venerdì 30 dicembre 2016

Antropologia e fotografia

Per concludere in bellezza il 2016 vorrei segnalarvi uno spunto che ritengo interessante per questo periodo festivo (ovvero: se avete un giorno libero e volete fare una gita, ecco un'idea interessante).
Fino all'8 gennaio 2017, all'interno del Forte di Bard in Valle d'Aosta, è allestita la mostra fotografica World Press Photo 2016. Si tratta dell'esposizione delle immagini premiate quest'anno dal più importante concorso internazionale di fotogiornalismo. Circa 150 scatti che hanno l'ambizione di documentare ciò che di rilevante è avvenuto a livello mondiale nel corso dell'ultimo anno. Il premio è giunto alla sua 59esima edizione e nel corso del tempo ha contribuito a trasformare alcune fotografie in vere e proprie icone.

Visitando la mostra la scorsa settimana, e soffermandomi di fronte alla foto vincitrice di questa edizione del premio, uno scatto dedicato al viaggio dei migranti attraverso i Balcani, mi è tornato alla mente un passaggio di un importante articolo di Franco Remotti. Un intervento pubblicato nel 2012 sulla rivista "L'Uomo" con il titolo "Antropologia: un miraggio o un impegno?", in prossimità della conclusione del suo impegno accademico. Uno scritto molto bello e denso, in cui Remotti tra le altre cose scriveva: "Piccole esperienze, aneddoti, episodi: è sufficiente che siano fatte da coloro che si chiamano antropologi perché diventino esperienze antropologiche, e così la tendenza che ne emerge è quella di un’antropologia che io chiamo appunto aneddotica o episodica (contrapponendola a strutturale), un’antropologia che rasenta il giornalismo e che, a mio modo di vedere, rischia molto spesso di dimostrarsi assai meno interessante, valida ed efficace di una buona inchiesta giornalistica. Per esempio, se si tratta di esperienza vissuta, quale ricerca antropologica sui flussi migratori è in grado di competere con resoconti di giornalisti che hanno vissuto direttamente l’esperienza della traversata del Sahara? (Fabrizio Gatti, 'Bilal')".

Lo stralcio è parte di una serrata critica che Remotti rivolge alla disciplina, schiacciata a suo modo di vedere sulla dimensione del particolarismo etnografico e spesso incapace di sviluppare un discorso antropologico più ampio e "inattuale". Un dibattito che non intendo qui rievocare nella sua complessità, ma di cui vorrei recuperare un elemento se volete banale: che cosa differenzia appunto un'etnografia da un buon reportage giornalistico? Che cosa li distingue nel linguaggio? E tornando alla mostra fotografia: che cosa raccontano del mondo le immagini del World Press Photo di simile o diverso rispetto alle nostre ricerche? Molti dei temi, in fin dei conti, sono assai simili: chi visita la mostra al Forte di Bard trova scatti che descrivono il rapporto tra uomo e ambiente in Brasile, questioni di genere e di omogenitorialità nella società statunitense, i viaggi dei migranti nel Mediterraneo, rappresentazioni della nascita, della malattia e della morte in Europa, l'estetica della lotta tradizionale in Senegal, le condizioni del lavoro in Cina, gli spazi dell'abitare nelle periferie delle città in Italia. Antropologi e fotogiornalisti guardano attraverso l'obiettivo fotografico con gli stessi occhi? Oppure no?

Questioni ovviamente già ampiamente dibattute, e da lungo tempo, nell'ambito dell'antropologia visuale, ma che rimangono a mio avviso aperte e di grande attualità. Anche alla luce della considerazione, ad esempio, che alcuni dei fotogiornalisti premiati nel corso del tempo e quest'anno dal World Press Photo sono proprio antropologi, o hanno quanto meno avuto una formazione antropologica: nell'edizione del 2016 troviamo ad esempio Anuar Patjane Floriuk, "photographer and anthropologist", e Nancy Borowick, laureata in antropologia e premiata per un progetto fotografico sul tema della malattia terminale con un forte impianto antropologico. Nelle edizioni degli anni scorsi, particolarmente interessante a mio avviso il reportage sui giovani nomadi americani premiato nel 2010 e firmato da Kitra Cahana, canadese, antropologa visuale.

Come recepiamo noi antropologi questi lavori fotografici? E come li recepisce il pubblico dei giornali dove sono stati originariamente pubblicati? 
La riflessione su come il pubblico veda e interiorizzi questi scatti è un altro degli spunti di riflessione che mi sono stati suggeriti dalla visita della mostra. Che tipo di esperienza si vive infatti osservando queste immagini, decontestualizzate dalla loro dimensione informativa e di denuncia, e trasformate in opere d'autore, la cui fruizione comprende una forma di valutazione estetica e di estraniazione dalla realtà che pure rappresentano, come tipicamente avviene in musei e gallerie d'arte? 

Insomma, tutta una serie di quesiti e domande su cui sarà interessante confrontarsi nei prossimi mesi, magari non solo in chiave teorica, ma anche lanciando una sfida applicativa: perchè non pensare di realizzare nel 2017 una mostra fotografica con le fotografie scattate durante le ricerca sul campo dai dottorandi del DACS? Una mostra da esporre fuori e dentro l'Università, per presentare i nostri "lavoro in corso" ma anche per riflettere su come gli (aspiranti) antropologi utilizzano le immagini e la fotografia come strumento di ricerca, di documentazione e comunicazione. 

E con questo buon proposito per il 2017... buon anno a tutte/i!

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