venerdì 7 maggio 2021

Raccontare Storie: Gli Antropologi e Le Storie di Vita

Raccontare storie, storie di vita, storie di famiglie, storie di comunità e di relazioni, permette di esplorare in modi inediti e sotto forma di narrazione le profondità di una data società (Franceschi, 2012a). Un “manifesto epistemologico sul contributo delle storie di vita al rinnovamento del sapere disciplinare” (Fanelli, 2013: 16) in antropologia viene fornito da Pietro Clemente, uno dei pionieri degli studi sulle storie di vita in Italia (Franceschi, 2012a: 4), in un articolo del 1999: 

“Io amo l’antropologia che nasce dalle etnografie “singolari”, dalle storie della vita che l’antropologo ricolloca in contesti culturali specifici, ma con la consapevolezza che le singole storie rifanno costantemente i “contesti”, e vi è quindi un’apertura interpretativa larghissima e confini mobili e inquieti, un corredo metodologico straordinario per lavorare sul mondo di oggi. Personalmente transitando piccoli mondi e diverse storie ho capito che l’antropologia culturale, almeno quella che piace a me, (..) studia (..) il modo in cui, dentro le singole vite, una cultura viene appresa, giocata, interpretata, trasformata” (Clemente, 1999: 23).


Fig. 1 - Pietro Clemente ascolta la memoria familiare di Alberto Maria Cirese.
Foto di M. Magni, Castropignano (CB), Casa Cirese, ottobre 2005.

A partire dalle riflessioni e dai testi di alcuni antropologi che nel corso delle loro ricerche hanno lavorato con e attraverso le storie di vita dei loro interlocutori, l’articolo intende esplorare brevemente alcune delle questioni metodologiche fondamentali connesse alla scrittura e alla narrazione di storie di vita in antropologia. Il presente contributo si focalizzerà in particolare sulla costruzione e l’elaborazione del racconto biografico, sulla valenza scientifica e le potenzialità interpretative derivanti dall’analisi di tale documento, sulla sua “rappresentatività”, sulla soggettività del ricercatore durante il percorso di indagine etnografica così come sul suo rapporto con i soggetti della ricerca. 

Le storie di vita nell’ambito dell’antropologia culturale rappresentano da tempo un dispositivo che suscita sia interesse che perplessità per il suo essere al contempo strumento e oggetto di indagine (Franceschi, 2012b: 73). La vera sfida risiede infatti nella capacità di ottenere buoni risultati scientifici attraverso la raccolta e la narrazione di storie di vita (Franceschi, 2012a: 7), evitando sia il rischio di un eccessivo soggettivismo e particolarismo, non in grado di fornire elementi utili ad una comprensione più ampia del contesto storico, culturale e sociale che si intende indagare, sia l’errore di compiere infondate ed eccessive generalizzazioni. Rispetto a quest’ultimo aspetto, in particolare, a livello metodologico ed interpretativo “si pone una domanda sull’estrema specificità del tipo di conoscenza raggiunta, se abbia senso, cioè, prendere una vita come esempio di altre, e di quali altre, o di quale dinamica sociale più estesa” (Vignato, 2020: 171). 

Narrare storie di vita, inoltre, costituisce una pratica per nulla scontata, e questo non solo poiché essa richiede buone competenze linguistiche e l’instaurazione di un solido rapporto di fiducia e di reciprocità tra il ricercatore e i suoi “intervistati”, ma anche e soprattutto poiché, per scrivere la storia di una persona, non “basta” mettere in fila gli eventi della sua vita o aspettarsi un’assai difficile ed improbabile auto-narrazione da parte della persona stessa (ivi: 168). È necessario al contrario rielaborare ed organizzare i racconti spesso incompleti e frammentati forniti dagli interlocutori ed arricchirli con le note di campo, le frasi, i gesti, i silenzi, i balbettii, i discorsi accennati nei fugaci momenti della vita quotidiana (Franceschi, 2012a) che costituiscono, nel loro insieme, il complesso mondo dei soggetti che ci apprestiamo a raccontare. 

In questo senso, come suggerisce Flavia Cuturi (2012: 35), si può forse operare una distinzione “tra chi si è dedicato alle storie di persone appartenenti al proprio mondo e chi invece si è concentrato su quelle appartenenti a mondi linguistici-culturali diversi dal proprio”. Se infatti, ad esempio, come si apprende dai testi di Clemente (2013), nella tradizione demologica italiana gli antropologi hanno spesso avuto l’opportunità lavorare con storie di vita narrate o trascritte dai protagonisti stessi, gli antropologi impegnati nel lavoro di campo in contesti altri hanno più frequentemente documentato le difficoltà connesse alla raccolta di narrazioni biografiche, come nel caso della testimonianza dell’antropologa Zelda Franceschi in merito al suo lavoro di ricerca sulla storia di vita di Teodora Polo, donna indigena del Chaco argentino. 

“Le giornate con Teodora sono sempre state molto dense (..), ma raramente sono riuscita a farle un’intervista; quando ci ho provato, ed ora ne ho la riprova riascoltando i nastri, le mie domande non sono quasi mai state capite. Ho utilizzato termini inappropriati, e soprattutto credevo funzionasse il metodo “domanda-risposta” (Cuturi, 2010). Teodora faticava a collocare gli avvenimenti in un periodo storico preciso e io non mi ritrovavo in nessuna risposta che lei mi proponeva” (Franceschi, 2012b: 94). 

Poiché dunque talvolta può risultare difficile per gli interlocutori fornire narrazioni complete e coerenti, così come rispondere a domande precise e dirette, per il ricercatore può rivelarsi essenziale esercitare un certo grado di “immaginazione scientifica” (Vignato, 2020: 167), al fine di “creare un personaggio credibile” (ivi: 168). Per “narrare una vita rispettandone gli elementi fondativi” (ibidem), infatti, “è indispensabile chiedersi che cosa questo personaggio pensi, che cosa farebbe in una certa situazione, quali immagini lo attraversino, dove se ne alimenti” (ibidem). In altre parole “bisogna, in una certa misura, immaginarlo” (ibidem). Compiendo questa impresa, tuttavia, è quasi inevitabile commettere qualche “errore immaginario” (ibidem), che ciononostante può rivelarsi “una fonte di conoscenza molto importante” (ivi: 169). I racconti biografici, infatti, risultano preziosi proprio in quanto ci aiutano a rendere evidenti “le discrepanze, le crepe e le smagliature delle rappresentazioni nostre e di quelle altrui” (Franceschi, 2012a: 8). 

Dal punto di vista antropologico, un aspetto che risulta interessante comprendere è certamente il discorso (Franceschi, 2012b) e la sua costruzione. Risulta centrale riflettere sul valore della parola e sui modi culturalmente costruiti di narrare una storia. In tal modo si può “assistere allo spettacolo meraviglioso di una cultura vista dall’interno di una vita, e di una vita vista dell’interno di una cultura” (Clemente, 2013: 156). Nel caso della storia di vita raccolta da Ruth Behar, ad esempio, i diversi elementi che emergono dal racconto di Esperanza, una “lower-class Mexican womanhood-battered child, battered wife, abandoned wife, female head of household, unwed mother, ‘Indian’ marketing woman, believer in witchcraft” (Behar, 1990: 229), permettono di comprendere come la protagonista sia in grado di costruire e narrare la sua storia entro i limiti del suo mondo, limiti che essa stessa costantemente riproduce e mette in atto in termini per lei significativi (ibidem).


Fig. 2 - Ruth Behar ed Esperanza, con l’edizione spagnola del libro Translated Woman.
Crossing the Border with Esperanza’s Story, 2010.

Rispetto al rapporto tra ricercatore e soggetti della ricerca bisognerà tener conto, come sottolinea Carlo Severi (1990: 909), che i testi biografici contengono sempre l’immagine rovesciata dell’interlocutore. Il racconto biografico infatti “combina tre dimensioni diverse: l’esperienza individuale, gli effetti dell’osservazione sul campo e le coordinate del sapere condiviso nella cultura tradizionale” (ivi: 910); ciò significa che per studiare ed interpretare questo genere di documenti è necessario dotarsi di “un armamentario critico molto complesso” (ibidem). In particolare, lavorando con le storie di vita, “concetti come interpretazione, auto-rappresentazione e rappresentazione evidenziano alcuni punti nevralgici della relazione antropologo-informatore” (Ciampa, 2012: 285). Narrare una storia di vita è infatti, per sua stessa natura, un processo interpretativo, poiché nel momento stesso in cui noi narriamo un evento, lo interpretiamo (McBeth, 1993: 156). 

Alla soggettività della narrazione, inoltre, si associa oggi, sempre più spesso, la soggettività del ricercatore, una soggettività che, sebbene talvolta rischi divenire ingombrante, “è sempre più utilizzata nella forma di un doveroso tributo metodologico alla consapevolezza di come la sua presenza costruisca il dato etnografico e il sapere antropologico, insieme ai suoi collaboratori” (Cuturi, 2012: 32). 

Possiamo infine affermare come nel contesto di questo incontro di soggettività e di interpretazioni soggettive dell’esperienza si instauri una dialettica tra alterità e immedesimazione che permette di riflettere, in ultima analisi, sul significato profondo dell’antropologia e dell’esperienza etnografica. Come illustra Pietro Clemente (2013: 157), l’ascolto o la lettura di un racconto biografico risiede in primo luogo nello sforzo di “sentirlo altro”, collocandolo all’interno del “suo contesto”. Ne consegue che, se Egidio1  somiglia troppo a noi o se Nisa2, anziana donna !Kung, ci sembra facile da comprendere, significa che non abbiamo capito bene, che qualcosa non ha funzionato (ibidem). Quando si legge o si ascolta una storia di vita occorre infatti “impegnarsi ad entrare nell’alterità del suo mondo di riferimenti” (ibidem), poiché è in effetti solo quando si è “spaesati” all’interno di una storia d’altri che si può provare l’esperienza immaginativa di esservi entrati dentro e di esservisi “ri-appaesati” (ibidem). 

Le storie di vita, dunque, attraverso sforzi immaginativi e tentativi interpretativi, all’interno di complesse dinamiche di somiglianze, differenze e alterità, nelle difficoltà dell’incontro e nelle possibilità della relazione, in un continuo gioco di specchi tra soggettività molteplici e modalità narrative inedite, costituiscono uno strumento metodologico complesso e intrigante, e una fonte privilegiata di accesso alle modalità soggettive attraverso cui ciascuno vive ed interpreta la propria cultura. Concludo quindi con le parole di Zelda Franceschi sul significato delle storie di vita e dell’antropologia: 

“Fare etnografia aiuta davvero a stemperare l’idea che l’antropologo abbia sempre a che fare con differenze radicali sul piano pragmatico? Sprona a rendere familiari concetti lontani dall’esperienza e a non banalizzare quelli vicini? Non ho risposte definitive, ma sono certa che il nostro compito come antropologi sia proprio quello di andare nelle profondità delle società attraverso i percorsi individuali, in forma di narrazione e di vita vissuta insieme, nel tempo” (Franceschi, 2012a: 9).


Note

1. Rifermento ai testi autobiografici di Egidio Mileo: 1992, Il salumificio, Giunti, Milano; 2004, La luna nel risciacquo. Memorie della mia giovinezza, CISU, Roma.

2. Riferimento al testo dell’antropologa Marjorie Shostak, 1981, Nisa. The life and words of a !Kung woman, Harvard University Press, Cambridge.


Bibliografia 

Behar, R. (1990) “Rage and redemption: reading the life story of a Mexican marketing woman”, Feminist Studies, 16 (2), pp. 223-258. 

Behar, R. (1993) Translated woman. Crossing the border with Esperanza’s story, Beacon Press, Boston. 

Ciampa, C. (2012) “Raccontami la mia storia”, Antropologia, 14, pp. 277-306. 

Clemente, P. (1999) “Gli antropologi e i racconti della vita”, Pedagogika, 3 (11), pp. 22-23. 

Clemente, P. (2013) Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita, Pacini, Pisa. 

Cuturi, F. (2012) “Storie di vita e soggettività sotto assedio”, Antropologia, 14, pp. 29-71. 

Fanelli, A. (2013) “I con-testi del biografico: fonte, metodo e genere dell’antropologia culturale – Studi”, in Clemente P., Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita, Pacini, Pisa. 

Franceschi, Z. A. (2012a) “Introduzione”, Antropologia, 14, pp. 1-27. 

Franceschi, Z. A. (2012b) “Le buone mani e le mani buone di Teodora Polo: una storia di vita”, Antropologia, 14, pp. 73-112. 

McBeth, S. (1993) “Myths of objectivity and the collaborative process in life history research”, in Brettell C. (ed.), When they read what we write. The politics of ethnography, Londra, Bergin and Garvey, pp. 145-162. 

Severi, C. (1990) “L’io testimone. Biografia e autobiografia in antropologia”, Quaderni storici, 25, 75 (3), pp. 895-918. 

Vignato, S. (2020) Le figlie delle catastrofi. Un’etnografia della crescita nella ricostruzione di Aceh, Milano, Ledizioni.

Nessun commento:

Posta un commento