martedì 19 dicembre 2017

Perché la ricerca nel campo dell’arte contemporanea è importante per l’antropologia?

Perché la ricerca nel campo dell’arte contemporanea è importante per l’antropologia? È questa la domanda sulla quale Thomas Fillitz, antropologo dell’Università di Vienna, ci ha invitato a riflettere nel corso del suo seminario tenutosi presso il dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale il 30 novembre.

Thomas Fillitz si occupa da qualche anno dello studio dell’arte contemporanea in Africa occidentale, in particolare a Dakar.
Fillitz cerca di riportare l’attenzione su un campo di ricerca che è stato oggetto di critica, in quanto si accusa l’antropologia dell’arte di non aver contribuito alle grandi teorie della storia dell’antropologia. Tuttavia, oggi gli studi sull’arte non costituiscono più un area marginale all’interno del sapere antropologico.

A partire dagli anni Novanta si sono affermate diverse teorie riguardanti il rapporto tra antropologia e arte.

Coote e Shelton in "Anthropology, Art and Aesthetics" (1992), affermano che con l’analisi di oggetti appartenenti alla cultura materiale si possono comprendere valori sociali che è difficile acquisire in altri modi.

L’arte non è solo da guardare, anche se quando noi guardiamo stiamo già facendo qualcosa. Art is about doing. Questo è il pensiero esposto da Gell in "Art and Agency" (1998). Egli si concentra sull’importanza dell’arte nel kula studiato da Malinowski, in particolare sulle decorazioni che adornano le canoe. Il lavoro dell’artista è accompagnato da un rituale, acquistando così un potere magico. Secondo i due autori, il lavoro dell’artista è di estrema importanza nel momento in cui la canoa, avvicinandosi alla costa, si mostra in tutto il suo splendore permettendo al proprietario di ricevere i migliori pezzi del kula. I lavori di grande qualità mostrano tutto il loro potere magico e di riflesso mostrano il potere del padrone della canoa, il quale eclissa l’artista. Tuttavia, quest’ultimo ha il merito di avere creato un oggetto materiale che diventa un mediatore nella relazione sociale.

Decorazione della prua di una canoa utilizzata durante il kula
Ci sono artisti come Lothar Baumgarten che hanno fatto esperienze antropologiche. Alcuni artisti hanno smesso di creare oggetti d’arte e la loro opera consiste nel collaborare con le popolazioni locali intessendo delle relazioni sociali. Queste esperienze fanno riflettere sulle potenzialità che il mezzo artistico potrebbe avere per noi antropologi.

L’antropologia dell’arte, secondo Fillitz, non solo ci permette di creare uno spazio di riflessione con artisti e curatori per poter gettare uno sguardo oltre, ma ci aiuta a domandarci: che cosa possiamo imparare noi antropologi dal lavoro degli artisti? Oltre all’etnografia, esistono altre possibilità per comunicare ciò che l’antropologo raccoglie durante il suo lavoro?

Oltre a questo, vi è la possibilità, secondo Fillitz, di trovare una connessione tra il mondo dell’arte e alcune teorie antropologiche. È il caso dell’aspirazione, come capacità culturale, descritta da Appadurai; in quanto, nell’arte si trova una visione del futuro e spesso alcune opere d’arte sono sintomo di cambiamento sociale. Anche il concetto di imminenza utilizzato da Canclini può essere associato all’arte, poiché questa esprime qualcosa che potrebbe succedere, oppure può proporre visioni di un altro mondo.

Proprio queste idee stanno alla base delle opere dell’artista ivoriana Mathilde Moro, incontrata da Thomas Fillitz durante il lavoro sul campo. La questione principale sollevata dai suoi quadri è quella sul futuro. Quale vita è possibile oltre a quella che viviamo? Inoltre, Mathilde Moro cerca di trasmettere l’indifferenza della società. È interessata alle emozioni che le persone provano quando perdono tutto e cerca di riportare queste sensazioni nei suoi quadri.

Un quadro di Mathilde Moro
Fillitz ha concluso il seminario affermando l’importanza dello studio delle dinamiche che coinvolgono gli artisti e le loro opere, soprattutto in una visione locale, soffermandosi sui problemi più sentiti dagli artisti appartenenti a piccole comunità.

lunedì 18 dicembre 2017

Umorismo e religione: il lato ironico della trascendenza

Il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa" ha ospitato, giovedì 23 novembre 2017, la prima Lectio Magistralis in memoria del Professor Ugo Fabietti, tristemente scomparso lo scorso maggio. Ad inaugurare questa modalità di incontro - che proseguirà con cadenza annuale - è stato invitato il Prof. Francesco Remotti, antropologo africanista di formazione filosofica, figura di riferimento nella vita accademica e personale del Prof. Fabietti.

Ad una sala gremita di studenti, dottorandi e docenti, il Prof. Remotti ha offerto un’appassionante riflessione sull’umorismo nelle religioni dal titolo “L’umorismo teologico: un contributo all’etno-teologia”: un esempio paradigmatico di quel modus operandi caro alla disciplina e in particolare al Prof. Fabietti che esortava ad una costante articolazione tra etnografia ed elaborazione teorica.

La lezione prende avvio con un rimando al volume «Luoghi e corpi» (1993) che Remotti recupera al fine di elaborare una prima importante tripartizione dell’esperienza religiosa: sacralizzazione o autonomia del sacro; desacralizzazione radicale; desacralizzazione morbida.
L’umorismo teologico viene presentato a partire da alcuni esempi di “desacralizzazione morbida”, una terza via attraverso la quale culture e società hanno cercato di destreggiarsi tra i due poli antitetici della sacralizzazione e della desacralizzazione: una forma alternativa di desacralizzazione - incompleta - che, pur ammettendo l’artificiosità e la finzione dei culti, riconosce alle credenze un livello di autonomia tale da influenzare l’esistenza umana, senza tuttavia condizionarla in termini assoluti.
La riflessione di Remotti si innesta ed insiste sulla necessità, espressa da Fabietti nel volume «Materia sacra» (2014), di ripensare la dimensione religiosa da un punto di vista materiale: il pensiero trascendente - alla base di ogni culto - si rivela infatti concepibile solo in riferimento alla materialità, la quale «“concretizza” l’esperienza della trascendenza» e mette in evidenza il «lato dinamico» della religione. La materia/oggetto rende così “pensabile” ciò che - per sua propria natura - tende a sfuggire alla presa della ragione.

La desacralizzazione morbida, secondo Remotti, può subire una serie di declinazioni: il ridere degli dei; la divinità che ride degli uomini; il ridere con gli dei.
Il rituale Chihamba - uno dei più importanti riti di afflizione della società Ndembu - offre un esempio di “desacralizzazione morbida” che consente ai partecipanti di giungere ad un’inedita consapevolezza teologica proprio attraverso il contatto con la materialità degli oggetti e l’acquisizione di un particolare senso dell’umorismo nei confronti del sacro.  
Nell’analisi proposta da Victor Turner - Chihamba the white spirit: a ritual drama of the Ndembu (1962) - il rituale ndembu assume le sembianze di un enigma irresolubile; sarà Mary Douglas a suggerire a Turner una chiave di lettura che lo aiuterà ad uscire dall’impasse epistemologico in cui era caduto: per comprendere a fondo il Chihamba è necessario seguire la via dello “scherzo”.
In effetti, il Chihamba - letteralmente “spirito bianco” - rappresenta qualcosa in più di un rituale; esso costituisce per Turner un “meta-rituale” che racchiude al suo interno un elemento ulteriore, costitutivo, capace di “aprire una breccia attraverso modelli consuetudinari” (Turner, 1962): l’umorismo.
Al centro del rituale si trova Kavula - l’ambiguo semi-dio portatore di benessere e di tormenti - che trova una peculiare rappresentazione in un cumulo di oggetti della quotidianità, posti all’interno di un piccolo recinto, accatastati e ricoperti da un telo bianco che ne cela il contenuto. Il rito ha inizio nel momento in cui i responsabili del culto invitano un certo numero di candidati a colpire sulla “testa” Kavula - intendendo per “testa” il mortaio posto in cima alla catasta - e a compiere tale azione ridendo gioiosamente. Interrogati sulla presunta morte di Kavula, i candidati replicano con una risata spiegando come sotto al telo non ci fosse, in realtà, Kavula ma solo una zappa, un mortaio, ecc. Tale risposta sancisce la riuscita del rito: i partecipanti passano così ad assumere il ruolo di candidati di responsabili del culto.
Durante il rituale i partecipanti assimilano ed istituzionalizzano un certo senso comico, non a caso il rito si conclude ammettendo il carattere scherzoso della performance: in realtà si è trattato di uno scherzo, “uno scherzo di Chihamba”.
Il riso apre così un varco che permette di accostarsi alla divinità in maniera inedita, o meglio incongruente, in quanto evita che una data situazione coincida in termini razionali: «Ai candidati si è fatto vedere che l’effige di Kavula è letteralmente una costruzione sociale, un artefatto culturale» (Turner 1962).
In questa prospettiva il riso viene presentato come un elemento culturale “buono da pensare”, non solo in quanto riflesso comune all’umanità, ma quale potere destabilizzante capace di generare nuovi livelli di comprensione. Il riso - nei casi riportati - emerge da situazioni di incongruenza che consentono il “saltar fuori” dall’ordinario predisponendo alla riflessività.

Il moltiplicarsi degli esempi etnografici tratti dalle mitologie africane Ndembu, Fon, Peul, Giziga confermano quanto le pratiche rituali in queste comunità giochino costantemente sul tema dell’ironia, e soprattutto sul “farsi beffe” della divinità. Al contrario dei tre grandi monoteismi che - dice Remotti - sembrano aver relegato il riso ai margini dell’esperienza religiosa.
Il ridere della divinità e il tragico della vita si intrecciano e accomunano tutti i racconti presentati: in particolare è la figura del trickster - letteralmente colui che fa gli scherzi, il burlone - a permeare tali narrazioni. Il trickster mette in ridicolo tutti, anche la divinità, ed è una figura centrale nelle mitologie degli Indiani del Nord America ma non solo.
Spesso sono le donne, con le loro azioni buffe e maliziose, a combinare degli scherzi scatenando la collera divina ed il suo ritirarsi nell’alto dei cieli, lasciando gli uomini in balia del caos e dei loro inediti drammi. Il ritirarsi della divinità - unitamente al tema dello “scherzo” - rappresentano dei topoi centrali in numerose narrazioni mitologiche di cui ci informa l’etnografia africanista.

Anche le religioni abramitiche trovano un loro posto nella riflessione: è curioso notare come il riso, proibito nella relazione con il divino, è presente nella narrazione biblica fin dal principio - addirittura nel libro della Genesi - ed in particolar modo nella vicenda di Abramo e Sara.
Il patto siglato tra Dio e Abramo e suggellato dall’imperativo della circoncisione per tutti i nuovi nati, regala ai due anziani coniugi la gioia della genitorialità, fino a quel momento negata a causa della sterilità di Sara. Informati dell’arrivo di un figlio, Sara e Abramo reagiscono ridendo, un riso che non sfugge alla divinità e che costerà ai due protagonisti un duro rimprovero. Il lieve sarcasmo appare così una reazione propriamente umana, che sembra non essere compresa e comunque non tollerata da Dio, che scorge in quelle risate un evidente scetticismo e quindi una grave mancanza di fede.
Tuttavia, in altri due salmi sarà proprio Dio a ridere degli uomini, facendosi beffe di loro.
Per punire l’irriverenza di Abramo e Sara, Dio impone loro - sarcasticamente - il nome del nascituro: Isacco, ovvero “ha riso”!
Ma, se l’umorismo rappresenta un riflesso impertinente secondo la fede monoteistica, come spiegare tanta insistenza sulla questione del riso da parte dei redattori della Genesi, si chiede a più riprese Remotti? Forse per dimostrare agli uomini che Dio “può” far ridere - perché pone l’uomo di fronte a situazioni dall’incongruenza spiazzante (in questo caso due neo-genitori quasi centenari) - tuttavia non è permesso ridere di lui e tantomeno del suo potere sconfinato.
Il tema del riso torna ancora una volta nell’episodio biblico - quasi a sfidare nuovamente la pazienza divina -  quando Sara, alla nascita di Isacco, esclama: «Dio mi ha dato di che ridere!» …

In tutti i casi riportati, l’umorismo deriva dall’incongruenza generata dall’opportunità di rendere “possibile l’impossibile”: picchiare Kaluva sulla testa; diventare genitori a quasi cent’anni; gettare una secchiata di acqua sporca in faccia a Mawu-Lisa, la divinità androgina dei Fon del Dahomey; comportarsi in maniera oscena come i buffoni sacri tra gli Indiani del Nord America; o ancora, praticare l’ascesi al punto di ridere con la divinità, secondo l’esempio del misticismo sufi e dell’ascetismo di matrice bizantina dei “folli di Dio”.
Questi casi etnografici mostrano come l’umorismo costituisca un elemento chiave nella comprensione della dimensione rituale di molte società: attraverso di esso, diverse culture hanno dimostrato come sia possibile “desacralizzare ridendo un po’”, riflettendo sulle proprie credenze - relativizzandole - ma senza smantellarle. Questa terza via evita in sostanza il rischio di cadere negli eccessi della sacralizzazione spinta o della desacralizzazione radicale, inclini a pericolose derive, intolleranze e vuoti culturali.

San Antonio de cabeza, figura venerata nell'America centro-meridionale.
Il santo è posizionato a testa in giù dalle donne in cerca di marito fino al compimento della grazia.

sabato 11 novembre 2017

Festival di antropologia e dintorni

Si svolge in questi giorni a Torino la XII edizione del Festival dell'Oralità Popolare, la manifestazione organizzata dalla Rete Italiana di Cultura Popolare. L'evento in realtà quest'anno per la prima volta prende il nome di Festival delle Culture Popolari, volendo segnare una discontinuità rispetto alle edizioni precedenti. Secondo gli organizzatori, il Festival "continua il suo lavoro sul patrimonio immateriale, sui riti, sulle tradizioni, sui dialetti e sui linguaggi, ma con forza pone l'accento sul presente, sull'incontro con altre culture: un difficile ma necessario percorso di trasformazione delle comunità locali, così com'è avvenuto molte volte nella storia dell'uomo". 

Il mio post nasce dalla seguente considerazione: nonostante l'evidente centralità di una manifestazione come questa rispetto alla corrente riflessione antropologica sul tema del nesso tra identità, comunità, patrimoni, territori e migrazioni, molto marginale (se non del tutto assente) resta la presenza degli antropologi tanto fra gli organizzatori dell'evento, quanto tra i relatori invitati a prendere la parola. 

Un piccolo esempio che segnala la nota difficoltà della nostra disciplina nell'emergere nel dibattito pubblico rivendicando le proprie competenze e i propri saperi come essenziali per un'analisi critica del presente. Eppure le occasioni propizie non mancherebbero. Solo per citare gli eventi e manifestazioni con cui sono entrato in contatto negli ultimi mesi: il Pisa Folk Festival, il Festival It.a.cà, la rassegna Il dialogo creativo di Pordenone... non sarebbero tutti luoghi dove sviluppare un'antropologia pubblica capace di intercettare un pubblico diverso da quello con cui ci confrontiamo quando teniamo una lezione all'università, o quando pubblichiamo articoli su una rivista scientifica?

Sforzi certamente ne sono stati fatti in questi anni, provando a ideare iniziative e festival anche dichiaratamente ed esplicitamente antropologici. Un decennio orsono, sotto l'impulso di Francesco Remotti, la città di Ivrea, in Piemonte, lanciò il suo Festival Antropologia: se ne tennero quattro edizioni (dal 2008 al 2011), prima che la manifestazione soccombesse, secondo le parole degli organizzatori, "ai tagli dei finanziamenti alla cultura del 2012". Maggior fortuna ha invece avuto (e continua ad avere) la manifestazione Dialoghi sull'uomo di Pistoia, che dal 25 al 27 maggio 2018 vivrà la sua nona edizione. Il programma del festival è firmato da Adriano Favole e Marco Aime e, attorno alle questione dell'antropologia del contemporaneo, intende offrire a chi partecipa nuovi sguardi sulle società umane, ponendo a confronto antropologi, artisti, giornalisti, scrittori e personalità di diversi ambiti culturali in un colloquio che attraversi i confini disciplinari e proponga letture inedite del mondo che ci circonda. Il grande successo di pubblico (anche giovanile) delle diverse edizioni è stato raggiunto anche coinvolgendo nomi noti del mondo dello spettacolo, da Vinicio Capossela a Toni Servillo, da Erri De Luca a Francesco Guccini. 

Un ultimo, interessante caso che vorrei citare è quello del neo-nato Millepiani - Festival dell'antropologia, organizzato per la prima volta nell'aprile 2017 dagli studenti dell'omonimo laboratorio di antropologia dell'Università di Bologna. Un'iniziativa molto partecipata, a cui anch'io ho avuto il piacere di portare un piccolo contributo, che fortunatamente verrà replicata anche nel 2018 e, speriamo, per gli anni a venire.

E voi? Conoscete altri festival dell'antropologia (in senso stretto o lato) che si tengono in Italia o in Europa? Vi avete partecipato? Segnalate, commentate, diteci la vostra!

sabato 4 novembre 2017

Buon viaggio!

Alcuni giorni fa mi trovano in Albania, a Tirana, per partecipare a un convegno su migrazione, diaspora e sviluppo nei Balcani occidentali. Come sempre avviene in queste occasioni, oltre a presentare e ascoltare papers, si conoscono nuovi colleghi e si stringono amicizie. Chiacchierando a pranzo con Miloš Đurović, giovane antropologo montenegrino del Dipartimento di Etnologia e Antropologia dell'Università di Belgrado, la conversazione ha finito per toccare la questione dello "stato di salute" della nostra disciplina in Italia. "Non conosco molti colleghi italiani, lo devo ammettere", mi dice Miloš, "ma mi ricorderò sempre che il primo libro di antropologia che ho letto da studente è stato la traduzione in serbo di un bel volume introduttivo scritto proprio da tre antropologi italiani... non ricordo i loro nomi, ma il libro si intitolava 'Dal tribale al globale' o qualcosa del genere... non so se lo conosci".
Sì, lo conosco, eccome. A parte il malcelato orgoglio per la fortunata circolazione in Italia e all'estero dei volumi di antropologia made in Bicocca, questo episodio me ne ha fatto tornare alla mente un'altro, di qualche anno fa. Torno con la mente al 2005, sono anch'io uno studente, immatricolato alla Facoltà di Lingue Straniere dell'Università di Torino. Esame a scelta: Antropologia culturale, per i necessari cfu in Discipline demoetnoantropologiche. Primo volume da studiare per l'esame: "Storia dell'antropologia", di Ugo Fabietti. Il mio primo libro di antropologia, colpo di fulmine.

Sfoglio oggi quel libro. Pagine ingiallite e super sottolineate, con segnalibri vari e appunti a lato di ogni paragrafo. Graffe, punti esclamativi e interrogativi a segnare i passaggi più importanti e quelli incompresi. La copertina è stata mezza strappata, chissà quando, e poi aggiustata con il nastro adesivo, ormai rinsecchito. Rimetto il libro in biblioteca, con un sorriso.

Sei mesi fa Ugo Fabietti ci ha lasciato. 
Dopo la pausa estiva ricominciano le attività del DACS, con un nuovo ciclo di dottorandi del primo anno, mentre altri partono per il lavoro di campo e altri ancora sono impegnati nella scrittura della tesi. Per tutti loro, per tutti noi, rileggere le parole dell'introduzione a quella "Storia dell'antropologia" è forse il modo migliore per augurare: "Buon viaggio!".

"L'antropologia, che è un sapere relativamente giovane, merita l'attenzione dei giovani (e anche dei meno giovani) in quanto è la forma più sofisticata di riflessione che la nostra civiltà abbia saputo elaborare intorno al tema dell'alterità culturale, divenuto centrale per tutti quanti sono destinati a vivere in una dimensione sempre più planetaria".

lunedì 17 luglio 2017

Sono aperte le iscrizioni al Corso di perfezionamento in Antropologia Museale e dell'Arte


Diretto da Ivan Bargna

Il mondo dell’arte contemporanea, dei beni culturali e dei musei, negli ultimi anni ha dovuto confrontarsi sempre più con la diversità culturale e con processi di globalizzazione della cultura che richiedono nuovi strumenti di comprensione della realtà. Gli antropologi da parte loro hanno dedicato sempre più attenzione al ruolo svolto dalla dimensione materiale, estetica ed espressiva della cultura sia nelle società tradizionali che in quelle contemporanee.

AMA è stato ideato a partire da queste premesse: da un lato per soddisfare la diffusa  domanda di competenze antropologiche che viene dal mondo delle professioni creative (arte contemporanea, studi di architettura, design, pubblicità, comunicazione, moda, produzione di beni e servizi a driver creativo) e da altri campi delle scienze umane e  sociali e dall’altro per rispondere all’interesse crescente per l’arte, i musei e la cultura visuale che viene  dall’antropologia.

AMA consentirà agli studenti di acquisire solide conoscenze, teoriche e pratiche, nel campo dell’antropologia museale e dell’antropologia dell’arte e dei beni DemoEtnoAntropologici, attraverso il dialogo educativo con docenti italiani e stranieri di chiara competenza scientifica e solida esperienza di lavoro sul campo. 

AMA si rivolge a laureati, professionisti, insegnanti e a tutti coloro che vogliono approfondire la loro formazione culturale. Agli studenti magistrali o laureati in antropologia, in particolare, offre la possibilità di un completamento specialistico del proprio percorso di studi. 

Non si tratta solo di ampliare le proprie conoscenze ma di acquisire uno sguardo critico sull’arte, la patrimonializzazione e mercificazione della cultura, confrontandosi con la pratica teorica ed etnografica dell’antropologia e di sviluppare capacità progettuali, critiche, operative e professionalizzanti.

Il Corso è a numero chiuso – minimo 10, massimo 30 studenti – e vi si accede con una laurea triennale, magistrale o di vecchio ordinamento e attraverso una selezione per titoli e curriculum. Saranno valutate positivamente esperienze di tipo lavorativo, di studio o volontariato nel settore dei beni culturali DemoEtnoAntropologici, artistici, architettonici, paesaggistici, archeologici, archivistici. 


Il bando è disponibile sul sito www.unimib.it sezione “Dopo la Laurea – Perfezionamento e Formazione”. La domanda di ammissione si compila online, accreditandosi alla sezione “Segreterie online”, fino al 6 Ottobre 2017. Il costo è di 1000 euro. 

Le lezioni si terranno ogni mercoledì pomeriggio, dalle 14 alle 18 dal 22 Novembre 2017 – 28 Marzo 2018. A chi frequenterà il 75% delle lezioni e supererà la prova finale saranno riconosciuti 8 CFU. 

Per informazioni, 3772646834; ama@unimib.it 

venerdì 14 luglio 2017

Corso di Perfezionamento in Antropologia delle Migrazioni: all'anno prossimo!

Si è concluso questo giovedì 13 luglio 2017 il Corso di Perfezionamento in Antropologia delle Migrazioni indetto dal Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa” dell’Università di Milano-Bicocca e tenutosi presso lo stesso Ateneo. Il percorso didattico, che si è articolato lungo 76 ore di lezione, ha inteso offrire alle corsiste – la declinazione al femminile è d’obbligo, considerata la composizione del gruppo – uno sguardo panoramico, e allo stesso tempo approfondito, sul variegato e complesso fenomeno delle migrazioni contemporanee analizzate attraverso la particolare lente disciplinare dell’antropologia, un sapere che a partire dalle sue specifiche competenze “di campo” si propone di fornire preziosi strumenti teorici che permettano una migliore comprensione della realtà concreta dei processi storici, culturali, sociali, economici e politici che attraversano la nostra quotidianità. In questo senso, il fenomeno migratorio rappresenta oggi una delle chiavi di lettura più significative, tanto a livello nazionale quanto europeo, per via della rilevanza che tale questione ha assunto nel discorso pubblico e mediatico.


Attraverso il contributo di svariati relatori di pregio - non solo antropologi e docenti universitari, ma anche rappresentanti delle istituzioni, artisti, fotografi e documentaristi –, il corso ha preso le mosse dalla definizione dei contesti di origine delle migrazioni, focalizzando l’attenzione su alcuni casi studio che si prestassero all’analisi delle cosiddette “culture della mobilità”, problematizzando dunque allo stesso tempo concetti (e pregiudizi) come quello della “metafisica della sedentarietà”. Come ebbe a dire il celebre sociologo algerino Abdelmalek Sayad, infatti, occorre sempre tenere a mente che, anzitutto, ogni immigrato è anche, o soprattutto, un emigrato. Di qui la rilevanza per l’analisi antropologica dei contesti di origine, al fine di ricercare le pratiche e i saperi locali entro cui le migrazioni prendono corpo.
Parte del corso è stata poi dedicata al vero e proprio percorso migratorio, identificandone i principali canali di transito e soffermandosi dunque sulle possibilità e sulle modalità di attraversamento delle frontiere, per poi concentrare l’attenzione sui contesti di approdo e i processi di accoglienza e integrazione, ponendo l’accento - al di là dei dati numerici -, sulla dimensione esperienziale del migrante, inteso come soggettività attorno alla quale si configurano politiche, pratiche e saperi spesso conflittuali.
"The Migrants Arrived in Great Numbers", Jacob Lawrence (1940-41)

Un’ultima parte del corso, infine, ha spostato lo sguardo dalle migrazioni forzate, dei richiedenti asilo e rifugiati, al più ampio discorso della mobilità internazionale, ponendo particolare attenzione al mondo post-sovietico dell’Est Europa, per ricondurre il fenomeno migratorio non solo a dinamiche storiche di ampio respiro, ma anche per affrontare il tema del lavoro di cura che connota in modo preponderante le storie di migrazione di decine di migliaia di donne provenienti da Albania, Romania, Moldavia e Ucraina, così come anche da altri paesi al di là dell’Adriatico.

Per concludere, il corso ha rappresentato un’occasione preziosa per riflettere criticamente su un tema purtroppo troppo spesso affrontato con superficialità, piegato a strumentalizzazioni ideologiche di ogni sorta e giocato sulle vite delle persone. La costruzione consapevole di un sapere informato sulla mobilità umana rappresenta oggi una sfida aperta al futuro e per proseguire il tortuoso cammino lungo la strada di una migliore comprensione del fenomeno non resta che attendere fiduciosi la prossima edizione del corso!

martedì 27 giugno 2017

Call for papers: V Convegno nazionale SIAA

E' aperta la call for papers per il V Convegno nazionale della SIAA, la Società Italiana di Antropologia Applicata che quest'anno si terrà presso l'Università di Catania dal 14 al 17 dicembre.
Il titolo del Convegno 2017 è "Collaborazione e mutualismo. Pratiche trasformative in tempo di crisi": un'occasione utile per riflettere sulle modalità attraverso cui l'antropologia possa oggi contribuire a a riformare le pratiche di cittadinanza, di cooperazione e di lavoro in direzione maggiormente egualitaria, sinergica e distributiva. 
La call si chiuderà il 30 luglio: è richiesto l'invio di un abstract di massimo 250 parole e di una bibliografia minima di riferimento secondo le modalità qui specificate in italiano e inglese. Non perdete l'occasione di presentare una vostra proposta di intervento!


lunedì 12 giugno 2017

I seminari del DACS: "L'espansione europea nel Tardo Medioevo"

“Servirsi nel piatto degli altri con meno complessi possibili”. È con questa definizione di interdisciplinarietà che il Prof. Heim Burstin, docente di Storia Moderna presso il nostro Ateneo, ha dato il via al seminario DACS tenutosi il 24 maggio 2017. Se la Storia ha un privilegio, infatti, è proprio quello di poter instaurare un dialogo “predatorio” con tutti i saperi disciplinari che si avvicendano nel panorama accademico e non solo; privilegio ingrato, poiché solo lo scorrere inesorabile del tempo può concederlo. Di qui la proposta di un innesto consolatorio che a partire da una prospettiva storica possa tentare di pacificare il disagio della nostra “scienza inquieta”, come ebbe a definire l’antropologia il Prof. Malighetti durante uno dei primi seminari. 
Cristoforo Colombo

Da studioso ed esperto di Rivoluzione Francese, Burstin ha tuttavia voluto offrire il suo prezioso contributo parlandoci di un’altra rivoluzione; quella che nel corso del 1400 portò letteralmente alla moltiplicazione dei mondi conosciuti. A partire da una prospettiva storica esplicitamente riferita all’approccio della World History, dunque legata a istanze anti-etnocentriche (dal sapore inevitabilmente antropologico), la lezione si è proposta con il seguente titolo emblematico: “L’espansione europea nel Tardo Medioevo” e ha inteso illuminare quel cono d’ombra che soggiace dietro la scoperta dell’America o, per dirla con Todorov, “la conquista” dell’America; una zona temporale spesso sacrificata alla memorabile data del 1492, come se per quell’impresa non fossero occorsi secoli di conoscenze stratificate, tecnologie trasversali, esperimenti audaci e miserabili fallimenti. Solo partendo da tale presupposto è possibile dunque convincersi del fatto che la traversata di Colombo non fu un che un punto d’arrivo, l’esito glorioso (e sanguinario) di una serie innumerevole di fattori che la resero possibile, tanto dal punto di vista immaginativo, quanto, soprattutto, dal punto di vista pratico.
Mappa dell'El Dorado


Al di là delle fantasie che per secoli hanno alimentato le più fervide utopie e le più orrorifiche paure da proiettare oltre le Colonne d’Ercole, in uno spazio immaginario e immaginato, popolato di amazzoni, creature fantastiche e paradisi terrestri – fantasie concretizzatesi nelle cartine geografiche del tempo così come nell’aspettativa mossa da avidità dei conquistadores -, restano le evoluzioni tecnologiche che i saperi di avventurosi esploratori, naviganti e scienziati, hanno trasformato in strumenti di navigazione indispensabili all’espansione europea: bussole, sestanti, cartine, timoni, alberi da vela, imbarcazioni… Tutti strumenti che, applicati alla scoperta dei grandi venti costanti e regolari degli Alisei, permisero di approdare nelle Indie Occidentali. 
Ma non è tutto. Afferma Burstin, infatti, che proprio nell’ottica di una Storia che sappia ragionare su grande scala è doveroso aggiungere dinamiche di più ampio respiro che sospinsero quelle caravelle pioniere attraverso l’Atlantico. Non bisogna dimenticare, allora, la forte crescita demografica che caratterizzava il periodo tardo medievale e la conseguente esigenza di reperire risorse alimentari che ne potessero soddisfare la fame; così come il progetto religioso di espansione della fede cattolica, in cerca di proseliti da catechizzare; e la necessità di sviluppare vie marittime alternative alla rotta mediterranea che consentissero di raggiungere l’Oriente, dal momento in cui l’Impero Ottomano ne ostacolava il transito; ma anche il bisogno di oro e argento per la coniazione della moneta, così come il bisogno di spezie ed altri beni ancora. Solo prendendo in considerazione l’insieme congiunto di tutti questi elementi è possibile leggere la storia di Colombo in una prospettiva anti-etnocentrica e cominciare, dunque, a vedere con altri occhi tutto quel che seguì quel fatidico 1492.