Tutti
gli antropologi scrivono.
Partendo
da questa semplice considerazione, il seminario del 18 gennaio,
coordinato dal Prof. Vincenzo Matera e dal Dott. Francesco Vietti,
aveva come obiettivo quello di invitarci a riflettere sulle criticità
della scrittura etnografica. Ma quali sono i problemi posti dalla
scrittura? Quali sono le difficoltà che insorgono al momento di
testualizzare la nostra esperienza sul campo? E nel momento di
tradurre un testo da una lingua ad un’altra? Cos’è che ci
terrorizza e nello stesso tempo ci affascina così tanto dello
scrivere?
Il
libro di Vincenzo Matera “La scrittura etnografica” (2015), e il
percorso che ha portato alla sua recente ripubblicazione con la casa
editrice Elèuthera (il libro era già stato pubblicato in due
diverse versioni in anni precedenti), è emblematico dell’importanza
che la riflessione critica sulla scrittura ha acquisito nel corso del
tempo. Il nucleo tematico del libro risale infatti ai primi anni
Ottanta, alla tesi di laurea del Prof. Matera, quando ancora, per lo
meno in Italia, la scrittura non era oggetto di analisi. All’epoca
si pensava che scrivere fosse un’operazione neutra e imparziale al
servizio della descrizione e della rappresentazione etnografica.
Quando il Prof. Matera decise di affrontare questo argomento nella
tesi si scontrò con lo scetticismo degli antropologi a lui vicini.
Solo alcuni linguisti erano maggiormente disposti a considerare la
scrittura etnografica come oggetto di studio. In quegli anni i
principali riferimenti teorici dell'antropologia italiana erano lo
strutturalismo di Lévi-Strauss e gli studi sui nuer e gli azande di
Evans-Pritchard; il libro “Interpretazione di culture” di
Clifford Geertz del 1973
si studiava ancora molto poco; e gli antropologi del nostro paese
erano ancora legati a un ideale scientifico positivista, oggettivante
e fondato su certezze epistemologiche. Il modello di scrittura ideale
era quello proposto da Malinowski nel primo capitolo di “Argonauti del
Pacifico occidentale” (1922): uno stile asettico, neutro,
impersonale.
L’antropologo
Dan Sperber nel suo libro “Il sapere degli antropologi” (1984) è
stato il primo a proporre una riflessione sulla scrittura come
oggetto di analisi e sulle caratteristiche che la distinguono da
altri tipi di trasposizione grafica. La sua proposta ha inaugurato
quel filone di studi, anche linguistici, che ha preso vita dai primi
anni Ottanta, e che è sfociato, grazie anche al dibattito che ha
fatto seguito alla pubblicazione di “Writing Culture” (1986) a
cura di Clifford e Marcus, nel movimento decostruzionista in
antropologia. Da quel momento in avanti la scrittura etnografica non
è stata più la stessa: gli antropologi hanno smesso di considerarla
come una semplice operazione di trasferimento dei dati raccolti sul
campo all’interno di un testo accademico. Una volta riconosciuta
l’impossibilità di un rispecchiamento fedele della realtà
studiata nell'etnografia, dunque, si è cominciato a riflettere sugli
effetti manipolatori e artificiosi della scrittura, cioè sul
carattere costruito delle rappresentazioni etnografiche, nonché
sulla dimensione politica della scrittura, vale a dire sul
potere dell’antropologo di “prendere la parola” al posto
dell’altro.
Il
libro “The Anthropology as Writer” (2016), curato da Helena Wulff
(Università di Stoccolma) – uno dei testi oggetto di discussione
al seminario – offre alcune risposte interessanti agli
interrogativi e ai problemi che circondano la scrittura. Diversi
autori affrontano, talvolta da una prospettiva intima o creativa, le
difficoltà incontrate nel loro relazionarsi con vari tipi di
scrittura (articoli giornalistici, articoli accademici, diari di
campo, racconti di narrativa etc.). I diversi contributi sembrano
trovare tuttavia un comune denominatore nel cercare di rispondere
alla domanda: perché noi antropologi scriviamo? La scrittura
può essere infatti considerata una nostra “compagna di vita”
nella misura in cui ci accompagna nel corso di tutto il nostro
percorso professionale ed esistenziale: essa rafforza la nostra
autorità etnografica incorporata nel testo etnografico ed è
qualcosa che siamo tenuti a fare per assicurarci una professione
accademica. Scrivere è come dar vita a una performance, qualcosa di
valutabile dalla comunità accademica. Esiste dunque accanto al piano
ideale (perché
e per chi scriviamo)
anche un piano relazionale della scrittura, intesa come
strumento che ci consente di mantenere contatti con altri antropologi
che possono essere geograficamente e “culturalmente” molto
distanti. Intesa come collante sociale, essa ci restituisce, quindi,
un senso di appartenenza alla comunità antropologica. Ma se
consideriamo che la lingua predominante della comunità accademica è
l’inglese, e che ogni nostro prodotto testuale deve essere
imperativamente tradotto in questa lingua per poter essere condiviso,
possiamo davvero parlare di "comunità" in senso stretto?
Il
seminario è stato, infatti, anche un’occasione per dibattere sul
problema della traduzione di un testo etnografico in una lingua
straniera, in particolare sul senso di frustrazione dovuto
all’impossibilità di mantenere nel testo tradotto la stessa
profondità e ricchezza di significato della propria lingua. Ci siamo
quindi chiesti se rinunciare alla ricchezza formale e alle sfumature
della nostra lingua madre non possa d’altronde farci acquisire una
maggiore chiarezza rispetto ai concetti che vogliamo esprimere,
eliminando dal testo tutto ciò che potrebbe essere ridondante o non
essenziale ai fini del messaggio che vogliamo trasmettere. Sebbene la
questione sia molto soggettiva e personale (alcune persone infatti
trovano più facile scrivere in un’altra lingua che in italiano),
essa è servita a sottolineare come esista una gerarchia interna
all’antropologia globale, caratterizzata da centri di produzione
del sapere, veri e propri centri di potere che possono permettersi di
ignorare produzioni del sapere che fanno uso di altre lingue.
Il
problema della traduzione è strettamente connesso anche alla
questione della responsabilità (accountability), intesa come
obbligo, morale ed etico, dell’autore di rendere il più
comprensibile possibile al lettore e a coloro di cui scrive la
restituzione della sua esperienza etnografica, anche nella
consapevolezza del carattere fittizio delle rappresentazioni (ethno
fiction). A tal proposito, il Prof. Fulvio Carmagnola, presente
al seminario, ha sollevato un’ulteriore questione, chiedendoci: la
scrittura è un “campo” oppure è un “fuori campo”? Mentre il
Prof. Matera nel suo libro fa di tutto per decostruire la nozione di
“campo” evidenziando le relazioni asimmetriche che in esso
prendono forma e che caratterizzano il rapporto tra l'antropologo e i
suoi interlocutori, il Prof. Carmagnola propone di considerare la
scrittura stessa come un “campo”, a partire dalla constatazione
che nell’atto di scrivere qualcosa accade, nel senso che
qualcosa si produce. La scrittura può essere considerata un campo di
enunciazione (Foucault), un campo che come tale è presieduto da
figure di potere. In quanto campo di enunciazione, allora, la
scrittura non può mai essere considerata libera, ma deve
costantemente confortarsi con questioni di potere, un potere
invisibile, impalpabile, eppure presente, con cui dobbiamo
continuamente misurarci.
Se
da un lato è vero che il potere insito nella scrittura è qualcosa
di cui difficilmente possiamo liberarci (ed è questo forse a
rendercela allo stesso tempo affascinante e temibile), dall’altro
ciò che dobbiamo certamente continuare a difendere è l’idea di
un’antropologia non come produzione discorsiva del sapere definita
una volta per tutte, ma come disciplina finalizzata ad alimentare un
ambito discorsivo nel e con il quale possano entrare in relazione le
persone di cui scriviamo. Se non facciamo questo, cessiamo di essere
antropologi.
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