal Comune di Milano, è stata promossa dal Corso di Laurea Magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche in collaborazione con il Dottorato di Antropologia Culturale e Sociale dell’Università di Milano Bicocca e realizzata con il sostegno del Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa” e della Scuola di Dottorato dell’Università di Milano Bicocca. Il coordinamento è stato curato di Ivan Bargna; la progettazione e l’organizzazione hanno visto coinvolti Ivan Bargna, Laura Menin, Giacomo Pozzi, Giovanna Santanera e Francesco Vietti.

L’obiettivo è stato quello di mostrare il volto pubblico dell’antropologia, le sue applicazioni concrete, presentando esempi virtuosi di attività svolte sul territorio e fornendo nel contempo l’occasione per generarne di nuove. Si è trattato di un’occasione per familiarizzare con il lavoro che gli antropologi svolgono insieme a operatori sociali, associazioni, professionisti, istituzioni negli ambiti più diversi, perché ciascuno possa trarne vantaggio.

L’evento ha coinvolto oltre 30 partner, tra cui la Società Italiana di Antropologia Applicata (SIAA), la Associazione Nazionale Professionale Italiana di Antropologia (ANPIA), l’Università degli Studi di Milano e numerose associazioni culturali, organizzazioni non governative e istituzioni museali (da Fondazione ACRA a Medici con l’Africa CUAMM, da ActionAid a MUDEC - Museo delle Culture) che da anni collaborano con antropologi e antropologhe sul territorio cittadino e non solo. Abbiamo così mostrato in modo molto evidente come l’antropologia non sia praticata solo in università, ma costituisca una risorsa in ogni ambito sociale e nel mondo del lavoro: una presenza capillare, ma forse ancora poco visibile.

Il WAD2019 ha avuto un’anteprima il 20 febbraio, che ha riguardato in particolare l’inaugurazione dell’unica iniziativa svolta presso la sede dell’Università di Milano Bicocca: la mostra fotografica “Il mondo dell’antropologia”, dedicata alle immagini scattate sul campo di ricerca dai giovani antropologi in formazione.

La giornata del 21 febbraio si è aperta ufficialmente con la tavola rotonda "Il volto pubblico dell'antropologia" alla Fabbrica del Vapore che che ha visto l’intervento, tra gli altri, dell’Assessore alla Cultura del Comune di Milano, Filippo del Corno. Insieme ai rappresentanti delle associazioni antropologiche, dirigenti del comune e del mondo delle imprese si è discusso delle diverse opportunità e modalità attraverso cui l’antropologia può dialogare in modo fruttuoso con le parti sociali. All’evento ha partecipato un pubblico di oltre 120 persone.


Durante il corso della giornata, sono stati organizzati trentadue eventi gratuiti disseminati in tutta la città di Milano grazie al supporto logistico di 20 volontari, principalmente studenti del Corso di Laurea Magistrale in Scienze antropologiche ed Etnologiche e dottorande/i del Dottorato in Antropologia culturale e sociale. Tali eventi – suddivisi in Incontri, Passeggiate antropologiche e Laboratori – hanno avuto una buona partecipazione di pubblico (da una decina a oltre 50 partecipanti a seconda dei casi) e hanno toccato una grande varietà dei temi e di luoghi: dal carcere di Bollate dove si è lavorato nel vivaio curato dai detenuti al campo da calcio dove ci si è allenati con i rifugiati del St Ambroeus FC, dalle sale gioco in cui riflettere sul rapporto tra antropologia e videogiochi, alla cucina di PRESSO dove cucinare parlando di cibo, culture e ricette del mondo, dal quartiere di San Siro a quello di via Sarpi, dai Bunker Breda al Parco di CityLife camminando insieme a migranti, artisti, antropologi e urbanisti… fino agli studi radiofonici di Share Radio per uno laboratorio antropologico dedicato ai bambini. Attraverso queste e altre attività abbiamo coinvolto studenti e cittadinanza, portando esempi concreti dei molteplici modi in cui il lavoro di antropologi e antropologhe dentro e fuori l’accademia può aiutarci a comprendere le dinamiche sociali e culturali che caratterizzano la contemporaneità (migrazione, inclusione/esclusione sociale, relazioni storiche fra nord/sud del mondo), creare momenti di dialogo e di incontro e avere ricadute positive nella vita di tutti.

La giornata si è conclusa con una Festa dell'Antropologia Pubblica, alla Fabbrica del Vapore, con l’ottimo catering curato da Catering Milanesi in collaborazione con l’associazione Kamba, promotrice di un progetto di inclusione sociale per giovani richiedenti asilo e migranti, e lo spettacolo teatrale "Canto Clandestino" del Teatro degli Incontri. Un evento finale di grande successo, cui hanno preso parte circa 150 persone. Confortati dall’ottimo esito di questa prima edizione, come organizzatori del WAD2019 – Antropologia pubblica a Milano siamo dunque intenzionati a proseguire nella nostra iniziativa anche nel 2020, lavorando fin da ora una seconda edizione ancora più ricca e partecipata, da immaginare e realizzare insieme nei prossimi mesi con un percorso inclusivo che speriamo possa coinvolgere la città di Milano e non solo.

L’evento Facebook “World Anthropology Day – Antropologia pubblica a Milano” ha interessato 2337 persone e ha raggiunto la copertura di 80.730 utenti Facebook.

venerdì 8 marzo 2019

Note in favore e a difesa di un'Antropologia Femminista


Le due giornate di studi sul Femminismo in Antropologia - organizzate all’interno del ciclo seminariale del DACS con la formula di due seminari a cura di Alessandra Brivio e Claudia Mattalucci - hanno voluto riflettere sull’adozione di un approccio femminista nella pratica etnografica. Un contributo che è stato spesso ridotto alla stregua di un orientamento funzionale ad un impegno politico che tuttavia nulla ha lasciato sul piano euristico. A partire dalla ricostruzione di queste due giornate di studi si vuole riflettere sul senso di tale approccio, considerandone anche limiti e criticità. Soprattutto, l’intento è quello di sottolineare come l’antropologia femminista abbia stimolato profonde riflessioni su nozioni estremamente significative per lo sviluppo dell’apparato teorico della disciplina – nonché delle Scienze Sociali per esteso – come il corpo, il genere, la cura, l’affettività, la soggettività, la comunità, il potere.

Come ha ricordato Mattalucci, l’antropologia femminista presenta all’interno numerose differenze. Nata sulla scia del movimento femminista della seconda ondata, emerso negli Stati Uniti negli anni’70 e diffusosi in Europa, l’antropologia femminista ha avuto destini differenti a seconda dei contesti in cui si è sviluppata. In Italia è stato predominante il cosiddetto femminismo della differenza, interessato all’indagine delle differenze sostanziali fra uomo e donna piuttosto che allo studio del genere come categoria che costruisce e articola socialmente tali rapporti e differenze, come in Gran Bretagna. L’antropologia femminista ha dato voce ad un sentimento di insoddisfazione verso il corpo “neutro”, “asessuato” che gli studi sull’incorporazione avevano eletto strumento conoscitivo primario per indagare il rapporto mutualmente costitutivo fra soggetto e mondo (Mascia-Lee 2016). In questo senso, Strathern (1987) ricorda come sia proprio sul terreno del corpo, e della distinzione fra soggettività ed oggettività per esteso, che si gioca gran parte della relazione problematica fra antropologia e femminismo. A tal proposito, Alessandra Brivio ha riportato l’esperienza di una serie di ricerche condotte sulla memoria rituale della schiavitù. Il punto di vista dominante degli uomini del luogo era che una donna non avrebbe mai potuto guadagnare la fiducia delle gerarchie religiose necessaria a capire l’essenza delle pratiche vodoo. Brivio racconta come proprio la consapevolezza di avere una prospettiva marginale (Abu-Lughod 1990) sulla vicenda sia stata per lei un vantaggio nel condurre le proprie ricerche, dato che l’ha aiutata a comprendere che la verità assoluta di una pratica che si definisce “inconoscibile” per sua stessa natura le sarebbe stata negata.

Abu-Lughood (1990) sottolinea la necessità di ridare dignità e valore ad un altro aspetto a cui l’antropologia femminista ha apportato un contributo fondamentale: la scrittura etnografica. Il più grande limite di Writing Culture: the Poetics and Politics of Ethnography (Clifford; Marcus 1986) è stato proprio quello di aver cancellato i modi in cui approcci femministi hanno contribuito alla sperimentazione di forme alternative di scrittura, che spesso si è realizzata più sul piano della rappresentazione politica che della poetica, riportando voci ed esperienze di soggetti spesso marginali all’interno della produzione etnografica (Abu-Lughood 1990: 16). Questo senso di insoddisfazione è stato alla base del testo che muove contro le stesse strutture gerarchiche ed egemoniche che informano, in modo solo apparentemente paradossale e contradditorio, la stessa opera di Clifford e Marcus: Women Writing Culture di Deborah Gordon e Ruth Behar (1994). E proprio la stessa Behar è stata citata più volte nel corso delle giornate di studio a proposito del suo Vulnerable Obsverver. Anthropology that breaks your heart (1997), e delle questioni che solleva: in che modo porsi di fronte alla propria fragilità e vulnerabilità di osservatore? Cosa fare delle proprie emozioni e di quelle altrui in situazioni emotivamente cariche e come riuscire a raccontarle? Mattalucci riporta le difficoltà incontrate nel provare a restituire l’immagine delle emozioni provate in alcuni  gruppi di aiuto sui lutti perinatali a cui ha assistito, riuscendo a guadagnare la fiducia e la confidenza di tutti i membri. Una fiducia che ha rischiato di venir meno nel momento in cui le è stato chiesto di riportare i nomi veri nella scrittura finale, che in quei contesti sono particolarmente importanti.

Come accennato all’inizio, l’antropologia femminista racchiude al suo interno tensioni e divisioni profonde. Le rivendicazioni sorte rispetto alla figura predominante  di donna “bianca, upper-middle class" hanno posto l’accento su soggetti come le donne nere, che hanno vissuto una doppia esclusione sia all’interno del movimento femminista sia di quello nero (Creenshaw 1991). Tali dibattiti e agitazioni sono stato alla base dello sviluppo della nozione di “intersezionalità”, che guarda alle relazioni mutualmente costitutive fra genere, razza e classe  come categorie socialmente e culturalmente informate articolanti rapporti di dominazione ed esclusione (Nash 2008). Quella della presenza di immagini e visioni dominanti dell’essere donna all’interno del movimento femminista è una questione tutt’altro che risolta, e lo dimostra la recente pubblicazione del pamphlet Femminismo per il 99%. Un manifesto (Arruzza; Bhattacharya; Fraser 2019). Nell’introduzione (Arruzza; Bhattacharya; Fraser 2019: 3-9) le tre autrici si schierano proprio contro ciò che considerano una visione liberale della classe dominante che vuole le donne protagoniste all’interno del sistema capitalista al pari degli uomini, muovendo in favore di un femminismo marxista, critico verso l’attuale sistema economico-politico. Mentre l’ intersezionalità ha rivestito un ruolo importante nel dibattito teorico sul rapporto a tratti conflittuale fra forme di identità individuali e collettive, la questione politica della scarsa rappresentanza delle minoranze all’interno degli studi – come quella dei gruppi “latinos” - ha spesso prodotto il risultato opposto di reificare la costruzione culturale di tali categorie ed identità (Brah, Phoenix 2004; Nash 2008).

Il contesto globale contemporaneo ha visto il riacuirsi di ideologie che negano la presenza di modelli dominanti su cosa sia e come debba agire una persona, fondati in gran parte sull’adozione di categorie specifiche di genere e nazionalità, e di cui l’antropologia e le scienze sociali hanno dato più volte prova nel corso delle ricerche mostrando anche come generino forme di oppressione, esclusione e sofferenza . Parlare contro tali rappresentazione e in favore di un approccio maggiormente orientato alla  co-costruzione e negoziazione di tali categorie fra gli attori sociali è dunque non solo un atto politico, ma anche morale ed epistemologico nella misura in cui appartiene allo stesso tempo al bagaglio concettuale e all’etica professionale della disciplina. Un’antropologia femminista contribuisce a ricordarlo.

- Abu-Lughod, L. (1990) “Can There Be A Feminist Ethnography?”, in Women & Performance: A Journal of Feminist Theory, 5(1), pp. 7-27.
- Arruzza, C., Bhattacharya T., Fraser, N. (2019) Femminismo per il 99%. Un manifesto, GLF Laterza, Bari.
Behar, R. (1996) The Vulnerable Obsverver. Anthropology that Breaks your Heart, Beacon Press, Boston.
- Brah, A., Phoenix, A. (2004) “Ain’t I A Woman? Revisiting Intersectionality”, in  Journal of International Women’s Studies, 5 (3), pp. 75-86.
- Clifford, J., Marcus,. G., a cura di, (1986) Writing Cultures. The Poetics and Politics of Ethnography, University of California Press, Berkley.
- Creenshaw, K. (1991) “Mapping the Margins: Intersectionality, Identity Politics, and Violence against Women of Color”, in Stanford Law Review, 43(6), pp. 1242-1299.
- Gordon, D., Behar, R. (1994) Women Writing Culture, University of California Press, Berkley.
- Mascia-Lees F. E. (2016) “The Body and Embodiment in the History of Feminist Anthropology. An Idiosyncratic Excursion through Binaries”, in Lewin E. § Silverstein L. M. (a cura di), Mapping Feminist Anthropology in the Twenty-first Century, Rutgers University Press, New Brunswick, pp. 146-167
- Nash C. J. (2008) “Re-thinking intersectionality”, in Feminist Review, 89, pp. 1-15.
- Strathern, M., (1987) "An Awkward Relationship: The Case of Feminism and Anthropology," in Journal of Women in Culture and Society, 12, (2), pp. 276-92.

lunedì 4 febbraio 2019

In dialogo con gli archivi



Il tema della memoria è uno dei temi centrali delle radici della nostra cultura, almeno di quell'ampia parte derivante dall’antica Grecia e dall’antica Roma. Non solo gli albori delle scienze storiche si trovano già nell’antica Grecia, ma anche il ricordare come atto poltico-culturale di costruzione della memoria appartiene alla cultura romana (come ad esempio la damnatio memoriae).   

Il valore di ciò che vale la pena di ricordare e di ciò che è possibile ricordare, attraverso il mito o l’archivio è sempre stato, quasi universalmente, un atto politico di costruzione di identità, come aveva approfonditamente spiegato il “padre fondatore” della nostra facoltà Ugo Fabietti.

Mito e archivio. Mentre scrivo mi rendo conto quanto l’uno sia l’opposto dell’altro, almeno per come l’abbiamo inteso al seminario del prof. Della Misericordia. Scomodando Levi-Strauss possiamo dire che l’uno è il modo di ricordare del pensiero logico, l’altro del pensiero mitico, l’uno ha il carattere della fattualità, l’altro della fattività, l’uno è scritto, l’altro è orale. 

L’archivio, secondo la definizione del dizionario è oggi inteso come “la raccolta ordinata e sistematica di atti e documenti la cui conservazione sia ritenuta di interesse pubblico o privato”.
Già da questa piccola definizione vediamo emergere la questione politica: chi ha deciso di ricordare (sia nel senso transitivo di “tramandare” sia in quello intransitivo), cosa ha ritenuto degno di ricordare, dove ha deciso di farlo ricordare, in quale contesto, e per quale motivo e come. 

Seguendo questa strada, ci si accorgerà subito, come è stato notato più volte al seminario, che il sostantivo archivio è il punto di arrivo di un processo a cui si può dare l’aggettivo “archiviazione” (prendo qui spunto dal disgusto accademico di Appadurai verso i sostantivi in favore delle forme aggettivali).

Essendo testimonianza di un processo storico, l’archivio allora mi pare una processualizzazione di secondo grado da cui lo studioso, storico o antropologo, può trarre degli utilissimi spunti per indirizzare e definire la sua ricerca.
È innegabile che, a meno di non voler tornare ad una concezione ormai desueta della cultura, la necessità di conferire diacronicità all'osservazione antropologica trovi nell’archivio uno degli strumenti più importanti a disposizione dello studioso sociale.

L’archivio, però, deve essere inteso anche e soprattutto come testimonianza di un cambiamento nel modo di pensare l’altro e se stessi, oltre che testimonianza del cambiamento delle strutture governative, sociali e organizzative.
Ne sono un esempio gli archivi studiati dal prof. Della Misericordia risalenti al ’500, che testimoniano non solo la crescita delle razionalità governative (archivi più efficienti, istituzioni con una funzionalità più regolare), la creazione di una figura professionale volta all’archiviazione (notai) e della formazione di una autorità nel campo informativo, ma anche
una tecnicizzazione dell’altro definito in base ai propri tratti di appartenenza etnica, rispetto ad un diverso tipo di classificazione che si trova nei documenti del secolo precedente

La rete archivistica è anche uno spazio dialogico  dove si incontrano i problemi della produzione delle identità e del rapporto tra gruppi che non hanno le stesse risorse sociali e politiche.
Nonostante l'archiviazione rientri fortemente la dimensione della scrittura come "power device", nel rapporto con l'archivio è necessario superare l’oggettivismo ingenuo e la visione semplicistica che la scrittura sia irrimediabilmente compromessa dal controllo su di essa esercitato. Se da una parte, in una prospettiva genealogica, si può rintracciare nell’archivistica quattro-cinquecentesca le radici del nostro sistema neoliberale di accountability, è opportuno adottare parallelamente quella che il prof. Della Misericordia ha chiamato "prospettiva archeologica", che ci permette di vedere il documento nel suo contesto di produzione.

Nel basso medioevo e nell’antico regime, ad esempio, c’era una grande cultura del precedente e del consuetudinario. Alcuni diritti non erano certificati per iscritto, ma erano legittimati per il semplice fatto che erano stati fatti prima. Le forche ai confini delle giurisdizioni sono “l’oggettificazione” di queste pratiche normative: per affermare che il diritto di possedimento arrivava fino a lì, si faceva riferimento alle impiccagioni. Le domande volte ai testimoni durante le dispute per i diritti di proprietà erano di questo genere “ma tu hai visto eseguire una condanna a morte da questa autorità?”
La documentazione giuridica, facendo fede ad un documento scritto e non più all'aleatorietà della testimonianza orale, diveniva dunque, in un tale contesto, una fondamentale attestazione di un diritto, ovvero per poter dire “io ho affittato quel pascolo per tot tempo, quindi è mio di diritto”.

Possiamo dunque parlare di archiviazione come un processo che si svolge tra due diverse istanze politiche: difesa e diritto.

Numerose restano le questioni che restano da affrontare, aperte dal dibattito finale. Tra tutti gli spunti interessanti, quelli che mi colpiscono maggiormente sono il cambiamento dell’archivio nel suo divenire digitale nella società della “democratizzazione” cibernetica e la necessità di una etnografia che si interroghi su come venga prodotto il sapere archivistico che ogni società consegna al futuro.

In queste ipotetiche indagini è bene ricordare ciò che ha sottolineato il prof. Della Misericordia. Esiste sempre una specifica culturale macro (il valore del ricordo) e un elemento più ristretto (la scelta che è stata fatta dalla cultura documentaria medievale e di antico regime a favore di attestazioni giuridiche).


Al di là dell’illusione della fissità documentale archivistica, il documento scritto re-interrogato dallo studioso riacquista all of a sudden la sua polifonicità.

Bibliografia di riferimento:

Della Misericordia, M., 2013, "Le ambiguità dell'innovazione. La produzione e la conservazione dei registri della chiesa vescovile di Como (prima metà del XV secolo)", in I registri vescovili dell'Italia settentrionale (secoli XII-XV), a cura di A. Bertoli Langeli e A. Rigon, Roma, Herder Editrice, pp. 85-139.

Torre, A., 1987, "Antropologia sociale e ricerca storica", in La storiografia contemporanea. Indirizzi e problemi, a cura di P. Rossi, Milano, Il Saggiatore, pp. 206-239.

giovedì 31 gennaio 2019

Metodo biografico e soggettività: verso un'antropologia del “bene”?

Il metodo biografico si è imposto come una delle metodologie di ricerca etnografica più rilevanti e utilizzate nel panorama antropologico contemporaneo. Emerse con peculiare autorità a partire dalla svolta post-strutturalista nella disciplina, le biografie di chi prende parte alle ricerche degli antropologi sono diventate una delle risposte possibili alla profonda critica di metodo e riflessività disciplinare mossa dall'ormai classico Writing Culture (Clifford & Marcus 1986). Il metodo, tuttavia, insieme al carico di meditazioni teoriche che fa scaturire, non è sorto dal nulla né è stato il risultato di un ripensamento puramente intellettuale di termini e condizioni. Al contrario, ha una storia, un contesto e una serie di possibilità che apre per il futuro riposizionamento filosofico della ricerca. Sono state queste le questioni al centro del seminario “Biografie e contesto: come lavorare sulle traiettorie esistenziali in etnografia”, spalmato su due incontri coordinati dalla Prof. Silvia Vignato.

La Vida, una pubblicazione
successiva di Lewis di enorme
successo in America.
Per quanto una nota critica post-moderna degli scritti antropologici avesse sottolineato come i “padri” della disciplina avessero sistematicamente bypassato le vite dei loro informatori come individui in favore di costruzioni tipologiche (da Boas a Griaule, fino ai “balinesi” di Geertz), l'attenzione alle biografie dei partecipanti alle ricerche antropologiche ha un antenato di gran rilievo – e presciente rispetto al modo in cui questo tipo di ricerche verrà svolto a partire dagli anni Ottanta – in The Children Of Sanchez di Oscar Lewis (1961). In questo celebre volume dell'antropologia economica, dopo aver espletato i classici alberi genealogici e le mappe di vicinato, Lewis fa raccontare dai personaggi stessi (cinque) della ricerca le loro autobiografie, in cui emergono i particolari della vita di una famiglia messicana alle prese con difficoltà economiche, disoccupazione e alcolismo, da cui scaturisce poi, secondo Lewis, il concetto di “cultura della povertà”. 
 
The Children Of Sanchez anticipa in un certo modo tanti dei temi che verrano poi affrontati in maniera più analitica da tanta antropologia a venire. Tra questi, sul piano metodologico, la differenza tra narrazione e autonarrazione. Quest'ultima, in particolare, è stata discussa durante il seminario come soggetta a processi narrativi e culturali in maniera non troppo differente rispetto alla prima: in altre parole, il modo in cui ci si auto-narra è ugualmente contestuale e influenzato culturalmente. Una delle soluzioni possibili dall'empasse epistemologico in cui l'antropologo si trova, quindi, è stata quella di “calarsi” nella scena etnografica stessa, entrando nell'ordinario del campo (Das 2007, Han 2015) e/o presentare l'etnografia come testo scritto nella forma di dialogo tra l'etnografo e il partner di ricerca.

Come accennato in apertura, tuttavia, il metodo biografico non è una riflessione metodologica sospesa nel nulla, ma si è sviluppato in seno ad un movimento storico preciso e più ampio, fotografato dai contributi di Sherry Ortner e Joel Robbins (Ortner 2016, Robbins 2013). Robbins ha fatto notare come l'attenzione alle biografie e più in generale all'individuo all'interno delle ricerche etnografiche è emerso all'interno di una svolta di focus da quello che lui ha definito savage slot ethnography a una suffering slot ethnography. La “scomparsa” del nativo come oggetto di ricerca auto-costituitosi in quanto “alterità” ha fatto sì che gli antropologi andassero a trovare nel soggetto sofferente un tema di ricerca similmente e trasparentemente valido, questa volta appoggiato sul presupposto dell'universalità della sofferenza come emozione incorporata. Questa tendenza, definita dalla Ortner “dark anthropology”, va contestualizzata secondo l'antropologa da una parte dal sorgere del modello neoliberale e del carico di insicurezze e diseguaglianze portato con sé anche nelle società di cui gli antropologi fanno parte. Dall'altra, come evidenziato da Flavia Cuturi (2012), troviamo la progressiva ossessione per l'individuo, il soggetto e le narrative del sé, proiettata anche dai canali massmediatici, dall'utilizzo (pseudo?) personalizzato dei social media alla popolarizzazione delle biografie e autobiografie come genere letterario.

Professor Joel Robbins
Problematizzando quindi concetti quali “trauma” e “vittima” seguendo, tra gli altri, testi come Archeologie del Trauma di Beneduce (2013), il seminario ha discusso le varie modalità con cui arrivare, facendo eco di nuovo al lavoro di Robbins, ad un'antropologia del “bene”, un tipo di antropologia che si muove a partire dai recenti lavori sull'etica e la morale (Laidlaw 2002, Robbins 2007), sul dono (Sykes, 2005) e sulla speranza (Mattingly 2010). La professoressa Vignato espone quindi, a mo' di esempio pratico, il suo lavoro personale sulle vite dei bambini che ha seguito in post-tsunami Aceh, arrivando ad afferrare le specifiche concezioni di “bene” e osservando i “punti di snodo” cha hanno attraversato queste biografie e le preoccupazioni per il futuro, concepite in un senso molto pragmatico: cosa intraprendo per garantire un “buon” futuro a me e/o a mio figlio?
Questo è, in altri termini, il fulcro di questo modo di fare etnografia, una modalità in grado di restituire il punto di vista dell'antropologia come disciplina: mettere in crisi l'etnografo, ricostruire un vero (Fassin, 2014) che indichi come vissuti “altri”, forse migliori rispetto a quello dell'antropologo o forse no, esistano e valgano la pena entrarci in conversazione.

Bibliografia:

Beneduce, R. (2013) Archeologie del trauma: Un'antropologia del sottosuolo. Milano: Feltrinelli;
Clifford, J. & Marcus G. (1986) Writing Culture. University of California Press;
Cuturi, F. (2012) Storie di vita e soggettività sotto assedio, Annuario di Antropologia, 14: 30-70;
Das, V. (2007) Life and Words. Violence and the Descent into the Ordinary. University of California Press;
Fassin, D. (2014). True life, real lives: Revisiting the boundaries between ethnography and fiction. American Ethnologist, 41(1), 40-55;
Han, C. (2015) Echoes of Death: Violence, Endurance, and Experience of Loss. Living and Dying in the Contemporary World: A Compendium, 493-509;
Laidlaw, J. (2002) For an anthropology of ethics and freedom. Journal of the Royal Anthropological Institute 8: 311-32.
Lewis, O. (1961) The Children Of Sanchez. New York: Random Hause.
Mattingly, C. (2010) The paradox of hope: journeys through a clinical borderland. Berkeley: University of California Press;
Ortner, S. (2016) Dark anthropology and its Other: Theory since the Eighties. HAU: Journal of Ethnographic Theory 6(1): 47-73;
Robbins, J. (2007) Between reproduction and freedom: morality, value, and radical cultural change. Ethnos 72: 293-314.
Robbins, J. (2013) Beyond the suffering subject: toward an anthropology of the good. Journal of the Royal Anthropological Institute, 19(3): 447-462
Sykes, K. 2005. Arguing with anthropology: an introduction to critical theories of the gift. London: Routledge;

domenica 13 gennaio 2019

Il "paradosso" dell'osservazione partecipante: le implicazioni metodologiche, etiche e politiche della ricerca etnografica


Prima della pausa natalizia, il Dacs ha ospitato il seminario di Filippo Osella, professore di Antropologia e South Asian Studies all’Università del Sussex. L’incontro, attraverso un vivace dibattito e un percorso di letture proposto dal professor Osella (che riportiamo alla fine del post), ha sollevato numerose questioni e ha rappresentato un’occasione preziosa per riflettere e discutere sulle implicazioni metodologiche, etiche e politiche dell’etnografia.

Malinowski alle Trobriand
Partendo da autori “classici” come Malinowski (1922) e Geertz (1973), abbiamo inizialmente ragionato sulla dimensione relazionale della ricerca sul campo, intesa come esperienza condivisa, come pratica immersiva e intersoggettiva. Il fieldwork appare come un “gioco delle parti”, un processo dialettico e performativo (fatto di continui “aggiustamenti”, riposizionamenti, fraintendimenti, etc) che prevede una delicata “gestione delle impressioni” e delle emozioni (Berreman 2012; Jackson 2010; Srivinas 1980): come vedono i “nativi” l’antropologo e i suoi collaboratori? Come percepiscono la sua presenza? Che effetti innesca tale presenza? Come gestire la frustrazione, il senso di spaesamento, i conflitti che possono sorgere sul terreno? Possiamo esprimere le nostre convinzioni, i nostri sentimenti (anche quando ci fanno entrare in contrasto con i nostri interlocutori) o dobbiamo “metterci tra parentesi”, evitare i conflitti e/o imporci un rigido autocontrollo? In quest’ultimo caso, dobbiamo considerarci ipocriti o possiamo ritenere, come afferma Goffman, che in fondo la vita quotidiana implica sempre un certo grado di finzione,  di mise en scène? Sono alcune delle questioni cruciali della pratica di campo che riguardano in modo particolare (ma non solo) il rapporto tra gli antropologi e i loro key informants (Turner 1967; Rabinow 1977), una relazione complessa, instabile e dinamica con molteplici risvolti di carattere metodologico, etico e politico che fa emergere due temi fondamentali, strettamente connessi tra di loro: la questione della soggettività e il problema del posizionamento.

Con la cosiddetta “svolta riflessiva” e la conseguente crisi del modello positivista, l’antropologia si è messa in discussione, analizzando criticamente le condizioni di produzione del proprio sapere e facendo i conti con la questione della soggettività: il sapere antropologico non è neutro e oggettivo (come per lungo tempo si è autorappresentato) ma è il risultato delle interazioni tra antropologo e soggetti studiati. Come abbiamo accennato, ciò porta in superficie tutta una serie di interrogativi e nodi problematici, ormai ineludibili. Inoltre, tale corpus di conoscenze è incastonato in una rete di relazioni di potere, la cui asimmetria si riflette nelle distinzioni dicotomiche spazio-temporali “moderne” (“noi”/”altri”, “qui”/”là”, “tradizione”/modernità”, etc) che caratterizzano il discorso antropologico “classico” (Benjamin 2002; Comaroff, Comaroff 1992; De Certeau 2000; Gupta, Ferguson 1992; Kaplan 1996).  In questa direzione, sotto l’influenza del femminismo e del pensiero postcoloniale, l’antropologia ha iniziato a porsi il problema del posizionamento in termini non solo metodologici ed epistemologici ma anche etici e politici: il modo in cui ci relazioniamo con i nostri interlocutori è indubbiamente condizionato da dinamiche di genere, classe, “razza”, nazionalità, sessualità, religione, etc (Di Cori 2002; Mahmood 2001; Rooke 2010).  

Il reflexive turn ha condotto, inoltre, a un ripensamento critico del concetto malinowskiano di “osservazione partecipante”,  mettendone in luce il carattere paradossale e controverso (Behar 2014): come si possono coniugare osservazione e partecipazione? Dobbiamo essere distaccati o farci coinvolgere? Se ci facciamo coinvolgere, fino a che punto ci possiamo spingere senza “diventare nativi” (going native)? Tali questioni hanno generato accesi dibattiti in seno alla disciplina. Uno dei più rilevanti è sicuramente il cosiddetto “objectivity vs militancy debate” che ha visto confrontarsi sulle pagine della rivista CurrentAnthropology vari studiosi di primo piano (tra cui D'Andrade, Scheper-Hughes, Crapanzano, Friedman, Rabinow, Harris, etc).

Per Nancy Scheper Hughes, l’antropologia è una forma di militanza, resistenza, impegno politico: siccome gli antropologi hanno “scelto di occuparsi dei dannati della terra” (Bourgois 1990: 46), devono schierarsi, prendere posizione al loro fianco. Da questo punto di vista, l’etnografia si configura come l’arma dei più deboli: attraverso di essa  l’antropologo dà voce agli ultimi, sveste i panni dello spettatore per diventare testimone/“compagno” (Scheper-Hughes 1996, si veda anche Behar 2014). 
La prospettiva dell’antropologia militante fornisce diversi e interessanti spunti di riflessione: innanzitutto ci “obbliga” a misurarci con argomenti scomodi come la violenza, l’ingiustizia, lo sfruttamento. In che modo si può fare etnografia su questi temi? A quali rischi esponiamo noi stessi e/o i soggetti studiati? Come trattare i dati prodotti da tali investigazioni? Secondo Bourgois, l’accademia, attraverso i suoi rigidi codici etici, scoraggia le ricerche su temi controversi e non si occupa abbastanza delle relazioni diseguali di potere (Bourgois 1990, si veda anche Graeber 2009). Eppure l’antropologia ha una responsabilità storica nell’affrontare tali questioni visto che il suo tradizionale “oggetto di studio" (“i popoli indigeni”) è stato violentemente incorporato nell’economia globale e spesso si trova a sperimentare gravi forme di ingiustizia, sfruttamento, repressione, miseria, etc. È anche vero, però, come ammette lo stesso Bourgois, che ricerche di questo tipo espongono antropologi e soggetti coinvolti a  rischi concreti che possono produrre un effetto contrario rispetto a quello sperato. A tal proposito l’autore di “In Search of Respect” riporta le eloquenti parole di Laura Nader: “Don’t study the poor and powerless because everything you say about them will be used against them” (Bourgois 2003: 18)  Tuttavia, secondo Bourgois e Scheper-Hughes, non possiamo autocensurarci ed evitare temi scomodi altrimenti l’antropologia diventa una scienza innocua, dedita unicamente alle “stranezze del mondo”. In quest’ottica, è necessario “affrontare il potere”, integrando l’approccio ermeneutico e riflessivo dell’antropologia postmoderna (che si concentra sulla dimensione simbolica) con una prospettiva teorico-politica che tenga conto anche degli aspetti strutturali e materiali delle relazioni sociali e delle configurazioni culturali.

Nonostante abbia fatto prova di riflessività e spirito autocritico, la militant anthropology mostra diversi punti deboli: innanzitutto veicola un’idea “romantica”, ideologica e riduzionista del concetto di resistenza, contrapposto in maniera dicotomica e monolitica a quello di potere (Ortner 1995). Inoltre non affronta fino in fondo la questione della rappresentazione e mantiene spesso un’impostazione etnocentrica e paternalista/maternalista attraverso la quale si arroga il diritto di  “parlare per”, senza tener conto che i nativi/subalterni possono opporre un “rifiuto etnografico” (Ortner 1995; Simpson 2007), respingendo l’idea di essere studiati e rappresentati dagli antropologi (Ramphele 1996; Trencher 1998, si veda anche Spivak 1994).  

Inoltre, l’antropologia militante si autorappresenta come “la disciplina dei dannati della terra” e, come è emerso durante il seminario, questo pone ulteriori interrogativi: dobbiamo provare necessariamente empatia/simpatia nei confronti dei soggetti studiati? Dobbiamo limitarci alle “classi subalterne” o possiamo studiare anche le élite? Qualsiasi “cosa” può diventare oggetto di studio? Fino a dove si espande il campo di ricerca? Qual è il senso della disciplina? Che cos’è questa “antropologia” che noi facciamo? Per chi? Per cosa?

Per tentare di rispondere a queste domande, gli antropologi dibattono, si confrontano, si scontrano. Come scrive Crapanzano, l’antropologia appare, dunque, come un’arena le cui centrature e i cui confini sono sempre in questione (Crapanzano in Scheper-Hughes 1995:420). Le continue diatribe che attraversano la disciplina possono essere lette, non a torto, come un sintomo di acuta autoreferenzialità. Sono anche il segno, però, di una vitalità dell'antropologia che, secondo Osella, trova il suo senso più profondo nella tendenza a mettersi/mettere in discussione, a destabilizzare ciò che crediamo universale, scontato, sicuro. Da questa prospettiva, le “piccole storie”, i dettagli marginali che l’antropologo raccoglie sul terreno, non sono stranezze innocue e curiose ma hanno una valenza epistemologica, etica  e politica in quanto si delineano come frammenti di una complessità che non possiamo ridurre a un unico modello, a un solo discorso. La natura “paradossale” della ricerca etnografica, riassunta nel concetto di “osservazione partecipante”, esprime una tensione costitutiva tra vicinanza e distanza, esperienza e interpretazione, pratica di campo e riflessioni teoriche. Ed è proprio nella combinazione di “teoria” e di “campo” (in cui ci “si sporca le mani”) che, secondo Francesco Remotti, si trova la formula fondamentale dell’antropologia, “una sorta di filosofia che si infanga e che rischia continuamente di perdersi, ma anche esperienze in cui ci si imbratta e che tuttavia contengono temi che possono avere un notevole valore teorico, persino filosofico”.

PERCORSO DI LETTURA PROPOSTO DAL PROFESSOR OSELLA:

Prima parte del seminario: Antropologia, ricerca sul campo e osservazione partecipante: tra empirismo modernista ed esoticismo romantico?

Background concettuale:
- Kaplan, C. (1996), “The Question of Moving” in Questions of Travel: Postmodern Discourses of Displacement, Durham, Duke University Press, pp.27-64.
- Benjamin, W. (2002), "Paris, Capital of the Nineteenth Century" [1939]”, in Tiedemann, R.; Eiland, H.; McLaughlin, K. (ed.), The Arcades Project, Cambridge, MA, Harvard University Press.
 - De Certeau, M. (2000) “Walking in the City” in Ward, G.(ed.), The Certeau Reader, London, Blackwell, pp.126-133.

Metodologia ed orientamento dell‘antropologia moderna:
- Malinowski, B., (1922), “Introduction” in Argonauts of the Western Pacific: An Account of Native Enterprise and Adventure in the Archipelagos of Melanesian New Guinea, London, Routledge, pp.1-25.
- Geertz, C., (1973), “Thick description: Toward an Interpretive Theory of Cultures” in The Interpretation of Cultures, New York, Basic Books, pp.3-30.

La pratica della ricerca sul campo:
- Berreman, G.D., (2012), “Behind Many masks: Ethnography and Impression Management” in Robben, A.; Sluka, J. (eds) Ethnographic Fieldwork: an Anthropological Reader, Chichester,Wiley-Blackwell, pp.152-174.
- Srinivas, M.N., (1980), “Chapter 1: How It All Began” in  The Remembered Village, Berkeley, University of California Press, pp.1-52.

Confabulazioni: antropologi e i loro “key informants”:
- Turner, V. (1967), "Muchona the Hornet, Interpreter of Religion" in The Forest of Symbols, Ithaca, Cornell University Press, pp.131-150.
 - Rabinow, P. (2007), “Ali: an insider’s outsider” in Reflections on Fieldwork in Morocco, Berkeley, University of California Press, pp.31-69.

 Affetti, emozioni e posizionalità:
- Jackson, M. (2010), “From Anxiety to Method in Anthropological Fieldwork” in Davies, j.; Spencer, D. (ed), Emotions in the field: The Psychology and Anthropology of Fieldwork Experience, Palo Alto, Stanford University Press, pp.35-54.  
- Behar, R. (2014), “Chapter 1: The Vulnerable Observer” in The Vulnerable Observer: Anthropology That Breaks Your Heart, Boston, Beacon Press, pp.1-33.
- Rooke, A. (2010), “Queer in the Field: On Emotions, Temporality and Performativity in Ethnography” in Browne, K.; Nash, C. J. (ed.), Queer Methods and Methodologies: Intersecting Queer Theories and Social Science Research, Surrey, Ashgate, pp.25-40.

Ridefinire il campo di ricerca:
- Gupta, A.; Ferguson, J. (1992), “Beyond ‘Culture’: Space, Identity, and the Politics of Difference, Cultural anthropology, 7(1), pp.6-23.
- Comaroff, J.; Comaroff, J. (1992), “Chapter 1: Ethnography and the Historical Imagination” in Ethnography and the Historical Imagination  Boulder, Westview Press, pp.3-48.

Seconda parte del seminario: “Being there”: politica ed etica dell’osservazione partecipante

Incontrando violenza ed illegalità: 
- Bourgois, P. (1990), “Confronting anthropological ethics: Ethnographic lessons from Central America”, Journal of Peace Research, 27(1), pp.43-54.
- Bourgois, P. (2003), “Introduction” in In search of respect: Selling Crack in El Barrio, Cambridge, Cambridge University Press, pp.1-18.

 “Il personale è politico”:
 - Scheper-Hughes, N. (1995), “The Primacy of the Ethical: Propositions for a Militant Anthropology”, Current anthropology, 36(3), pp.409-440.
- Ramphele, M. (1996), “How Ethical are the Ethics of this Militant Anthropologist?”, Social Dynamics, 22(1), pp.1-4.
- Trencher, S.R. (1998), “Righteous Anthropology”, Society in Transition, pp.29(3-4), pp.118-129.

Partecipazione osservante come critica [e i suoi limiti]:
 - Mahmood, S. (2001), “Feminist Theory, Embodiment, and the Docile Agent: Some Reflections on the Egyptian Islamic Revival”, Cultural anthropology, 16(2), pp.202-236.
 - Ortner, S.B. (1995), “Resistance and the Problem of Ethnographic Refusal”, Comparative studies in society and history, 37(1), pp.173-193.

Chi dà voce a chi?:
 - Simpson, A. (2007), “On Ethnographic Refusal: Indigeneity, ‘Voice’ and Colonial Citizenship”, Junctures: The Journal for Thematic Dialogue, 9, pp.67-80.
 - Spivak, G. (1994), “Can the Subaltern Speak?" in Williams, P.; Chrisman, L.(ed.), Colonial Discourse and Postcolonial Theory, New York, Columbia University Press, pp.66-111.
 - Di Cori, P. (2002), “Margini della città: Lo spazio urbano decentrato di Michel de Certeau e Diamela Eltit”, Antropologia, 2(2), pp.138-161.
 - Graeber, D. (2009), “Anarchism, Academia, and the Avant-garde” In Amster, R. and alii, Contemporary Anarchist Studies, London, Routledge, pp. 119-128.

mercoledì 12 dicembre 2018

Chinese Ethnology. The Contributions of the past and the prospects of the future. Incontro con il Professor Yang Shengmin


Lunedì 10 dicembre l’Università degli studi di Milano-Bicocca ha ospitato il seminario del Professor Yang Shengmin della Minzu University of China dal titolo “Chinese ethnology. The contributions of the past and the prospects of the future”.
Il Professor Yang Shengmin ha illustrato brevemente lo sviluppo della disciplina antropologica in Cina soffermandosi in particolar modo sulle continue disgregazioni e successive riaggregazioni dei dipartimenti di studi sociali e antropologici. Il popolo cinese e di conseguenza anche i suoi intellettuali vissero un lungo periodo di isolamento dagli anni 20 del Novecento. Durante il periodo comunista, indicativamente dal 1966 fino alla morte del leader Mao Tse-Tung nel 1976 vennero coniati nuovi codici di condotta e divennero vitali nuovi concetti chiave, come “nazione”, “società” ed “etnia”. In questo periodo storico gli insegnamenti antropologici ed etnologici vennero aboliti in quanto pregni di valori borghesi e quindi lontani dall’idea di utilità che ha guidato il comunismo cinese anche successivamente alla morte di Mao.

Eppure negli anni precedenti l’ascesa del potere di partito diversi erano stati i contatti fra antropologi cinesi e stranieri, soprattutto occidentali e russi, che resero possibile la traduzione di testi fondanti della disciplina anche per il pubblico cinese. Negli anni 20 del Novecento la disciplina visse un periodo di splendore, sebbene permeato da un alone di isolamento politico ed economico, che portò alla nascita di diverse istituzioni fondamentali per l’avanzamento scientifico come ad esempio la Chinese Society of Ethnology fondata nel 1928 a Nanchino. Diversi antropologi insegnarono in questi istituti e dipartimenti universitari come ad esempio Fei Xiaotong o Wu Wenzao: questi ed altri studiosi si erano formati nel continuo confronto con le scuole di pensiero occidentale e cercarono sempre di rimanere in contatto con la comunità accademica estera.
Sebbene questi studiosi avessero studiato la disciplina antropologica attraverso le teorie scientifiche occidentali, ciò non impedì loro di proporre propri framework teorici e applicarli soprattutto all’interno degli ethnic studies. Dal 1937 al 1949 gli antropologi cinesi vissero un periodo di fioritura teorica e vi fu l’ampliamento dei campi di applicazione del sapere: la guerra fra Cina e Giappone per il territorio della Manciuria e della Mongolia rese necessario uno studio approfondito dei gruppi etnici presenti nelle zone di confine. La Cina iniziò dunque ad attrarre anche studiosi stranieri interessati alle dinamiche interetniche e di potere all’interno della società cinese; si assistette ad una progressiva occidentalizzazione (sempre all’interno dell’area cinese) del focus antropologico.

Il Professor Yang Shengmin, interrogato sulle caratteristiche dell’antropologia cinese, ha indicato quali siano i pilastri fondamentali della disciplina: l’applicabilità (la visione cioè dell’antropologia come uno strumento, concetto sul quale si è più volte ritornati), l’interdisciplinarità, l’analisi contestuale storica, il focus sui communities studies ed infine il ruolo del marxismo. Dal 1949 al 1964 l’antropologia cinese ha attraversato due fasi probatorie importanti; in primo luogo si è assistito alla progressiva trasformazione del National Identification Survey che permetteva di raccogliere e catalogare una grande quantità di dati a proposito delle minoranze presenti sul territorio cinese. L’influenza dell’etnologia sovietica fu fondamentale per questa fase di sviluppo della disciplina, che diveniva dunque asservita alla costruzione nazionale sotto l’influsso della volontà del partito. L’identificazione etnica di tutte le minoranze presenti sul territorio divenne la base sulla quale costruire l’unità dello stato nazione e si continuarono a finanziare progetti di ricerca inerenti queste tematiche per 14 anni. Eppure negli anni 60 si assistette ad un progressivo allontanamento della Cina dall’Urss e di conseguenza terminarono diversi progetti di ricerca e cooperazione. Si entrò quindi nella seconda fase probatoria che affrontarono gli antropologi cinesi che si videro fortemente contestati in quanto “elementi di destra” e portatori di un’antropologia altamente borghese. In questo periodo l’etnologia di stampo sovietico venne fortemente criticata come revisionista e messa da parte per far spazio agli ethnic studies che dagli anni 60 in poi rimpiazzarono totalmente l’etnologia.
Se dal 1966 al 1976, sotto il regime di Mao Tse-Tung, l’antropologia cinese venne tacciata di essere una disciplina borghese e di conseguenza marginalizzata, nel 1978 con Deng Xiaoping la disciplina visse una nuova era. Nei trent’anni successivi si assistette a grandi cambiamenti: la disciplina tornò ad essere insegnata nelle università, si concluse il periodo isolazionista e si ebbe il superamento della divisione delle varie scuole teoriche. Negli anni 90 la Cina dovette affrontare grandi problemi a partire da un aumento sproporzionato della popolazione rispetto alle risorse disponibili, la tensione crescente fra città e campagna, la globalizzazione, lo sviluppo economico, i nuovi impianti industriali ed i problemi ambientali. Queste problematiche, dovute anche alla rapida e prepotente entrata della Cina sul mercato internazionale, ha acceso focolari etnici e lotte di classe che parevano sopite, riaccendendo di conseguenza anche l’interesse di diversi antropologi per la Cina e la sua immensa ricchezza.
Fra gli interventi dei partecipanti due argomenti hanno colpito la mia attenzione. Mi riferisco in particolar modo alla questione della colonizzazione interna e del ruolo fra antropologi cinesi e campo di ricerca africano. Il fantasma del colonialismo si è manifestato anche in questo seminario ma non è stato possibile decostruire parte della risposta che il Professor Yang Shengmin ci ha fornito. La prima domanda riguardava la questione della han-izzazione del territorio cinese e se questa presenza maggioritaria dell’etnia Han non corrisponda ad una qualche forma di colonizzazione delle altre 55 etnie cinesi e se non vi sia uno sbilanciamento di potere e rappresentazione etnica. Mentre la seconda domanda riguardava il ruolo dell’antropologia cinese contemporanea rivolta ad altri paesi, in particolare al contesto africano. La nostra disciplina si porta tuttora con sé lo spettro del giustificazionismo del periodo coloniale e appare dunque importante pensare criticamente al ruolo che gli antropologi giocano sul campo nell’attualità. L’Africa è un continente nel quale gli interessi sono sempre più manifesti soprattutto per quanto concerne lo sfruttamento delle risorse naturali e quindi sarebbe interessante analizzare i ruoli politici, economici e sociali giocati (anche) dagli antropologi impegnati nello studio delle società africane.
A conclusione del suo intervento, il Professor Yang Shengmin ha voluto sottolineare nuovamente l’importanza della disciplina antropologica per la sua rilevanza sociale e per l’allenamento del pensiero critico, invitando i partecipanti a focalizzare l’attenzione e l’analisi antropologica sulle potenzialità applicativa della ricerca.

mercoledì 5 dicembre 2018

Festeggiamo la Giornata Mondiale dell'Antropologia 2019!


Il Corso di Laurea Magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche e il Dottorato in Antropologia Culturale e Sociale (DACS) hanno aderito al World Anthropology Day che verrà celebrato il 21 febbraio 2019! 


Si tratta di un'iniziativa lanciata alcuni anni orsono dall'American Anthropological Association, "a day for anthropologists to celebrate our discipline while sharing it with the world around us".
L’attività è volta all'intensificazione dei rapporti con le parti sociali e il mondo del lavoro. Obiettivo è mostrare il ruolo pubblico dell’antropologia e le sue applicazioni concrete, presentando esempi virtuosi di attività svolte sul territorio e fornendo nel contempo l’occasione per generarne di nuove. Per questo desideriamo essere il più inclusivi possibili.

Per facilitare la partecipazione delle persone e portare l’antropologia nei luoghi del lavoro, la maggior parte delle attività non si terrà in Bicocca, ma sarà disseminata in vari punti della città di Milano.

La giornata proporrà:

1) Esperienze di collaborazione fra antropologi, società civile e mondo del lavoro, presentate possibilmente nei luoghi in cui si sono svolte, coinvolgendo le diverse figure che vi hanno partecipato  e la cittadinanza;
2) Workshop, laboratori ed esperienze guidate, anche itineranti, nei diversi quartieri della città (sono previsti "tour antropologici“ per Milano negli ambiti dell'arte, cultura, musei; ambiente; servizi sociosanitari; turismo; migrazioni).

Oltre alle attività promosse e gestite direttamente da Bicocca, offriamo la possibilità a tutti gli antropologi di proporre iniziative, da gestire in autonomia o con la nostra collaborazione, da inserire nel calendario dell’evento (previa approvazione del comitato organizzatore).

La giornata si aprirà con una tavola rotonda sul ruolo pubblico e la funzione sociale dell’antropologia (con specifico riferimento all’area milanese, la “città metropolitana”) e si chiuderà la sera con un evento conviviale e uno spettacolo teatrale.
Nella mattinata è prevista attività di informazione nelle scuole milanesi.

Le proposte vanno inviate a anthroday2019@gmail.com  entro il 30 dicembre 2018 indicando:

- CHI la realizza (individuo o gruppo, solo o in collaborazione)
- DI COSA tratta (descrizione sintetica e dettagliata dei contenuti della proposta)
- DOVE si svolge l'iniziativa
- QUANDO si svolge (orario)

Vi ringraziamo per l’attenzione e contiamo sulla vostra diffusione!