domenica 8 gennaio 2017

Libertà di ricerca e ruolo dell'intellettuale oggi


A proposito del IV convegno di antropologia applicata svoltosi a Trento tra il 19 e il 21 dicembre (si veda il post "Abitare le crisi" di Giacomo) colgo questa occasione per riportare sommariamente ciò che è emerso dal workshop intitolato Libertà di ricerca e ruolo dell’intellettuale oggi coordinato da Sabrina Tosi Cambini, nota antropologa italiana. La SIAA dedicando un’intera mattinata ai contributi e alle testimonianze di antropologi ma anche di storici, economisti e giuristi, ha rinnovato il suo interesse a tener vivo un dibattito che ormai da giugno del 2016 ha visto insorgere ed indignarsi non solo la società civile ma anche la stessa comunità scientifica. Un giugno “dittatoriale”, come lo ha definito il collettivo Effimera, in cui ben tre antropologi sono finiti sotto accusa per aver preso parte a delle mobilitazioni sociali durante la loro attività di ricerca sul campo. Sono Roberta Chiroli e Franca Maltese, la prima condannata a due mesi di reclusione e la seconda indagata e poi assolta, per essere state presenti ad una manifestazione in Val di Susa contro la ditta Itinera impegnata nei lavori del cantiere TAV, e Enzo Alliegro, denunciato per aver partecipato ad una manifestazione contro l’abbattimento degli ulivi affetti da Xylella in Puglia. Ad essere condannato è il metodo etnografico, di cui l’osservazione partecipante è un suo tratto costitutivo, riconosciuto a livello internazionale da tutta la comunità scientifica. Diverse sono state le iniziative organizzate in reazione ad un’accusa apparsa come criminalizzazione del dissenso. Oltre alla petizione lanciata da Effimera e al documento sottoscritto da ANUAC, AISEA, SIAA e ANPIA a sostegno della libertà di ricerca, le principali iniziative accademiche si sono condensate nelle giornate del 12 settembre presso l’Università di Venezia, del 1 ottobre a Modena e del 14 ottobre a Bologna. 


A Trento, attraverso le voci di antropologi come Pietro Saitta, Nadia Breda, Francesca Coin, gli stessi Franca Maltese e Enzo Alliegro, dell’economista Andrea Fumagalli, dello storico Alessandro Casellato e dei giuristi Gianni Giovannelli e Alessandro Simoni, si è cercato di fare un bilancio sugli avvenimenti accaduti per riflettere sul rapporto tra ricercatore e Stato. Il ricercatore è infatti un organo epistemologico dello Stato il cui ruolo è quello di contribuire ad incrementare la ricerca, intesa come bene comune. In altre parole il ricercatore è un investimento che lo Stato fa per il bene della collettività, il suo capitale economico, sociale e culturale. La realtà però si manifesta in modo alquanto diverso. Con la svolta neoliberista dell’Università degli ultimi vent’anni, la produzione accademica del sapere ha perso la sua funzione pubblica, dialogante con la società, convertendosi alla logica privatista dedita ad una cumulatività della conoscenza sempre maggiore. Il ruolo dell’intellettuale non esiste più nella sua accezione romantica e tra produzione materiale e produzione intellettuale, tra “lavoro vivo” e “lavoro morto” non c’è più distinzione. Non è un caso che quello del ricercatore è uno tra i settori più precari. Oggi adattati alla cosiddetta economia politica della promessa in cui diamo credito ad un sapere in cambio di un futuro migliore, tutta la nostra vita si mette a lavoro al punto che, grazie alle nuove tecnologie, la produzione di conoscenza è sempre attiva, no-stop (Andrea Fumagalli). E nonostante ciò, assistiamo al paradosso per cui spesso per ricerche di impatto ambientale per esempio, lo Stato non si serve dei “suoi” ricercatori, a cui assegna peraltro borse di ricerca, ma preferisce pagare commissioni di esperti create ex-novo. 

Le eccessive accuse rivolte a Chirelli, Maltese e Alliegro ci mostrano chiaramente come lo Stato tenda a costruire e a legittimare quel soggetto lavoratore ordinato e disciplinato da cui ci ha messo in guardia Michel Foucault. L’antropologo che non si attiene alle uniche fonti legittime, ovvero quelle di Stato, e che dà voce alle posizioni dissentiste ed alternative, risulta scomodo e quindi da eliminare attraverso il dispositivo penale. La situazione è più critica di quello che si pensa, qui è in gioco la sopravvivenza stessa della disciplina. Ancora una volta l’antropologia è chiamata a riflettere sui propri limiti, che includono anche la scelta dell’oggetto e del campo di studio, e di problematizzarne il rischio. Ci dobbiamo interrogare sulla “vita pubblica della ricerca” per citare Didier Fassin, cioè sulla legittimità e divulgazione di un sapere, quello antropologico, che non è mainstream. Quando ci troviamo a fare ricerca in scenari di lotta e di conflitto dobbiamo essere consapevoli di inserirci sia a livello scientifico che politico in un campo di forze che ci richiede un certo tipo di posizionamento. Spesso quest’ultimo viene a sovrapporsi con la vita privata dell’antropologo. Nella sua testimonianza Franca Maltese ha spiegato come la sua partecipazione alle mobilitazioni non era soltanto osservazione partecipante ma rientrava in un più profondo e personale coinvolgimento ideologico nella lotta NoTav. Pertanto, anche le sue rivendicazioni contro l’accusa rivoltale dalla procura di Torino non hanno fatto leva soltanto sulla sua innocenza di dottorando di ricerca, ma su quella di tutti i presenti in una situazione in cui a suo avviso non si stata violando alcun diritto costituzionale. In questo senso oltre alla libertà di ricerca, è venuta meno anche la libertà di cittadinanza, ovvero il vedersi parte attiva della società civile. 

Questo ci porta ad un altro tema discusso vivacemente nel workshop trentino: l’eccezionalità accademica o universitaria. Dal punto di vista etico, nella ricerca di campo è giusto usufruire dell' “incolumità” istituzionale? Se da una parte per alcuni questo “lasciapassare di status” è necessario per  svolgere la ricerca senza ostacoli (mi viene in mente il caso Regeni), per altri, la pretesa dei ricercatori di essere trattati in modo diverso, solo per essere tali, da quei cittadini e movimenti sociali che pagano con il carcere il proprio dissenso, è alquanto “grottesco” (Pietro Saitta). E’ pur vero però che il potere dell’antropologo di dare voce attraverso la scrittura al dissenso, fa sì che spesso sono gli stessi informatori locali a chiedergli di poter usufruire dei suoi privilegi (Mara Benadusi). Eccezionalità o meno, ciò che secondo me è davvero auspicabile è che l’intellettuale di oggi esca dalle maglie costringenti di un’università burocratizzata e iper-regolata per parlare con i soggetti della sua ricerca al fine di produrre un sapere condiviso: con e per la società. Egli deve saper parlare del proprio tempo facendo emergere gli spazi di soggettivazione e di presa di coscienza critica della società, contribuendo allo stesso tempo ad attivarli. L’incontro è terminato con il comune incoraggiamento a continuare a ribadire in maniera convinta il diritto alla pratica del pensiero critico, formando gli stessi studenti alla presa di parola, e con la proposta di mettere in campo una rete di auto-tutela per la libertà di ricerca.

Nessun commento:

Posta un commento