domenica 18 dicembre 2016

I seminari del DACS: dibattito con Roberto Malighetti e Angela Molinari

Mercoledì 14 dicembre si è svolto il secondo incontro previsto dal seminario DACS. Questa volta i protagonisti attivi siamo stati noi dottorandi che, insieme ad alcuni docenti presenti, abbiamo dialogato con Roberto Malighetti e Angela Molinari sul loro ultimo libro “Il metodo e l’antropologia. Il contributo di una scienza inquieta” pubblicato recentemente con Raffaello Cortina Editore. 



I due autori sono accomunati da un percorso formativo filosofico per loro particolarmente determinante. Questo testo è infatti l’esito di un lungo cammino intellettuale che nasce dal bisogno di riportare alla luce quelle problematiche - che cos’è una scienza, che cos’è una teoria, che cos’è il pensiero - troppo a lungo soffocate dall’antropologia stessa. Attraverso un approccio storiografico si ripercorrono i padri fondatori della disciplina in un climax ascendente di presa di consapevolezza del ruolo e della figura dell’antropologo. 
Il libro è rivolto principalmente a studenti ma anche ad antropologi affermati con l’augurio di riflettere sulle questioni epistemologiche del metodo antropologico. 

Noi dottorandi, dal nostro canto, abbiamo provato ad instaurare un vivace dibattito che si è rivelato una preziosa occasione per riflettere sulla nostra professione. Innanzitutto ci siamo chiesti perché l’antropologia viene definita nel testo come una scienza inquieta, riprendendo Foucault. A volte l’interrogarsi sui limiti della ratio occidentale può farci sentire inappagati e frustrati dall’impossibilità di arrivare al vero, ma secondo Malighetti non potrebbe essere altrimenti: l’antropologia è una scienza inquieta perché realista. Essa è in continua ridefinizione e ciò deriva dal fatto che da sempre si è dovuta confrontare con la condizione de-strutturante di un mondo opaco e impenetrabile nella sua essenza. 
L’inquietudine epistemologica non deve spaventarci perché è proprio quel quid che ci spinge a ricercare e a de-costruire l’egemonia del pensiero unico. 

E’ a Clifford Geertz che dobbiamo il merito di aver costretto gli antropologi a ripensare profondamente il metodo etnografico e la relazione soggettività-oggettività, e ciò proprio in un momento di passaggio dalla colonizzazione alla decolonizzazione. 
Questa nuova ondata di riflessività che pervade l’antropologia a partire dagli anni ’70 nasce dall’etnografia stessa. E’ infatti nel campo che gli antropologi sperimentano i limiti della scienza positivista e cominciano a considerare l’altro non più come un oggetto inerme ma come soggettività storica. 

Cosa succede quando la mia soggettività incontra un’altra soggettività? L’altro è come me? E solo se è come me posso conoscerlo? Siamo sicuri che il coinvolgimento diretto del ricercatore nell’azione rituale sia strumento indispensabile per la comprensione (experiential approach)? Abbiamo discusso di empatia, distinguendo tra una etica ed una epistemologica. Se la prima è infatti necessaria all’incontro, la seconda, secondo la professoressa Molinari, è poco produttiva perché il diventare come l’altro non mi mette nella condizione di percepire l’alterità e di analizzarla. Del resto, ci poniamo domande quando incontriamo la differenza e non la somiglianza. Gli autori sottolineano con forza come l’antropologia debba fare i conti con un metodo che parte dalla soggettività, dal posizionamento del ricercatore e dalla sua storicità. Non esiste un modello di ricerca standard o principi applicati universalmente perché è proprio l’empiricità a plasmare di volta in volta i modelli epistemologici. 

Rispetto all’importanza del linguaggio, Malighetti e Molinari sono in disaccordo con coloro che muovono la critica di logocentrismo all’antropologia interpretativa: anche l’utilizzo di strumenti tecnologici come la fotografia, il filmato, ad un certo punto avranno bisogno della parola, altrimenti non potremmo confrontarci con una comunità scientifica fondata sulla testualità. Il campo stesso è saturo di documenti (la letteratura scientifica, i documenti degli interlocutori, lettere da e per il campo, i racconti individuali) e non esiste indipendentemente dalle pratiche di scrittura e di lettura. 

Ma fino a che punto possiamo negoziare questo metodo che si fonda sulla soggettività, senza perderne il valore, quando applichiamo l'antropologia ad un contesto interdisciplinare? Malighetti ci riformula provocatoriamente la domanda: qual è la nostra competenza in un contesto che troppo spesso non ci ascolta? Negoziamo per convincere, per semplificare, o invece per farci capire senza però snaturare la nostra professione che si basa proprio sulla complessità? 
L'antropologia è una disciplina che ha tanto da dire alle altre scienze, perché in virtù del coinvolgimento esistenziale dell'osservatore non può prescindere dal problematizzare ciò che altri metodi nascondono o danno per scontato. 

Così come nell'intento degli autori non si dà conclusione nel libro, in modo simile il seminario si chiude lasciando delle questioni in sospeso invitando a continuare a riflettere e a complessivizzare. 

3 commenti:

  1. Grazie a tutti i dottorandi per l'ottima partecipazione all'incontro in termini di domande e riflessioni! E' stato davvero un dibattito interessante... tra l'altro Angela Molinari è una dottoranda DACS, quindi massima soddisfazione e molti complimenti a lei!

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    1. Chiedo scusa del ritardo con cui rispondo augurando buon anno a tutti! Anche per me è stata un'esperienza intensa e stimolante tentare di rispondere alle suggestioni di un pubblico così vivo e accorto. Non so se mi ricapiterà...

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  2. Il seminario e il confronto "circolare" è stato molto vivace, aiutato anche dalla diversità di modalità espositive, di ruolo, e in alcuni casi, di posizione, dei due relatori. Sono "tornata a casa" con molte questioni aperte e con una positiva inquietudine. Condivido con voi un pensiero, una domanda irrisolta, emersa quel pomeriggio: la mia ricerca etnografica e i miei scritti sono rivolti in primis alla comunità scientifica antropologica? Quindi quando scrivo devo pensare a loro come interlocutori? Ma chi è questa comunità di riferimento?

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