martedì 11 maggio 2021

Storie di Vita, Vita di Storie. La Centralità Antropologica della Narrazione


Per il seminario del 10 marzo 2021 Raul Zecca Castel, assegnista di ricerca presso il dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa” dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, ha sviluppato una riflessione metodologica sulla rilevanza delle storie di vita in antropologia. A partire dalla pubblicazione del suo libro Mujeres. Frammenti di vita dal cuore dei Caraibi (2020) ha tracciato un filo conduttore tra antropologia e storia, sottolineando l’importanza politica ed epistemologica di raccontare storie “minori”, perse nel flusso della storia dei “grandi”, e al contempo di ancorarle a un contesto più ampio, stratificato e complesso. 

Qui non intendo tuttavia dedicarmi al rapporto che intercorre tra antropologia e storia, ma piuttosto a quello tra antropologia e letteratura. Durante il seminario mi sono infatti domandata se, a prescindere dal carattere euristico che le storie di vita possono assumere per la ricerca antropologica, la loro “fortuna” non derivi anche dal semplice fatto che ci piace ascoltare storie e ci piace raccontarle. A partire da questo piccolo spunto, intendo analizzare brevemente la centralità del dispositivo narrativo nella regolazione ed espressione della vita umana (Damasio, 1999, 2010; Gottschall, 2012) e conseguentemente la sua importanza anche per la pratica antropologica (Sobrero, 2009). 


Fig. 1 - Un narratore di storie dei !Kung San, 1947. Immagine tratta dal libro di J. Gottschall (2012), L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani. Tr. it. Bollati Boringhieri, 2014.

Alberto Sobrero (2009), in un libro dedicato al rapporto tra antropologia e letteratura, ha considerato la pratica narrativa come uno dei più essenziali dispositivi conoscitivi dell’essere umano, il mezzo attraverso il quale organizziamo la nostra esperienza e proviamo a darle un significato. In stretta relazione con queste considerazioni, lo studioso di letteratura Jonathan Gottschall (2012) ha definito l’essere umano come il primate che possiede il tratto distintivo di essere dedito alla fiction, alla narrazione. Dai sogni diurni e notturni, ai giochi dei bambini o alle opere letterarie, la narrazione funzionerebbe come meccanismo volto a dare un ordine cognitivo e simbolico al mondo al fine di “addomesticarlo” e renderlo più familiare. La pratica narrativa avrebbe quindi un ruolo preponderante nel definire ciò che ci rende umani, addirittura a partire dagli albori del nostro sviluppo coscienziale, secondo quanto suggerito dal neuroscienziato Antonio R. Damasio (1994, 1999) o dal famoso esperimento condotto dagli psicologi Heider e Simmel (1944). 


Fig. 2 - In un breve filmato, gli scienziati hanno mostrato ai soggetti della ricerca delle figure geometriche intente a spostarsi nello spazio. I movimenti delle figure sono stati studiati per suscitare una certa risposta: facendo leva sulla fame di schemi e di organizzazione del materiale percettivo in forma di storie della mente umana, gli sperimentatori hanno indotto chi guardava il filmato ad assistere a un racconto dotato di un’archetipica forma narrativa, di un eroe, un antieroe e un personaggio da salvare. 

La fame di storie del nostro cervello sarebbe poi rintracciabile nelle più diverse discipline, dalla diffusione del genere cronachistico nel giornalismo (Darnton, 1975) fino alla struttura narrativa dei processi giudiziari (Bruner, 1986). Come scrive Alberto Sobrero (2009): 

"alla radice troviamo l’attitudine al NARRARE (magari scritto con tutti i caratteri maiuscoli) e poi, nel cespuglio che ne origina, i diversi generi della narrazione: la narrazione mitica, religiosa, scientifica […] ognuna intrecciata alle altre, eppure ognuna con i suoi caratteri specifici, ognuna in grado di narrare un aspetto del nostro mondo. Ognuna (e ogni disciplina nel suo particolare) obbligata a fare i conti con la letteratura, come dispositivo generale della vita e della conoscenza" (p. 16). 

Tra le scienze sociali, l’antropologia è stata particolarmente incline a occuparsi del rapporto che intercorre tra scienza e narrazione, non fosse altro perché “gli antropologi per mestiere devono raccontare storie di vita di paesi lontani, devono tornare a raccontare in un mondo che per un certo periodo hanno disabitato ciò che loro credono di aver capito di quel che altri hanno pensato di capire” (Sobrero 2009, p. 11). Nello sforzo di traduzione, l’antropologia ha conservato una natura ibrida e intermedia, tra la necessità di farsi documentazione scientifica e la componente per forza di cose soggettiva, evocativa e “romanzata” della sua forma espositiva. Come ha sottolineato Clifford Geertz (1980), tra i primi a indagare le strategie retoriche messe in atto dagli antropologi nei loro resoconti per legittimare la propria autorità di autori: “C’è qualcosa di stravagante nel costruire dei testi apparentemente scientifici partendo da esperienze ampiamente biografiche, il che è dopo tutto, ciò che gli etnografi fanno” (p.17). 

Al fine di legittimare e autorizzare il loro “essere stati là”, gli etnografi impiegherebbero una serie di tecniche letterali e autoriali che, secondo Geertz, hanno da essere indagate per la loro rilevanza epistemologica. La stessa filiazione dell’antropologia dalla letteratura meriterebbe del resto, sempre seguendo Geertz, di avere un posto maggiore nelle riflessioni metodologiche, troppo occupate a rincorrere le scienze naturali verso una presunta oggettività e neutralità osservativa. La scelta di “lodare” solo uno dei progenitori – la scienza a scapito della letteratura – ricorderebbe così “il mulo nord-africano che parla sempre del fratello di sua madre, il cavallo, ma mai di suo padre, l’asino” (p. 16).  I suggerimenti di Geertz, non senza divergenze di vedute, sono in parte confluiti nel celebre “Scrivere le culture” (1986), un testo collettaneo volto a indagare le modalità attraverso le quali “i procedimenti letterari – metafora, linguaggio figurato, racconto – influenzano le forme in cui i fenomeni culturali vengono registrati” (p. 26). 


Fig. 3 - Immagine tratta da D. Pennac (2007), Écrire, Éditions Hoëbeke, Paris. 

L’uso di procedimenti stilistici mette in risalto le somiglianze e le ascendenze tra letteratura e antropologia, rilevando alcuni degli aspetti di un rapporto che non deve tuttavia limitarsi a essere, come evidenzia Sobrero,

"una questione di strategie retoriche, di prestiti e filiazioni reciproche, ma qualcosa di più e di diverso. C’è del paradossale nell’autobiografia, nel voler raccontare la propria vita, ma non per questo bisogna pensare che sia meno paradossale raccontare la vita degli altri, specie quando sono gli altri a raccontarci la loro: quel che si ottiene è solo un doppio evidente paradosso" (Sobrero 2009, p. 12). 

Tra gli autori che hanno deciso di indagare con maggiore profondità questo “doppio paradosso”, Sobrero cita l’antropologo e romanziere Michel Leiris (1934) e in particolare il suo resoconto della spedizione Dakar-Gibuti, guidata dall’antropologo Marcel Griaule e svoltasi tra il 1931 e il 1933. Si tratta di un testo non a caso particolarmente ibrido, “une journal à double entrée” (p. 9) che è un po’ romanzo, un po’ un’etnografia, un po’ un’autoetnografia. Secondo l’antropologo James Clifford (1988) gli scritti di Leiris:

"non pretendono di conoscere un distanziato “esotico”, di capirne i segreti, di descriverne oggettivamente paesaggi, consuetudini, linguaggi. Ovunque vadano, registrano incontri complessi. […] Il lavoro sul campo di Leiris in un’Africa fantasma lo risospinge in una incessante etnografia dell’io, non un’autobiografia, ma un atto di scrittura della propria esistenza in un presente di memorie, sogni, politica, vita quotidiana" (p. 27).

Il lavoro di Leiris aiuta a riflettere sulle complessità metodologiche di una scienza tesa a pervenire all’oggettività tramite un massimo grado di soggettività. Una soggettività che va dunque posta al centro della metodologia tramite un lavoro di autoriflessione e nello sviluppo di in una costruzione narrativa volta a rilevare i complessi giochi di specchio dell’esperienza di campo. Tali considerazioni non vogliono suggerire una deriva troppo narcisistica, la famosa “malattia del diario” diagnostica già da Geertz (1980, p. 98), ma ricordare che la pratica antropologica possiede una natura intrinsecamente dialogica, si sviluppa in un lavoro processuale di costanti rinegoziazioni e posizionamenti sul campo. Come ha fatto presente durante il seminario lo stesso Raul Zecca Castel, le storie di vita si costruiscono nello spazio di incontro tra differenti biografie.

Riconoscere il carattere evocativo, letterario e congiuntivo (Bruner, 1986) dei resoconti antropologici non vuol dire per questo dimenticarsi dell’esigenza di rappresentare, del bisogno di “cristallizzare” un’esperienza in un’opera scientifica, di farla dialogare con altre opere, e di ancorarla quindi a contesti di storie e di vite più ampi e stratificati. Riconoscere che il mondo è mondo narrato, che conoscere ed elaborare è narrare e che abbiamo una particolare propensione per le storie e per la loro fabbricazione, aiuta a individuare la centralità della pratica narrativa e del racconto in antropologia. Da un punto di vista metodologico e interpretativo significa quindi

"fare i conti con i propri limiti epistemologici e con le proprie condizioni di conoscibilità, limiti e condizioni che devono essere esaminati criticamente e criticamente valutati allorché si ha la pretesa di parlare degli altri. “Altri” di cui bisognerà pur parlare (pena il silenzio). Il come ne parleremo dipenderà però dalla maniera in cui avremo fatto i conti tanto con le pretese di “oggettività” del nostro sapere quanto con le tendenze “narcisistiche” della nostra soggettività di etnografi" (Fabietti, 1999, p. 109).


Bibliografia 

Bruner, J. (1986), La mente a più dimensioni. Tr. it. Laterza, Roma-Bari 2003. 

Bruner, J. (2002), La fabbrica delle storie. Diritto, letteratura, vita. Tr. it. Laterza, Roma-Bari 2002. 

Clifford, J. (1988), I frutti puri impazziscono. Etnografia e arte nel secolo XX. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino, 2010.

Clifford, J., Marcus, G., E. (1986) (a cura di), Scrivere le culture. Poetiche e politiche in etnografia. Tr. it. Meltemi, Roma 1997.

Damasio, A. R. (1999), Emozione e coscienza. Tr. it. Adelphi, Milano 2000. 

Damasio, A. R. (2010), Il sé viene alla mente. La costruzione del cervello cosciente. Tr. it. Adelphi, Milano, 2012.

Darnton, R. (1975), “Writing News and Telling Stories”.  In Dedalus, fasc. 2, pp. 175-194.

Fabietti, U. (1999), Antropologia culturale: l’esperienza e l’interpretazione. Laterza, Roma-Bari.

Geertz, C. (1988), Opere e vite. L’antropologo come autore. Tr. it. il Mulino, Bologna 1988.

Gottschall, J. (2012), L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2014. 

Heider, F., Simmel, M. (1944), “An Experimental Study of Apparent Behavior”, in American Journal of Psychology, 57, 1994, pp. 243-259.

Leiris, M. (1934), L’Afrique fantôme, Gallimard Parigi 1981.

Sobrero, A. M. (2009), Il cristallo e la fiamma. Antropologia fra scienza e letteratura. Carocci, Roma.

Zecca Castel, R. (2020), Mujeres. Frammenti di vita dal cuore dei Caraibi. Arcoiris, Salerno. 

Nessun commento:

Posta un commento